Illusions Perdues, la recensione di Matteo Strukul del film di Xavier Giannoli in concorso alla 78a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Tratto da Illusions Perdues, capolavoro assoluto di Honoré de Balzac, il film di Xavier Giannoli rappresenta per chi scrive la pellicola più attesa dell’intera Mostra del Cinema perché si tratta di un kolossal che prova a tradurre in immagine letteratura allo stato puro.
Illusions Perdues è un romanzo monumentale che racconta la grande avventura di un poetucolo di provincia, Lucien de Rubempré, giunto a Parigi per conquistare fama e successo, il quale si ritrova a fare i conti con una città spietata e un sistema di potere che lo cambierà per sempre. Gli anni sono quelli della Restaurazione Francese, dopo la caduta di Napoleone. Ma la straordinaria stratificazione della storia, la complessità dei personaggi, lo stile travolgente di Honorè de Balzac rendevano questa sfida quasi impossibile.
Invece, complice la monumentale produzione di Gaumont, che non ha certo lesinato sul budget e che da sempre è leader in questo tipo di pellicole – cito almeno J’accuse di Roman Polanski e L’Empereur de Paris di Jean Francois Richet – e un rigore filologico sorprendente da parte di Xavier Giannoli, il film si rivela per quello che è: un probabile Leone d’Oro. Tutto, nella resa cinematografica, è come dovrebbe essere: costumi magnifici, recitazione sontuosa, scenografie di grande impatto, ricostruzione storica efficacissima.
Ma quello che fa la differenza, questa volta, è proprio la storia. Perché la decima opera delle Scene di Provincia de la Comedie Humaine (la ciclopica raccolta di 137 scritti di Honorè de Balzac), ben lungi dall’essere solo un formidabile romanzo di formazione, disvela un’architettura letteraria di assoluta complessità che narra fra l’altro dei delicati equilibri di potere della stampa anti-governativa nella Parigi di quegli anni, analizza impietosamente le differenze di classe e le regole che disciplinavano le convenzioni della nobiltà, denuncia la corruzione del giornalismo e il nascente potere della pubblicità, affronta le ragioni dei reietti, fossero attrici di teatro o pennivendoli da strapazzo, mette in scena la depravazione dei privilegiati che gravitavano intorno alla Chambre du Roi e tutto questo in un caleidoscopio letterario di rara lucidità e formidabile ricercatezza stilistica.
Riesce in questo caso particolarmente felice la scelta di affidare alla voce fuori campo la narrazione di una serie di dettagli necessari alla comprensione della storia e che sarebbero risultati artificiosi e forzati nei dialoghi, così come è perfettamente calibrata la regia di Giannoli così attenta a catturare il percorso circolare della storia personale di Lucien che, giunto a Parigi nella speranza di affermarsi come poeta e scrittore, diventa giornalista partigiano e corrotto, polemista e demagogo, per poi finire, dopo amori spezzati e amicizie tradite, solo e senza un soldo, vanaglorioso e ambiguo, sconfitto alfiere dell’effimero, di quella gloria da quattro soldi che si conquista sulla carta dei giornali, quella con cui si avvolge il pesce al mercato il giorno dopo, come dice il suo compagno Lousteau.
Così Lucien si ritroverà a raccogliere i propri sogni infranti, le proprie illusioni perdute che lo riporteranno, alla fine, al suo primo, vero amore: quello per la letteratura.