Con Il nome della rosa Rai Fiction realizza un grande giallo storico in grado di accontentare anche i palati più fini. Una serie da vedere, assolutamente. La recensione di Fabio Chiesa.

C’era grande attesa per la trasposizione seriale de Il nome della rosa, impareggiabile romanzo cult dell’immenso Umberto Eco: una scommessa che Rai Fiction, in collaborazione con altri partner internazionali, ha vinto alla grande, regalandoci uno show che sfiora la perfezione.

I rischi erano davvero tanti: in primis l’adattamento di un libro complesso e stratificato, in secondo luogo gli immancabili paragoni con l’ottimo film firmato nel 1986 da Jean-Jaques Annaud con protagonista con Sean Connery.

Bastano però poche puntate per capire che ci troviamo di fronte ad una produzione sontuosa che pur adattando la storia alle esigenze di copione non tradisce lo spirito del romanzo, lasciandoci anzi la voglia di andare a rileggerlo.

LA STORIA

Come la maggior parte dei lettori sapranno il racconto è ambientato in un monastero benedettino, sperduto tra le Alpi piemontesi nell’anno 1327. Il frate francescano Gugliemo da Baskerville (John Turturro) ed il giovane novizio Adso da Melk (Damian Hardung) raggiungono l’abbazia per prendere parte ad un’ ttesissima disputa apostolica tra i rappresentanti dell’ordine francescano e quelli del papato avignonese sul tema della povertà.

Al loro arrivo si trovano però davanti ad una serie di efferati omicidi sui quali iniziano ad indagare con l’avvallo dell’abate Abbona (Michael Emerson).

Senza svelare troppo la trama possiamo dire che oltre alla trasposizione dei fatti narrati da Eco gli autori hanno voluto dare maggiore spazio alla storia dell’eretico fra Dolcino (Stefano Fresi) aggiungendo digressioni e personaggi funzionali ad una sceneggiatura che fila come un meccanismo ben oliato.

Ed è proprio la sceneggiatura ( scritta dal regista Giacomo Battiato insieme a Andrea Porporati, John Turturro e Nigel Williams) uno dei punti cardine che vanno a marcare un successo sul quale tanti lettori di Eco avevano molte riserve: una scrittura che senza snaturare il libro riesce a regalarci un superbo giallo storico che non annoia mai ed allo stesso tempo tratteggia l’epoca in modo convincente.

E se da un lato lo script è pressoché perfetto dall’altro la regia di Battiato si mette al completo servizio della storia, senza eccessi, lasciando da parte voglia di strafare e personalismi che spesso finiscono col rovinare questo tipo di progetti.

IL CAST

Tra i punti forti de Il nome della rosa va menzionato un cast da brividi che vede oltre ad un eccelso John Turturro nei panni del protagonista frate Guglielmo, la stre-pi-to-sa prova di Rupert Everett nelle vesti dell’inquisitore Bernardo Gui (personaggio realmente esistito) e quella del giovane e promettente Damian Hardung ad impersonare Adso.

Resta davvero difficile ricordare altri senza fare torti ma dovendo scegliere mi sento di segnalare i nostri Fabrizio Bentivoglio a impersonare l’ex dolciniano Remigio da Varagine, un irriconoscibile Stefano Fresi nel ruolo di Salvatore e Greta Scarano nei doppi panni di moglie e figlia di Dolcino.

UNA PRODUZIONE DAL RESPIRO INTERNAZIONALE

In conclusione dopo i successi de L’amica geniale e di Rocco Schiavone Rai Fiction supera la prova del nove con una produzione che non ha nulla da invidiare agli omologhi statunitensi e inglesi, confermando una progressiva crescita a livello qualitativo che non può che far ben sperare per il futuro.

Il Nome della Rosa è certamente tra i must see di questo 2019. Lasciarsela scappare sarebbe un peccato mortale.