In fondo alla notte di Hugues Pagan è solo all’apparenza un libro di genere: un romanzo da riscoprire
Titolo: In fondo alla notte
Autore: Hugues Pagan
PP: 192
Editore: Meridiano Zero
Prezzo: 13,50
In fondo alla notte (trad. Maria Valeria Caredda, Meridiano Zero Editore) è stato pubblicato per la prima volta nel 1986, ed è una delle opere di maggior interesse di Hugues Pagan, autore di altri romanzi dello stesso tenore e della serie televisiva Police District di Olivier Marchal (per intenderci, l’autore del mai troppo lodato 36 Quai des Orfevres, uno dei migliori polar degli ultimi anni).
Il titolo originale, tuttavia, Le acque morte, rende forse maggior giustizia all’atmosfera livida e apparentemente statica del romanzo.
Il passato affiora cautamente, nella vita di Jacques Cavallier, paparazzo di mezza età che è stato per lungo tempo un poliziotto: ora latita in un paesino della provincia francese, trascorrendo le sue giornate fra assai poco gratificanti servizi giornalistici, una costante ebbrezza dovuta a un gusto spiccato per i liquori, e scarrozzate senza meta con una Ford d’annata, ribattezzata Dizzie Mae.
Tutto sembra privo d’interesse, ma sin dalle prime pagine, due eventi sconvolgono, invece, la sua vita che, ogni tanto, si tinge di rosso, o del nero oscuro di trame limacciose.
La prima è l’amore maturo e fervido con la prorompente Anita, di vent’anni più giovane di lui, che fa la segretaria nel suo stesso rotocalco; l’altra è rappresentata da una serie di versamenti, di cifre molto consistenti, presso il suo conto corrente, e dei quali non si sa dare spiegazione.
In fondo alla notte è solo in apparenza un libro di genere: il suo stile rapido e scanzonato è la facciata di un romanziere che sa parlare d’altro, sa citare (addirittura, esplicito il riferimento al film I gangsters di Siodmak, a sua volta trasposizione di un racconto noir di Hemingway) e dissemina la sua prosa di situazioni e di dialoghi che tentano di sbrogliare la matassa della trama, ma, man mano che si scende in profondità, la complica e costringe il lettore a cogliere invece qualcos’altro: la solitudine interiore del protagonista, i suoi gusti, le sue riflessioni (il libro è in prima persona) che paiono venire in maniera nemmeno filtrata dalla stessa vita dello scrittore, anche lui, per molti anni, poliziotto all’Usine, la polizia cittadina d’Oltralpe.
I personaggi non scadono mai nel bozzetto, complice una capacità stringata di cogliere e rendere le sfumature delle varie figure che Cavallier incontra sulla sua strada, ognuna, a sua modo “un morto che cammina”.
C’è, di fondo, una visione estremamente fatalista, esistenziale delle azioni dell’essere umano.
La quale non subentra mai alla narrazione, né tende a sostituirsi ad essa, di modo che l’autore sa regalarci ottime sequenze d’azione (come l’attentato a Jacques o l’assurdo incidente che sembra momentaneamente risolvere il romanzo) non negando il risvolto, forse appena melodrammatico, dei sentimenti che il protagonista prova nei confronti della sua donna, o dell’amico che, ad un certo punto, pare essere la chiave di volta di tutta la vicenda, e che viene chiamato, simbolicamente, Chess.
Tutto questo guizzando celere e umbratile da momenti di appassionato rilassamento, sorseggiando del bourbon sotto le note di Duke Ellington, o gettandosi a capofitto in una lotta serrata con un altro uomo, sperando che nessuno dei due debba rimetterci l’unica cosa che conti, la sopravvivenza sempre in bilico fra una felicità incerta e una disperazione di cui non ci si rende neppure conto.