Il dio disarmato e la verità letteraria del romanzo di Andrea Pomella, un articolo di Maila Cavaliere per Sugarpulp MAGAZINE.
- Titolo: Il dio disarmato
- Autore: Andrea Pomella
- Editore: Einaudi
- PP: 248
Può sembrare un po’ fuori tempo la scelta di scrivere delle riflessioni sul romanzo di Andrea Pomella Il dio disarmato, uscito per Einaudi a settembre 2022 e quindi, da un punto di vista editoriale, già vecchio.
Eppure, l’ultimo libro dello scrittore romano è nella cinquina del Premio Stresa (la proclamazione dell’opera vincitrice avverrà domenica 22 ottobre 2023) che, oltre ad avere una evidente assonanza con il Premio Strega, in cui speravo di vedere candidato Pomella, è (particolare coincidenza) la denominazione toponomastica di una strada che incrocia via Fani, il topos principale del romanzo Il dio disarmato.
Dopo aver letto e apprezzato tutta la cinquina in cui spiccano altri quattro libri di grande valore (Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori; Monica Acito, Uvaspina, Bompiani; Alessandra Mureddu, Azzardo, Einaudi e Marco Drago, Innamorato, Bollati Boringhieri), sento perciò l’urgenza di tornare a riflettere su una storia capace di dissezionare i pochi minuti dell’attentato di via Fani e le ultime ore di libertà di Aldo Moro in pagine e pagine di parole, in frantumaglia di passi, luoghi, sopralluoghi e pensieri.
La verità letteraria
Il romanzo si apre con un atto mancato: l’ e-mail che l’autore manda a Mario Moretti, dichiarando la propria intenzione di lavorare da letterato sull’argomento e chiedendo all’uomo un incontro, torna al mittente con la classica dicitura del server di indirizzo non trovato.
Ed è proprio la premessa, in cui l’autore cita Gesualdo Bufalino, “piuttosto soprusi di romanziere che presunzioni di verità”, che dà la stura alla poetica del libro e consente ad Andrea Pomella di rappresentare compiutamente il tradimento necessario della letteratura: ciò che conta nel romanzo non è la verità giudiziaria, né la verità storica ma la verità letteraria che si nutre di sublimazione onirica, dilatazione del tempo, repliche, soggettività della memoria.
E così i luoghi ipercitati, iperindagati di via Fani, via Stresa, nella zona romana della Camilluccia, occupano nella scrittura di Pomella lo spazio metafisico del sopralluogo, snaturandosi da contesto oggettivo a luoghi ingannevoli della soggettività, a non-luoghi, perfino, in cui ogni giorno migliaia di uomini e veicoli transitano ignari ormai del peso specifico di quel piccolo tratto di strada nella misura volumetrica della Storia d’Italia.
Il sopralluogo lungo quelle vie di Roma, una pratica che diventa puntuale espediente narrativo, consente all’autore di considerare il tempo per quello che è: un vero e proprio luogo e, come tale, di abitarlo, percorrerlo, attraversarlo, occuparlo, ripercorrerlo à rebours, restarci dentro.
Tra luoghi e non luoghi
Andrea Pomella sembra quasi confermare il volontario fallimento del “tentativo di esaurimento di un luogo” che Georges Perec aveva sperimentato, provando a contenere nella pagina tutti gli elementi e le azioni che in tre giorni, a Parigi, seduto davanti a Place Saint-Sulpice, riusciva a percepire.
Se il mondo della percezione e della testimonianza si sfalda sotto l’egida del tempo che passa e della estrema inaffidabilità della memoria, allargare a dismisura le maglie del tempo soggettivo, descrivere la dimensione del sogno, della premonizione e dell’umana paura è l’operazione che all’autore riesce in maniera perfetta.
Aldo Moro padre, marito, nonno, politico, professore, filosofo, lettore, ci viene rivelato e restituito da una verità letteraria, la sola che può dare voce al maggior trauma collettivo italiano e che può far dire di questo inquietante cono d’ ombra, come direbbe Jonathan S. Foer, che ogni cosa è illuminata.
Nella traversata notturna dell’ultima notte di Aldo Moro, il lettore ha lo stesso vantaggio sul protagonista dei terroristi, il vantaggio della consapevolezza e dell’ intenzione. Tutti i pensieri del professore e le digressioni del racconto, i sogni, le paure sono forze centripete che portano la storia e chi la legge verso il suo tragico e fatale esito.
Andrea Pomella ci conduce a guadare con il Presidente il fiume limaccioso dei suoi pensieri e ci introduce alla progressiva e contestuale presa di coscienza del corpo.
L’ultima notte di Aldo Moro
Il corpo di Moro diventa così corpo della verità mentre si fa la barba, mentre sta seduto in poltrona ad aspettare il rientro del figlio, mentre legge i giornali la mattina (a Maglie, davanti alla sua casa natale, c’è una statua che lo ritrae con L’Unità sotto il braccio, ed è anche questa una sintesi artistica della verità), mentre osserva la nuca del caposcorta e dell’ altro agente seduti in auto davanti a lui, mentre immaginiamo che cada con il tonfo di un cinghiale colpito durante la corsa.
In quei “luoghi” del corpo la paura si fa spazio, la vulnerabilità avvicina e a noi si mostra la verità dell’anima, delle passioni, inequivocabile. Del resto, come spiega bene l’autore nella Nota finale del libro, citando la Lettre à monsieur Chauvet di Alessandro Manzoni, “(…) se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, cioè il diritto d’inventare i fatti, cosa gli resta?”.
La verità del romanzo è, infine, nell’ esercizio metaletterario di mostrare Moro mentre legge Il Dio crocifisso di Moltmann come simbolo veritiero di una teologia della morte e della speranza, presago della fine in un uomo, un uomo grande, enorme, che nella personalissima e provvisoria “caverna del tempo” si mostra ( non più come caso, ma al caso) come tanti, fragile e disarmato.
Aspettando il 22 ottobre, leggete Il dio disarmato .