Il ladro di quaderni di Gianni Solla, la recensione di Maila Cavaliere per Sugarpulp Magazine
- Titolo: Il ladro di quaderni
- Autore: Gianni Solla
- Editore: Einaudi
- PP: 256
La vita di Davide Buonasorte sembra scritta in maniera antifrastica rispetto al cognome che porta se è vero che il protagonista del nuovo romanzo di Gianni Solla, Il ladro di quaderni, è uno storpio analfabeta, figlio di un fascista che alleva maiali nel paesino del casertano di Tora e Piccilli.
Siamo negli anni ’40 e il futuro di questo ragazzo pare specchiarsi solamente nelle vasche in cui si abbeverano gli animali.
Ma la vita è altrove, nella scoperta dell’ altro, di Nicolas, giovane ebreo così diverso dall’ immaginario terrificante della propaganda fascista (“Non immaginavo ancora che non essere lui mi avrebbe ferito”), nel profumo di canapa dei capelli di Teresa, l’ unica ragazza del paese che sa leggere e scrivere oltre al maestro e che legge nelle missive i segreti degli altri e li sa custodire.
Quaderni rubati
La scrittura diventa così, nelle pagine, prima un segno magico, incerto e sconosciuto, un significante che dà forma anche ai desideri, poi la stura di un destino scritto e chiuso in tanti quaderni rubati in cui lo spazio bianco dell’ esistenza di Davide ridisegna incontri e possibilità e costruisce orizzonti.
Quando a Tora e Piccilli arrivano 36 ebrei, mandati lì al confino dai fascisti, (“la presenza di quel corpo estraneo aveva stabilito un noi e un loro“), Davide si sente per la prima volta parte di un gruppo che fino a quel momento lo aveva trattato da deforme e lo aveva tenuto lontano.
Nasce però anche il germe della fuga, dell’allontanamento, del bisogno di appartenere al nuovo, al diverso e non più a quella stirpe di animali preistorici.
La scrittura ha a che fare con il corpo, si dice ne Il ladro di quaderni. Ed effettivamente tutto il romanzo, scritto in una lingua misurata e pulitissima, utilizza l’ idea della scrittura come funzione erotica, come processo di apprendimento del desiderio, dell’ altro, dell’ altrove, del possibile, come palinsesto di una corporeità nuova, capace di ancorarsi a una diversa cosmogonia, a un differente universo del sentire.
La scrittura di sé, in Davide, si fa prima disegno radiante, di chi scopre e dispone intorno a sé gli altri e gli oggetti, poi finalmente disallinea, fa uscire dai ranghi del noto, dalla rassegnata adesione all’ idea del buon soldato, sottraendo il corpo all’ oblio e ricollocandolo al centro della propria azione/relazione, attraverso lo specchio dell’ altro, necessaria anamorfosi (“Osservarmi fu la prima cosa che Nicolas mi spinse a fare“).
Una scrittura evocativa
La scrittura di Solla ha anche un fortissimo potere evocativo (“Se scrivi male le cose compaiono male. Perciò devi avere cura di ognuna“). Essa dà corpo agli eventi, apre loro una occasione.
Nicolas l’ ebreo e suo padre Gioacchino, Teresa, il padre fascista e perfino il nero sono personaggi ben connotati che fanno da spalla a Davide, diventato attore, e gli consentono finalmente di mettere in scena sé stesso.
Dopo Tempesta madre, Gianni Solla torna a ragionare sulla eccezionalità del salvarsi, su ciò che scopriamo nello specchio degli altri, sul perdersi e ritrovarsi, sull’ andarsene e sul ritornare, sulla luce che catturiamo e su quella che impariamo a fare intorno a noi.
Da leggere!