Danilo Villani ha intervistato per Sugarpulp MAGAZINE Ilaria Tuti in occasione dell’uscita di Fiori sopra l’inferno (Longanesi), il suo romanzo d’esordio.

Ilaria Tuti, Fiori sopra l'infernoIlaria Tuti irrompe nella letteratura di genere come una supernova. Il suo romanzo Fiori sopra l’inferno sta scalando vertiginosamente le classifiche di vendita. Sugarpulp, sempre sul pezzo, ha provveduto a recensirlo grazie a Federica Belleri ma non poteva mancare un’intervista, in esclusiva, all’autrice che ringraziamo per la sua cortese disponibilità.

L’intervista

Durante la tua presentazione romana hai sottolineato quanto la “montagna” si erga a protagonista del romanzo. Io aggiungerei anche il “freddo” visto che per mezzo della tua scrittura crei brividi al lettore non solo per il plot ma anche per le condizioni meteo così puntigliosamente descritte. Era nelle tue intenzioni evidenziare questo aspetto?

Sì, credo che la natura offra un simbolismo spettacolare a cui attingere a piene mani per creare suggestioni e atmosfere. Nel romanzo, il freddo si contrappone al calore: quello umano del commissario Teresa Battaglia, dei bambini – del presente e del passato – degli animali della foresta, dei fuochi antichi che ardono nella valle in cui è ambientata la storia. I contrasti fanno parte di noi e del nostro mondo: descriverli rende una storia più vera e interessante, la rende viva.

Una domanda di carattere geografico che si aggancia alla precedente. Per me, profondo conoscitore del territorio, è stato gioco facile identificare in Val Romana il contesto d’ambientazione del romanzo. Hai scelto quest’area perché è statisticamente il posto più freddo d’Italia o perché è il “nordest del nordest”?

L’ho scelta perché è una terra di confini – tre – in cui proprio le frontiere sono labili, difficilmente tracciabili: vi si parlano quattro lingue, le culture millenarie di popoli diversi si amalgamano e fondono pur restando riconoscibili, la tradizione si unisce allo sviluppo del polo turistico, la natura ancora selvatica convive con infrastrutture moderne, il centro vivace dei paesi diventa silenzio e isolamento non appena imbocchi una stradina laterale… Ho sempre trovato le frontiere luoghi interessanti. Sono dei crocevia. Come dicevo prima: il fascino dei contrasti. Ma ho scelto la Val Romana anche perché la amo profondamente. Ho riscoperto il suo fascino in età adulta e ho ricominciato a osservarla con la meraviglia di quando ero bambina. Ho voluto trasmettere al lettore questo amore per mezzo delle descrizioni, volevo che avesse davanti agli occhi lo splendore di questa terra.

Leggendo tra le righe del romanzo sono evidenti tracce di antropologia, di sociologia, di psicologia oltre a quelle di criminologia, naturalmente immancabili. Quanto impegno ha richiesto l’immissione di queste tracce nella stesura del romanzo?

L’impegno è costante ma anche diluito nel tempo, perché si tratta di una mia passione e non di un’incombenza: appena posso leggo con piacere testi di criminologia e di psicologia. Per scrivere alcune parti del romanzo, ho dovuto apprendere anche qualche rudimento di medicina legale. È stato interessante, è un’esperienza entusiasmante apprendere cose nuove attraverso la scrittura di un romanzo. Se amo il thriller, è anche perché la componente psicologica è rilevante. È un genere che permette di indagare la mente umana in modo non convenzionale, cerca di fare luce negli angoli più bui del nostro animo, quelli che teniamo nascosti o che a volte nemmeno sospettiamo esistere.

Un’altra protagonista, latente ma presente, è la “comunità” ovvero gli abitanti di Travenì. Nei loro confronti colpisci duro, ce li presenti come una specie di ‘ndrina. Chiusi a ogni forma di comunicazione con l’esterno, omertosi che neanche nei romanzi di Sciascia. È forse un tuo desiderio, neanche tanto inconscio, di far aprire la mente a qualche tuo corregionale?

I friulani sono noti per essere concreti e lasciare poco spazio alle parole: si trovano più a loro agio nel “fare” che nel “dire”. Di certo sono restii ai cambiamenti, ma per una sorta di diffidenza innata. Vogliono capire, e capire bene, prima di mostrare entusiasmo. Non direi però che questo coincida con una ristrettezza di vedute, anzi. I friulani sono stati tra i primi italiani a dover lasciare la propria terra per sfuggire alla povertà. Hanno girato il mondo offrendo le proprie capacità e sono sempre stati apprezzati. Soprattutto, hanno quasi sempre fatto ritorno portando nuove idee ed esperienze. Il nucleo omertoso del mio romanzo non si riferisce nello specifico ai friulani, ma in generale a ogni comunità umana che cerca di difendere il suo status quo anche a costo di proteggere il colpevole. Perché? Perché se ammettessero che il male è nella loro comunità, allora la domanda successiva dell’interlocutore sarebbe: “Non ve ne eravate accorti?”

E come si fa a rispondere a questa domanda senza sentirsi almeno in parte responsabili? Lo vediamo accadere in ogni fatto di cronaca: nessuno ha notato niente, nessuno poteva immaginare un epilogo del genere. È davvero possibile che il male – quello vero, quello che ruba la vita, l’infanzia, l’innocenza, l’umanità – sia invisibile a chiunque? Io non lo credo.

Persino il grande Robert Ludlum ne L’inganno di Prometeo non ha resistito al fascino della lingua ladino-friulana facendola parlare a due killers provenienti dal tuo territorio. Nel tuo romanzo tutte le caratterizzazioni si esprimono in italiano e la cosa mi sorprende visto che il vernacolo locale è usato ad ogni livello. Hai avuto la tentazione di farne uso anche tu?

No, forse perché io non lo parlo molto bene (lo invento, purtroppo). A casa si è sempre parlato italiano perché i miei genitori venivano da dialetti molto diversi tra loro. Pensandoci bene, per questa ambientazione avrei dovuto usare, oltre al friulano, anche il tedesco e lo sloveno!

E veniamo alla protagonista indiscussa del romanzo: il commissario Teresa Battaglia (cognomen omen). Donna attempata, alle prese con acciacchi di ogni specie connessi all’età non più verdissima ma dotata di una forza interiore capace di smuovere le montagne che la circondano. Quanta “friulanità” c’è in lei?

Teresa è come la mia terra: concreta, materna, a volte aspra ma comunque protettiva. Come i friulani, è capace di rimettersi in piedi dopo la caduta più rovinosa, e lo fa da sola, senza piangersi addosso. Anche lei usa poco le parole, le misura con attenzione, ma sono sempre quelle giuste, per quanto a volte lapidarie. È persona ostica, ma generosa. Una su cui puoi sempre contare.

Inevitabile pensare ad una trasposizione cinematografica o televisiva visto che il genere si presta e ne abbiamo avuto riprova in tempi recentissimi. Sii sincera, ci hai mai pensato? Potrebbe un giorno Travenì diventare la Vigàta del nordest?

È di questi giorni la notizia che Publispei, la casa di produzione cine-televisiva guidata da Verdiana Bixio, ha acquistato i diritti di Fiori sopra l’inferno. L’intenzione è quella di farne una serie televisiva con una coproduzione internazionale. Per me è una grande soddisfazione. Sono felice che Teresa e la sua storia abbiano trovato un’accoglienza così calorosa. Non avrei potuto sperare di meglio.

Un’ultima domanda. Per motivi legati allo spoiler non vado oltre ma i bambini presenti nel libro hanno un ruolo primario nella trama oltre che a costituire un barlume di speranza nel futuro. Un omaggio a Stephen King?

Quando si scrive di bambini, il paragone con King è quasi inevitabile: è una conferma del fatto che questo straordinario scrittore – uno dei miei preferiti – con la sua capacità di creare mondi e scandagliare l’animo umano ha lasciato un’impronta nella storia della letteratura, non solo di genere. Il mio è un piccolo omaggio, certo, ma riflette anche una scelta precisa riguardo la storia che mi accingevo a scrivere: i miei bambini rappresentano la speranza, la vita che spinge per venire alla luce, la parte più istintiva – e salvifica – della nostra essenza. Come la foresta, sono la Natura che domina e vince. Dovremmo tutti ricordarci della nostra origine, imparare dai più piccoli qual è il modo migliore di stare al mondo e farci guidare dal bambino che siamo stati.

Grazie Ilaria, da me e da tutta la community di Sugarpulp!