Si chiama Andrea Benini, ma nel panorama mondiale del jazz-funk è meglio conosciuto come Mop Mop. Originario di Cesena, ma residente a Berlino da otto anni, Andrea, classe ‘77, ha appena prodotto il suo quinto album, *Lunar Love*, sotto la label Agogo Records.
La sua band, o, come loro si definiscono, il Mop Mop combo, è composto da: Alex Trebo al pianoforte, Pasquale Mirra al vibrafono, Salvatore Lauriola al basso e Danilo Mineo alle percussioni. Dopo aver iniziato a suonare la chitarra da bambino, Mop Mop ha proseguito gli studi musicali, perfezionando la sua preparazione al DAMS di Bologna e specializzandosi in musica afroamericana. Parallelamente, è entrato in uno studio di Cesena, dove ha toccato con mano l’aspetto “pratico” del lavoro da musicista, decidendo che sì, quella era proprio la sua strada. Ha, poi, registrato il suo primo album come Mop Mop combo, che ha riscosso numerosi consensi, e iniziato a esibirsi sui palchi di tutta Europa, suscitando l’interesse di pubblico e critica. Nel 2005, ha iniziato a lavorare con la Germania.
Oggi, Andrea vanta una carriera ricca di esibizioni in tutto il mondo, collaborazioni di alto livello e produzioni.
Intervista a Andrea Benini, a cura di Giulia Mastrantoni
Da quanto tempo sei innamorato della musica?
Da sempre. Da bambino, la ascoltavo con mio padre; poi sono entrato in un coro e dopo è arrivato tutto il resto. Andando avanti, il mio rapporto con quest’arte è cambiato: tecnica e consapevolezza sono intervenute e, allo stato attuale, fungono da «filtro».
L’intensità della passione, una volta che la musica è diventata un lavoro, è cambiata?
La passione è ancora la componente fondamentale, com’è giusto che sia, ma è affiancata da altre cose, non meno importanti, che ho imparato e su cui ho lavorato. Su molte, sto lavorando tutt’ora, perché si può sempre migliorare. E anche perché amo farlo.
Hai mai avuto un famoso “piano B”?
Non ho mai pensato di poter essere altro, al di fuori di un musicista o un produttore; ero ben consapevole di desiderare che fosse proprio la musica, la mia strada. Sono stato fortunato, perché il passaggio da «gioco» a lavoro non solo è accaduto, ma si è verificato con molta naturalezza. Ci ho messo impegno e costanza, ovviamente, ma mi sono sempre visto riconoscere il mio talento.
Dev’essere molto difficile, suonare con una band che vive in Italia…
Il pianista, Alex Trebo, è l’unico componente della band che vive a Berlino, come me. Di solito, quando produco un nuovo album, tutti i musicisti con cui lavoro vengono qui e proviamo i nuovi pezzi. Quando occorre, registriamo. È tutto molto cambiato, nel corso degli anni. Quando vivevo anch’io in Italia, ovvero quando avevo ancora vent’anni, suonavo con loro ogni giorno. Vivevamo tutti a Bologna e ci esibivamo ovunque: nei caffè, per strada… Era una fase spensierata e creativa della nostra vita, un periodo meraviglioso. Oggi siamo tutti professionisti del settore e ci incontriamo soprattutto negli aeroporti, prima dei live che eseguiamo in giro per il mondo. È ugualmente bello, ma sicuramente molto diverso, rispetto alla vita che facevamo.
Per quale motivo hai scelto di lavorare a Berlino?
In Italia potrei senz’altro produrre, perché è un’attività che si può fare ovunque. Ma in Italia non c’è quel sistema che c’è altrove. È una questione di «reti» a supporto del business della musica underground, ma, soprattutto, di esistenza stessa di un business non interessato al mainstream, bensì a «qualcos’altro». Ѐ solo da pochi anni che, in Italia, si è iniziato a creare un interesse di business anche intorno alla musica underground. Di fatto, si tratta di un’inversione di tendenza molto giovane. Troppo, perché un artista possa vivere della propria musica, a meno che non sia un big del panorama musicale nostrano. A Berlino, c’è un reale interesse per la musica «di nicchia», i costi di produzione sono più contenuti e, in questo momento, tutto funziona molto bene, per me. Almeno per un po’, vorrei continuare a lavorare qui.
Saresti disposto a cambiare il genere di musica che fai, per accontentare i gusti di un pubblico più vasto?
No. Nel 2005, quando è stato pubblicato il nostro primo album come Mop Mop combo, i musicisti con cui ho lavorato hanno fatto sì che le mie idee di suono prendessero vita. Questo ha significato costruirci un jazz nostro, intessuto di riff, tendente al funk e ipnotico; un connubio di varie influenze, che percepiamo realmente come “la nostra musica”. Ѐ questo, che noi possiamo creare. Un altro prodotto non sarebbe più il “nostro” prodotto.
Quindi il feeling con i musicisti con cui hai lavorato e lavori ha un’importanza cruciale?
Assolutamente sì. È estremamente difficile, comunicare qualcosa a proposito di un suono che non esiste, ma che vorresti creare, a qualcuno con cui non c’è empatia. Ogni musicista ha un suo background, composto da studi, esperienze, incontri e ascolti diversi, rispetto a quelli di chiunque altro. Ma, quando in un gruppo si individua un punto comune attorno al quale lavorare, sul quale focalizzare le energie, allora succede la magia e nasce “qualcosa”. Il feeling è quel sentimento senza perché, che permette a individui eterogenei di far diventare una ricerca estetica obiettivo comune.
Cos’ha di diverso *Lunar Love*, rispetto ai tuoi precedenti album?
Ogni album è un universo a sé, per me. C’è sempre un’evoluzione o un cambiamento; l’unico filo conduttore è l’estetica del suono, che si sviluppa con gli anni. In *Lunar Love*, gli alieni vengono richiamati sulla Terra dalla Luna, perché gli umani hanno bisogno di aiuto. Come soluzione universale ai problemi che affliggono il pianeta, gli alieni propongono l’amore. Perché l’amore può risolvere ogni cosa. Amore lunare.
Sei soddisfatto della tua carriera?
Molto, ma la reputo un continuo divenire. Non bisogna mai fossilizzarsi su un riconoscimento o un traguardo raggiunto. La musica è una ricerca continua e totale; lo stesso deve valere per la carriera.