Il campo di barbabietole, un racconto di Matteo Strukul per Sugarpulp
Entro nel granaio. È seduta su una sedia di legno, una di quelle con i braccioli. Ha un vestito semplice, di cotone chiaro, per ripararsi dalle labbra umide e insopportabili di questo caldo che succhia il fiato.
La sua pelle è liscia, perfetta e nera, come l’ebano. Ha le mani giunte. Le tiene in grembo come se volesse proteggerle. Attorno al collo una catenina d’argento.
Rimango a fissarla per un attimo. La sua figura, così composta e elegante, mi ricorda quella di una regina.
Il granaio è immenso, i cumuli di fieno schermano in parte la luce dorata e molle che filtra dall’alto.
La donna respira piano. Un profumo dolce, un aroma intenso la avvolge in una nuvola invisibile. Quando arrivo vicino a lei, alza gli occhi. E, quando li apre, resto senza parole. Perché dentro non c’è niente. Qualcuno li ha tolti.
Lei solleva la mano come se dovesse pregarmi di non dire nulla. La mano è un’unica ragnatela di tagli e cicatrici, un reticolo di linee nere e rosa, di ferite rimarginate male ed ecchimosi.Poi parla. La sua voce è morbida, di velluto, ma è trafitta da spine di dolore e stanchezza.
«Mi chiamo Aza» dice «qual è il tuo nome?».
«Mila».
«Giovanni mi ha detto di parlare con te. Che tu puoi aiutarmi».
«Giovanni parla troppo».
«Con me non è stato così. Mi fido di lui. Perciò, mi fiderò di te».
Aza sorride. «Proverò a raccontarti quello che mi è successo».
«Ti ascolto».
«Ho lavorato per degli uomini, in questa terra. Ogni giorno, per cinque anni da quando sono arrivata qui. Mi hanno messa per quattordici ore a raccogliere il radicchio dall’alba al tramonto. Poi le barbabietole. Poi le patate. Non mi hanno pagato per questo. Mi tenevano dentro a una stalla, insieme ad altre donne come me. Indossavano delle maschere per non farsi riconoscere».
Sto per dirle qualcosa, qualsiasi cosa pur di sputare fuori il disgusto, ma lei avverte le mie intenzioni anche se non può vedermi.
«Aspetta» dice Aza «ho appena cominciato».
«Ci hanno affamato. Ci hanno tolto tutto quello che avevamo. La dignità, l’orgoglio. C’era un uomo in mezzo ai campi. Era alto, snello, era l’unico che non usava la maschera, aveva degli occhiali da sole e vestiva sempre di chiaro. Aveva i capelli lunghi. Prendeva le donne che voleva, gli bastava un semplice cenno del capo e quella indicata doveva seguirlo fuori dal campo e raggiungerlo vicino a un gruppo di canne. Lui si spogliava e diceva alla donna di mettersi a quattro zampe con le gambe aperte. La montava come un animale fino a farla urlare e piangere. Faceva tutto quello che voleva. Stava in posizione eretta, attento a non toccarla più del necessario. È sempre stato così. Per anni. Poi, quando non servivamo più a lavorare, perché eravamo carne consumata, ci toglievano gli occhi, per sicurezza, e ci uccidevano».
Aza si ferma un istante.
«Le ferite alle mani… come te le sei fatte?» chiedo.
«Le barbabietole. Per estrarle dalla terra utilizzavo un arnese con tre coltelli, si chiamano rebbi, a punte ricurve. Il manico si fissa a una fune che collegano a un sacco avvolto in vita. Con un movimento del bacino facevo penetrare i rebbi nella terra. Se quello non bastava, mi aiutavo con un forcone. Una volta estratte dal terreno, le barbabietole andavano scollettate. Per farlo usavo il falcetto. Le infilzavo nel gambo con la punta. Così tagliavo la barbabietola all’altezza del colletto e la liberavo dalla terra. Ma, se non riuscivo a centrarla, mi tagliavo le gambe e, più facilmente, le mani e le braccia. Quelli che vedi sono segni di falce. Durante gli anni mi sono massacrata. Niente protezioni».
Poi indica con l’indice della mano sinistra la porta del fienile.
«Sono riuscita a fuggire, mi sono gettata nel Po, ho provato a seguire la corrente. Ho nuotato e sono finita su una sponda. Mi sono arrampicata su per un argine. Poi ho camminato giorno e notte, senza sapere dove andavo. Dopo tanto, tanto tempo sono caduta e poi non ricordo più nulla. Giovanni mi ha trovato in un fosso. Ero quasi morta. Mi ha sfamato, mi ha curato e mi ha tenuto qui con sé. Non mi ha chiesto niente in cambio. È una strana terra questa: ci sono uomini che ti vogliono uccidere e altri che ti salvano. Non riesco proprio a capire. Quello che mi ha ridotta così si chiama Goran ma tutti lo conoscono come Skavejo».
Adesso Aza tace. Il suo racconto è finito. E mi ha colpito con la forza di un maglio. La rabbia mi invade. Una marea nera che urla nelle vene. Per un istante, gli occhi mi si riempiono di lacrime, poi mi sfrego il polso sulla bocca e fisso il vuoto. Fuori, la campana di un passaggio a livello comincia a suonare.
Ammiro Aza: non c’è rabbia in lei, solo la forza di raccontare una storia agghiacciante. Lei è una regina macchiata di sangue.
Un cielo infuocato dal tramonto scola una pioggia densa e sporca sui campi di barbabietole e sulle strade perse in mezzo alla pianura del Nordest.
Un sipario rosso e liquido che pare sciogliersi un po’ alla volta, perdendo il proprio colore e andando a bagnare la terra. Strade che sembrano giocare e nascondersi fino a quando non le scopri in incroci che esplodono all’improvviso.
Il caldo non dà tregua.
Nella Bassa l’estate è un serpente dondolante che stringe spire umide attorno al corpo. Hai sempre la sensazione di essere stata immersa fin dalle prime luci del mattino in un barattolo di marmellata, per poi tenere con te quella appiccicosa patina che lega il collo e le mani per tutto il giorno.
La pioggia non rinfresca nemmeno un po’. Ho la testa pesante, imbottita di stanchezza e afa.
Zanzare grandi come elicotteri che ronzano nel cielo.
Mi chiamo Mila Zago e sto viaggiando a bordo di una Ford Focus blu metallizzato in mezzo al Polesine.
Robert Plant latra dalle casse con una voce che sembra una sirena messa a suonare sotto un oceano di fango: Rock’n’roll con Page che scortica la chitarra. Musica incendiaria per un clima che potrebbe essere quello dell’inferno.
La Romea sfila davanti ai miei occhi: un nastro di mercurio liquido nell’aria calda. Prendo una strada laterale e taglio per i campi e le Paludi.
Benvenuti nel Delta.
Vado avanti per un po’ addentrandomi nella Bassa. Arrivo dove volevo, prendo a destra per un viottolo, i battistrada alzano onde di fango, schizzando in derapata una pioggia marrone tutt’attorno. Proseguo finchè la sterrata non muore davanti a una vecchia fattoria abbandonata. Spengo il motore e scendo.
Pietra e legno, un’aia che sembra una fossa di sabbie mobili.
Ha appena smesso di piovere. La temperatura scioglie la pelle. Normale che non ci viva nessuno qui: chi può essere così fuori da voler farsi del male fino a questo punto?
Apro il bagagliaio. Davanti a me c’è un uomo grasso, madido di sudore, con gli occhi fuori dalle orbite.
«Ciao bello».
Non parla, l’uomo. Per forza, ha un pezzo di nastro isolante color argento sulla bocca. Lo tiro fuori. Lo trascino per terra. Ha i capelli lunghi. Perfetti se devi tirare il corpo dietro di te. Scalcia come un animale impaurito. Si lamenta. Le gambe che frullano scomposte scivolando nella mota. Lo trascino. Punto dritta al fienile dietro la casa.
Apro il vecchio portone di legno mangiato dalle tarme con un calcio. Il legno va in pezzi come compensato. Ci torno spesso in questo posto quando ne ho bisogno. Dentro c’è tutto quello che mi serve.
Prendo le gambe e gliele blocco con dei ceppi che ho lasciato in un angolo del fienile. Attacco una catena ai ceppi. Lo trascino al centro del fienile.
«Ghgh…»
«Lascia perdere Skavejo. Prima ti voglio ammorbidire un po’».
«Ghgh…»
«No, bello non ci siamo capiti».
«Ghgh…»
Attacco la catena a un gancio da macellaio che pende da una sbarra di ferro. La catena gira nell’argano. Tiro sù. Ora è appeso per i piedi. Un pipistrello grasso che si divincola. Fa quello che può.
Merda. Ho dimenticato qualcosa. Ma dove ho la testa? Torno all’auto. Ci metto una vita, misuro i passi come se dovessi centellinare le energie. Questo caldo maledetto mi farà impazzire. Apro la portiera.
Prendo la mazza da baseball.
Il mondo di Mila:
“La Ballata di Mila” letto da Matteo Righetto
“Better Red” di Victor Gischler
Matteo Strukul a TV7 Triveneta presenta Red Dread