Il grande match è un film che non può prescindere da Robert De Niro, Silvester Stallone e da una buona dose di (auto)ironia
Due ex pugili ormai settantenni, una vecchia rivalità, una donna contesa. Decidono di tornare sul ring, nonostante l’età, per dimostrare una volta per tutte chi è il migliore.
Detta così, bisogna riconoscerlo, suona proprio male. Settantenni sul ring? Andiamo, che razza di film patetico ci stiamo raccontando? Ma se spechifichiamo che i due pugili in questione si chiamano Sylvester Stallone e Robert De Niro, forse la musica cambia un po’.
Perché allora non si tratta più di due vecchi che rimettono i guantoni, ma di due icone del cinema che hanno, ognuno a modo suo, onorato sul grande schermo la boxe.
Il film non è un improbabile cross-over Rocky Balboa vs Jack La Motta (una roba troppo in stile Superman vs Mohammed-Alì) ma non si può non andare con la mente a questi due personaggi (uno di fantasia e l’altro reale) durante tutta la visione di questo bel film intitolato Il Grande Match.
Ci sono diverse recensioni in rete su questa pellicola, e si dividono fondamentalmente in due categorie: quelle che abbondano di aggettivi come “patetico”, “grottesco”, “ noioso” e poi quelle di chi ha capito il film.
Non si può giudicare Il Grande Match senza capire bene cosa si sta andando a vedere. E’ un film che ha senso solo se si tiene conto degli attori che lo tengono in piedi, e di tutto il sottotesto che, lungi dall’essere celato, costituisce la ragion d’essere di tutta la pellicola.
Senza Stallone e De Niro il film non solo cambierebbe radicalmente pelle, ma cesserebbe d’un tratto di esistere. E’ vero, probabilmente è necessario essere over 35 per avere quelle corde interne che la pellicola ama stuzzicare per tutte le quasi due ore di durata, ma c’è da inorridire a leggere la sentenza di qualche critico secondo cui il film è destinato e fruibile solo da un pubblico di vecchi, per vecchi intendendo i settantenni che si identificherebbero, in maniera fantastica, con le gesta superomistiche e francamente irreali dell’unico elemento di vera sospensione dell’incredulità che la storia ci richiede: il match finale.
Certo, il pericolo di una deriva patetica era concreto, ma è a questo che serve l’ironia. E Il Grande Match, per fortuna, di ironia abbonda.
Si inizia con le citazioni, come è ovvio, specie quelle di Rocky (in sei capitoli il materiale era tanto): dall’imbevibile intruglio di uova crude nel bicchiere la mattina presto, sino all’allenamento in macelleria, ma questa volta senza nemmeno tirare un pugno perché il coach lo fredda sul nascere: “guarda che siamo qui per scegliere le bistecche per cena, la carne mica si prende a pugni”.
E la citazione, giusto per rendere chiaro lo spirito, è spinta sino all’iperbole: Stallone non traina auto ma tir, non solleva piccoli copertoni ma enormi ruote da articolato, fino alla meraviglia delle meraviglie del rendere il suo personaggio cieco a un occhio, quello stesso occhio che nel quarto film di Rocky il mai dimenticato Ivan Drago finisce per maciullare nel corso del match forse più violento della serie; praticamente un metatesto nel metatesto.
Il tutto ben condito con una sceneggiatura frizzante, dialoghi divertenti che si reggono sui duetti Stallone-De Niro, che per tutto il film si punzecchiano a vicenda in maniera veramente spassosa.
A questo aggiungiamo degli ottimi comprimari: Kevin Hart nel ruolo del giovane manager che organizza l’incontro (doppiato con una voce del tutto inadatta), una sempre valida Kim Basinger nei panni della donna contesa, e soprattutto il mitico Alan Arkin (Little Miss Sunshine, Stand Up Guys, solo per citarne alcuni) nelle vesti del simil Paulie, il vecchio allenatore di Rocky Balboa, solo più sboccato e più fissato col sesso.
Poi vabbè, c’è la storia. Okay, ci sono le sottotrame. C’è la redenzione, c’è la seconda occasione, c’è De Niro che accetta di farsi chiamare nonno e c’è il finale volèmose bene che rovina un po’ il climax (alla fine il match si vede, e forse era meglio non mostrarlo, anzi forse era addirittura meglio non lasciar sapere se c’era un vincitore), ma passa tutto in secondo piano visto il popò di roba che si vede prima.
Non è un film sullo sport, non è un film sugli anziani, non è una metafora della vita attraverso la boxe, il tema non è l’amore né l’amicizia. E’ parossismo puro. Come Tarantino che sublima la violenza in Kill Bill, così avviene ne Il Grande Match. Solo che stavolta ad essere esasperato è la citazione, la celebrazione, il cinema.
Un consiglio. Guardate, se riuscite, il film in lingua originale. D’accordo, i doppiatori italiani sono bravi, anzi forse tra i migliori e bla-bla-bla, ma le voci reali dei personaggi sono così ricche di sfumature che rinunciarvi significa togliere al film molta della sua atmosfera.
Prendete il titolo: va bene che tradurre e tradire hanno la stessa etimologia, ma un conto è chiamare un film Il Grande Match, un conto è intitolarlo Grudge Match, ovvero “incontro del rancore”, che non solo sintetizza in due parole la trama del film, ma da il destro per dei bei giochi di parole come “Grudgment Day” che in italiano semplicemente scompaiono.
Sottigliezze a parte, godetevi queste due ore di divertimento vero e non sciocco. Il vino buono, quando invecchia, diventa pregiato.