Il Cacciatore di Teste regge fino a pagina 250 e poi… poi… lasciamo perdere!
Titolo: Il cacciatore di teste
Autore: Jo Nesbø
Editore: Einaudi
PP: 293
Prezzo: 18 euro
Roger Brown ci proietta nella dimensione mai realmente perscrutabile dei cosiddetti Headhunter, coloro che procacciano manager irreprensibili per le grandi multinazionali affamate di cervelli, esattamente come gli zombie.
Il suo lavoro lo mette a contatto con tecniche da interrogatorio vere e proprie, in particolare quello “a nove fasi, di Inbau, Reid e Buckley”, usato ad esempio nei casi di sospette attività terroristiche.
Coltiva un hobby pericoloso: i furti d’arte.
Ha una bellissima moglie, un’ex-amante disturbata e disturbante, una reputazione da difendere (e quella è tutto per uno Headhunter), un talento eccezionale nel suo lavoro. Ha un latente complesso per la bassa statura, e un evidente bisogno di compensazione che ne traccia il profilo psicologico in maniera convincente.
Roger Brown ha un solo difetto: il suo autore. Sì perché dovete sapere che Jo Nesbø non crede in Roger Brown.
Jo Nesbø non crede nelle scelte del suo protagonista, né crede nella vicenda che si intesse sotto i suoi piedi da cacciatore di teste. L’autore non crede nella storia che sta scrivendo (e forse è l’unico, mi verrebbe da dire), ma il motivo ve lo spiego dopo.
Tutto il giocattolo che Roger Brown tiene tra le mani si rompe quando entra in scena Clas Greve, il prototipo del manager-squalo, perfettamente palestrato, perfettamente impomatato, perfettamente alto e snello, perfettamente conscio del proprio valore e delle proprie potenzialità.
Clas Greve è tutto quello che avreste voluto essere nella vostra vita (io no, eh, intendiamoci, la mia aspirazione massima era quella di scrivere per Sugarpulp, e quindi mi sento arrivato, tié), ma che non siete riusciti ad avverare perché non siete usciti dalla penna di Jo Nesbø.
In quel momento ha fine la vita da cacciatore di teste di Roger Brown, e ha inizio il thrillerone promesso dall’autore: una serie di incastri ed eventi che prendono un ritmo davvero interessante, e che si dipanano chiarissimi e limpidi sotto l’occhio vigile del lettore. C’è tutto quello che potete desiderare, nella caduta di Roger Brown, e se siete amanti di questo genere spiccatamente cinematografico, credo vi soddisferà (certo, evito di commentare chi paragona Nesbø a Ellis, che davvero lì si esagera).
Ma ancora una volta, c’è quel Jo Nesbø lì, scrive la storia eppure non gli piace. Pensa alla trama, e non ne è sicuro. Forse che si è perso nei meandri dei romanzi seriali con il suo adorato Harry Hole? E, dal momento che Roger Brown Headhunter non fa parte di quella serie, allora significa che agli occhi dell’autore stesso è uno da trattare male? O peggio, Jo Nesbø pensa forse che il suo lettore medio sia un ritardato che non presta attenzione ai dettagli?
Perché dico questo?
Perché l’ultima parte de Il Cacciatore di Teste è la spiegazione accademica e dialogica (ma non posso dirvi tra chi e chi, altrimenti sai che spoiler) di tutte le vicende (già chiarissime) occorse nello svolgimento del romanzo.
Jo Nesbø ha scritto il suo romanzo. Poi lo ha riletto. E ha deciso che andava spiegato, alla fine del romanzo stesso.
Ora, spero che questo sia dettato da una scrupolosità eccezionale e da un bisogno maniacale di esplicitare ogni dettaglio. O, meglio, da un’insicurezza dell’autore su come ha narrato la vicenda, temendo che non fosse completamente chiara.
Perché, caro Jo, se la spiegazione alla fine l’hai messa pensando che “se il romanzo lo legge un demente come Rick, allora forse è meglio spiegare per bene tutto alla fine”, sappi che io sto acquistando un biglietto aereo per Oslo, così regoliamo i conti faccia a faccia.
Non è mai bello quando l’autore si mette a spiegare la vicenda, alla fine del romanzo, per molti motivi. E Il Cacciatore di Teste pecca proprio in questo.
Insomma, mentre sono sull’aereo Venezia-Oslo, vi do un consiglio: leggete Il Cacciatore di Teste, ma fermatevi a pagina 250. Altrimenti, davanti a casa di Jo Nesbø ci sarà una folla di persone a chiedere la testa dell’autore, urlando: “No, Jo, non siamo scemi!”
No, Jo, non sono scemo, e il tuo romanzo l’avevo capito da solo.
Grazie.