Il buon nome, un racconto inedito di Massimo Zammataro

Molti furono i partecipanti al funerale di Giulio Denadais, ragazzino diciassettenne appartenente a quella “Padova bene” che, borghese e conformista, era confluita in massa presso il Duomo cittadino, stringendosi compatta nel lutto che aveva colpito la nota famiglia di ricchi professionisti, ora distrutti dal dolore per l’incolmabile perdita di una giovane vita strappata prematuramente ai suoi più cari affetti”: la retorica del sermone funebre era – ovviamente – tarata sul livello di ipocrita emotività degli astanti, a tal punto contriti che, tra una mesta scrollata di capo ed una panoramica occhiata di controllo delle presenze, riuscivano anche a twittare patetici luoghi comuni grondanti un cordoglio da cioccolatini. Al passaggio del feretro, si udirono anche gli inconfondibili scatti fotografici di alcuni smartphones di gran moda.

Nel precedente sabato notte il giovane, rientrando da una discoteca di grido con la sua micro-car ultimo modello, si era impastato contro un platano della circonvallazione interna. Il tasso alcolico rilevato, in ciò che rimaneva del suo corpo dilaniato, era al limite del coma etilico.

Vuoi per la durezza dell’evento, vuoi per la giovane età della vittima, ma soprattutto per la notorietà della sua famiglia, la stampa – adeguatamente prezzolata per glissare sulla circostanza dell’eufemistico “stato di ebbrezza” – diede un notevole rilievo alla vicenda, con paginate agiografiche della vittima, interviste a compagni di scuola, amici e vicini di casa i quali, tutti, non facevano che ripetere, in buona sostanza, quanto fosse stato un bravo ragazzo il defunto Giulio.

In realtà, molti – soprattutto tra gli amici più stretti – tacerono, per timore di ripercussioni, che Giulio non era stato proprio lo stinco di santo che si stava dipingendo, anche se, a conti fatti, loro Giulio “lo stimavano tantissimo”. Infatti, il rampollo era stato il bello e carismatico ragazzetto dalle cui labbra pendevano tutti (e tutte…), il classico viziatello arrogante e sfrontato, il quale, nonostante fosse stato ben lungi dall’aver ottenuto brillanti risultati scolastici (ma i genitori si sarebbero battuti fino alla morte sostenendo la colpa dagli insegnanti che, chiaramente, l’avevano preso di mira), riusciva a farsi beffe dei professori e, in generale, a fare ed avere ciò che gli pareva: abiti griffati, denaro, tecnologia, zero orari, discoteca, alcol e femmine (anche “più grandi”, si vociferava).

Insomma, il sogno di ogni adolescente 2.0, ma non solo.

Infatti Giulio, oltre a fornire agli amici un fulgido esempio da seguire, li riforniva anche di marijuana con cui farsi le canne durante i loro lunghi pomeriggi trascorsi poco sui libri e molto più, invece, davanti alla Playstation o bighellonando in piazza Duomo, dove non potevano immaginare che si sarebbero ritrovati per piangere il loro personal pusher.

Giulio, viziato ed annoiato dal fatto di poter avere tutto a semplice richiesta, aveva messo in piedi un florido giro di spaccio di droghe leggere tra i suoi danarosi coetanei, così quasi per gioco, fino a ritrovarsi per le mani almeno un migliaio di euro a settimana al netto delle spese di approvvigionamento.

Nessuno, in famiglia, si pose mai il dubbio su come il pargolo potesse permettersi certi lussi, di cui Giulio non faceva mistero, fino a qualche giorno prima. Successe, infatti, che l’avvocato Manfredi Denadais, padre di Giulio ed illustre penalista, fosse informato, in via privata e confidenziale, che nel più ampio ambito di un’indagine sul traffico di droga, la Procura della Repubblica stava per formalizzare l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti nei confronti del figlio.

L’avvocato venne, così, a conoscenza di quale specie di delinquente aveva cresciuto. Ovviamente, pensò, lo scandalo non si poteva evitare, dato che anche i giornali avevano le loro talpe negli uffici al quarto piano del Tribunale, uno scandalo che né lui, né la moglie, né la famiglia in generale, potevano permettersi.

Non disse nulla alla moglie e, invece, fece una telefonata ad un suo cliente e prese accordi.

Quando, alcuni giorni dopo, ricevette la notizia del decesso del figlio in quelle tremende e tragiche circostanze, attese che i calmanti somministrati alla moglie facessero effetto e poi, chiuso nel suo studio di casa, chiamò il suo cliente.
“Sono io…” disse.
“Sì.” rispose laconicamente una voce dal chiaro accento est-europeo.
“Non c’è più bisogno di te” proseguì l’avvocato.
“Non capisco…”.
“Certo, sarai pagato ugualmente. Stessa cifra, stesse modalità. Arrivederci” e riagganciò senza attendere risposta.
Poi si versò un cognac e, rilassandosi, pensò che, comunque fosse andata,l’onore e il buon nome della famiglia era salvo.

L’avvocato Denadais non aveva versato una lacrima, né durante la cerimonia né durante l’esumazione, rimanendo sempre impassibile: chiuso in un dignitoso e riservato contegno, scrissero i giornali.

Gli stessi giornali che, un paio di giorni dopo, avrebbero scritto numerose colonne sull’arresto dell’avvocato Denadais, accusato di aver commissionato l’omicidio del figlio ad un balordo albanese, già noto agli uffici per reati contro la persona, il quale aveva manomesso i freni della mini-car di Giulio, riuscendo a far passare lo schianto come un tragico incidente.

Il principe del foro, convinto che il suo sicario non avesse avuto ancora parte nella morte del figlio, l’aveva subito chiamato, senza pensare che il telefono di casa potesse essere ancora sotto il controllo della polizia che indagava sul figlio spacciatore.