Il processo ai Chicago 7 è il titolo Netflix del momento. Un film godibile in cui il messaggio politico finisce però per divorarsi la storia.  

Dopo oltre un decennio passato nel limbo del “development hell” Il processo ai Chicago 7 ha visto finalmente luce in questo travagliato 2020 e dopo una breve e ridotta distribuzione in sala – dovuta ovviamente alla pandemia – è stato lanciato a livello mondiale attraverso Netflix che ne ha acquistato i diritti dalla Paramount Pictures.   

Il progetto nasce infatti nel 2007, quando Steven Spielberg chiede ad Aaron Sorkin di scrivere una sceneggiatura basata su uno dei più celebri e scandalosi processi della storia americana: quello che ha visto protagonisti tra il 1969 ed il 1970 sette attivisti vicini alla sinistra (hippie, progressisti, pacifisti) accusati per motivi politici di cospirazione, rei di aver partecipato agli scontri tra manifestanti e polizia in occasione della convention democratica tenutasi a Chicago nel 1968.

Gli imputati, parte dei quali a capo di alcuni noti movimentiAbbie Hoffman e Jerry Rubin cofondatori dello Youth International Party, Thomas Hyden promotore del Students for Democratic Society – furono portati in tribunale insieme al leader della Pantere Nere, Bobby Seale, con l’imputazione di associazione a delinquere e istigazione alla sommossa, capri espiatori per le proteste contro la guerra in Vietnam mai digerite dall’amministrazione Nixon

Una pagina buia sia per la giustizia che per la democrazia a stelle e strisce che viene portata con grande furbizia su grande schermo proprio alla vigilia delle presidenziali americane per tracciare uno scontatissimo parallelo sulle divisioni sociali e politiche di allora con quelle odierne, sfruttando apertamente la tematica razziale e quella dei diritti civili.

Tra filmati d’epoca e attualità

Il film – diretto dopo un lungo travaglio dallo stesso Sorkin con Spielberg nella veste di produttore – si apre con immagini d’epoca di alcuni celebri discorsi dei presidenti Johnson e Nixon, di Martin Luther King e Bob Kennedy, per poi spostarsi in aula con la ricostruzione del processo e, in flashback, degli eventi occorsi nel 1968 a ridosso della convention.

Sorkin parte da un caso legale per dare vita a una pellicola che si muove tra il biografico e lo storico, sfocia immancabilmente nel legal drama mantenendo pero’ un tono ed un ritmo  che si avvicinano spesso ( anche troppo) alla commedia. 

A fare la parte del leone, ovviamente, i dialoghi fulminanti che hanno reso celebre il cineasta newyorkese (vincitore tra vari riconoscimenti dell’Oscar nel 2011 per lo script di The Social Network di David Fincher) e un cast di star affiatato e convincente composto da attori del calibro di Sasha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton, Eddie Redmayne, Frank Langella, Mark Rylance, John Carroll Lynch, Jeremy Strong e Yahya Abdul-Mateen II.

Il processo ai Chicago 7, un processo che non è mai finito

Il processo ai Chicago 7 usa un linguaggio semplice e piuttosto basico per raccontare una vicenda molto complessa. La formula in parte funziona ed il taglio pop e graffiante adottato dal regista/sceneggiatore fa volare i 140 minuti di durata.

Sorkin però ostenta anche troppo gli intenti militanti della sua creatura che a tratti diventa  didascalica e presuntuosa, come se il pubblico fosse un bambino un po’ tardo al quale spiegare le stesse cose più e più volte. 

L’accoglienza entusiastica di tanti addetti ai lavori, che già parlano di Oscar, mi lascia sinceramente perplesso.

Siamo di fronte ad un buon film che però non ha alcun guizzo a livello registico (con Spielberg o Fincher dietro la MDP sarebbe stata tutt’altra cosa), che spesso prende anche troppo alla leggera fatti gravissimi e che ha la fastidiosa pretesa di insegnarci ciò che è giusto e ciò che è sbagliato senza peraltro insinuare mai il benché minimo dubbio, cosa che avrebbe potuto rendere un po’ più profonda e accattivante la storia. 

Fare uscire una mega produzione anti Trump alla vigilia delle elezioni significa voler vincere facile. Non che il parruccone biondo mi stia simpatico, anzi, ma questa masturbazione collettiva per una pellicola che più che farmi riflettere mi indica insistentemente da che parte stare – come se non fossi in grado di arrivarci da solo – mi sembra un pelo eccessiva.