Intervista a Giuseppe Cimarosa a cura di Giorgio Cracco per SUGARPULP magazine.
Giuseppe Cimarosa è un grande artista e una splendida persona. Si può vivere in una regione unica come la Sicilia, godere del suo straordinario fascino, assimilare la sua tradizione millenaria e, allo stesso tempo, si può avere la volontà di affrontare di petto i gravi problemi che quello stesso territorio, e con lui l’Italia intera, fatica a lasciarsi alle spalle. È
possibile essere uomini fieri, con la schiena dritta, anche se si nasce in un luogo che il male pretende essere un suo feudo. Anche se i suoi velenosi tentacoli ti entrano in casa, e ti ghermiscono gli affetti più cari tentando di disporne come fossero cosa loro.
È altresì possibile abbracciare la bellezza del bene, la libertà di fare ciò che è giusto perfino se di quel male si è, per crudeltà del fato, parenti. La storia di Giuseppe Cimarosa è la storia di un virtuoso vero, di un uomo sensibile che ha scelto la più inestimabile delle ricchezze. Quella rappresentata da una vita onesta, colorata da valori sani e resa forte da decisioni coraggiose, in grado di tracciare la via verso il solo futuro immaginabile dalle persone come lui.
Un futuro, una realtà, dove gli ospiti sgraditi, intollerabili, sono i malvagi, con i loro traffici orrendi e i loro amici impresentabili. Fatemi compagnia in questa conversazione con Giuseppe. Diamo uno sguardo al suo presente, e al suo passato. E proviamo a vedere cos’ha in serbo il domani. Le premesse per una vista mozzafiato ci sono tutte.
L’intervista
Sei nato a Castelvetrano, Sicilia, figlio di una terra bellissima, ricca di storia e cultura, ma anche piena di contraddizioni spietate e terribili. Per ogni essere umano la famiglia è il principale palcoscenico, quello sul quale ciascuno di noi muove, da che viene al mondo, i primi e i più importanti passi nello spettacolo della vita. Tua madre è parente di una persona il cui nome sarebbe ingombrante per l’esistenza di chiunque. Stiamo parlando di Matteo Messina Denaro, boss di cosa nostra, finalmente arrestato quest’anno dopo una latitanza trentennale e recentemente scomparso. In che modo questo ha segnato te e il rapporto con la tua famiglia?
Ah, mi fai subito una domanda bella tosta. La risposta, potenzialmente, potrebbe includere tutto il mio mondo. Dunque, partiamo dalla premessa che, come hai detto, io ho questa parentela scomoda, da parte di madre, con il boss Matteo Messina Denaro. Mia mamma è sua cugina. Non l’ho mai incontrato, in quanto la mia famiglia non aveva rapporti con quella del boss. Contatti, frequentazioni non ce n’erano. Quindi non ho mai conosciuto nessuno di loro, tantomeno lui che, tra l’altro, era pure latitante. Mai visto. È chiaro che la parentela in sé bastava e avanzava come zavorra. Mi è costata l’infanzia e l’adolescenza, per non dire quasi tutta la vita. Perché è un fatto che mi è sempre pesato. Soprattutto quando ho iniziato a comprendere cosa fosse in concreto la mafia e mi sono reso conto che ce l’avevo praticamente di fronte. Ne facevano parte i parenti più stretti di mia madre, compreso il fratello. Suo fratello è stato un mafioso, è un mafioso. Mia madre, mia nonna, mio papà, non mi hanno mai educato secondo la cultura mafiosa. Una decisione che è stata la mia salvezza, la salvezza di tutta la mia famiglia. Comunque avevo vicino, come dire, una brutta ombra. Un’ombra che, all’inizio, mi spaventava tanto. Poi, invece, crescendo, si è sviluppata dentro di me una specie di repulsione. Una sorta di atteggiamento di difesa, di autodifesa. Volevo proteggere me stesso, ma principalmente mio padre, da questa cosa. Perché cominciavo a capire che poteva coinvolgerlo e diventare un pericolo per noi, come alla fine è avvenuto. Durante la mia infanzia era frequente che ci fossero dei diverbi tra mamma e papà su questo argomento. Mia madre è sempre stata contro la mafia. Ma è di un’altra generazione, proviene da un’epoca in cui non si poteva neanche parlare del fenomeno. In più donna. La difficoltà, più spesso l’impossibilità, di farsi ascoltare, ovviamente l’hanno resa piuttosto infelice. Però lei, nell’intimità della famiglia, con suo marito, parlava molto di mafia. Cercava di correggere certi atteggiamenti di mio padre, di ridurre i rischi che lui poteva correre, essendo un imprenditore a Castelvetrano e in più parente acquisito del boss. Non era poi così difficile entrare nel “sistema” in quegli anni. Io assistevo alle discussioni tra i miei genitori e assorbivo informazioni. Informazioni che mi hanno permesso di forgiare il mio pensiero, il mio senso civico, la mia coscienza antimafia. Questo da bambino. In seguito, col passare degli anni, ho sentito il bisogno di fare qualcosa di concreto. E l’unica cosa che pensavo di poter fare era quella di portare papà dalla mia parte. A tavola cercavo continuamente l’occasione per tirare fuori il discorso mafia con lui. Ne scaturiva ogni volta una lite, che partiva sempre da me, portata avanti solo da me che, dal mio punto di vista, provavo a convincerlo a cambiare idea. In realtà, avevo di fronte un padre che non sapeva come uscirne, che aveva le mani legate, che non poteva agire come forse avrebbe voluto. E che era compiaciuto di percepirmi tanto ostile alla mafia. Perché, come mi disse quando ormai ero adulto, quando fece le sue scelte e il nostro mondo cambiò, lui era felice di vedermi vaccinato contro tutto questo. I motivi che mi spingevano a comportarmi così, a far diventare la questione una battaglia personale, si possono riassumere nel concetto che ognuno di noi, in una certa misura, si rivede nella propria famiglia. La famiglia, in genere, è ciò che ci rispecchia più fedelmente. È un gruppo di persone a cui siamo profondamente connessi e che, con il proprio modo di essere e di pensare, dice molto su chi siamo noi a nostra volta. Io non mi sentivo rappresentato dalla mia famiglia. Per quel che mi riguardava, essere parente del boss non era assolutamente un onore. Tanta gente avrebbe fatto carte false per trovarsi al mio posto e godere dei relativi privilegi. Molti le farebbero anche oggi. Al contrario, io schifavo e schifo la mia situazione “fortunata”, mi sono sempre vergognato di essere parente di certe persone. La mia dunque era una battaglia interna, un conflitto familiare. Con lo scopo ultimo di riuscire, un giorno, ad essere orgoglioso di mio padre, dimenticando finalmente il rancore e il senso di delusione che da troppo tempo mi pesavano sull’animo. Un episodio molto importante fu la visione del film “I 100 passi”. Ho scoperto così la storia di Peppino Impastato, che prima non conoscevo. Una vicenda che mi ha letteralmente travolto. Per me lui è diventato un vero e proprio faro, che ha illuminato le mie giornate, sostenendomi anche durante i periodi più bui.
Mi riallaccio alla domanda precedente. Sono tra quelli che considerano la lotta alla mafia, ad ogni tipo di mafia, una responsabilità di tutti. Sei amico di varie personalità legate al contrasto alle mafie, penso a Sandro Ruotolo, a Lirio Abbate. Quanto conta per te l’impegno civile, la difesa della legalità? Nonostante gli indubbi progressi della società delle persone e perfino di quella degli Stati, sembra sempre mancare qualcosa perché l’uomo decida di liberarsi, una volta per tutte, del suo lato oscuro. Che si sia lupi o pecore, poco importa. Ci si continua ad affidare troppo agli istinti più bassi, come avidità, violenza, sete di potere, ma anche indifferenza, egoismo, paura, e troppo poco agli appetiti più alti, ai coraggiosi, premianti, slanci dell’anima. Come si può fare, secondo te, per ottenere, nel nostro Paese, un salto di qualità nella guerra a corruzione e crimine organizzato?
La lotta alla mafia è fondamentale. E non dovrebbe più essere, nel 2023, prerogativa di poche persone, di pochi “eroi”. Eroi che, da soli, non sono mai risolutivi. Sono d’accordo con te: dovrebbe essere, perché lo è, una responsabilità di tutti. Perché la mafia ci colpisce tutti, in molteplici aspetti della nostra vita, in tantissimi modi, di cui spesso purtroppo siamo inconsapevoli. Non è un problema che riguarda solo me, perché il suo abbraccio sgradito mi ha inquinato l’esistenza per tanti anni. O che riguarda solamente persone come me, con storie simili alla mia, o i ragazzi che decidono di esporsi, di dire basta, diventando attivisti ed entrando in associazioni antimafia. La legalità non può essere solo una parola, o una materia come un’altra. Voglio dire, le scuole giustamente insegnano e promuovono la legalità. Ma la legalità non è semplicemente una materia, non va vista solo come una materia, dovrebbe essere la normalità. È una responsabilità di tutte le persone, siciliane o no, quella di esporsi in maniera netta. A lungo ci si è nascosti dietro la paura. Però la paura ormai non è più una scusa valida e non è più giustificabile. Ed è, oltretutto, un elemento complice della cultura mafiosa, perché la mafia fonda la sua forza proprio sulla paura delle persone. Bisogna disfarsi di questa emozione dannosa o quantomeno imparare a gestirla. Dobbiamo mettere sotto chiave la paura, perché è compito di ciascuno di noi indebolire la mafia anche in questo modo. La indeboliamo isolando e distruggendo la mentalità mafiosa. Per quanto riguarda i compiti dello Stato in tema di contrasto del fenomeno mafioso, ritengo che si dovrebbero realizzare nuovi interventi legislativi. È necessario modificare alcune vecchie leggi, scritte in un periodo in cui non erano presenti tutte le problematiche attuali e che, di conseguenza, considerando l’evoluzione della società, ora risultano un po’ datate. Per cui, secondo me, per prima cosa le leggi vanno riviste e adattate all’oggi. Inoltre, la politica e la giustizia tendono ad osservare i problemi da troppo lontano. I politici e i magistrati prendono le decisioni stando negli uffici, seduti sulle loro poltrone. E invece c’è la necessità di vivere e analizzare il contesto, la società, i luoghi. Bisogna capire che le piccole storie fanno le grandi, che le piccole storie possono cambiare realmente questo sistema. Ci vogliono una grande attenzione e una grande sensibilità, nell’approccio al problema mafia. Non si deve tralasciare niente, nessuna sfumatura, nessun dettaglio. Non si possono etichettare famiglie, un territorio, un’intera popolazione, con ragionamenti figli del preconcetto, non si può travolgere tutto con una ruspa, e mischiare il bene con il male. Vanno fatte distinzioni. Sono convinto che la mafia la si elimina veramente se la si rompe da dentro. Si devono saper leggere le dinamiche interne alle famiglie mafiose, perché non è detto che tutte le persone di una famiglia siano mafiose o non siano recuperabili. È imperativo recuperare le persone, quando è possibile farlo, restituendole alla vita normale a cui hanno diritto come chiunque altro. È importante avere un atteggiamento diverso, meno snob, ed essere più aperti. Io la penso così. Non ci sono ricette facili. La mafia ha avuto il tempo di cambiare, di evolversi, riuscendo ad infiltrarsi nella politica, nell’economia. Combatterla diventa più difficile, perché i suoi interessi si confondono con quelli di coloro che ufficialmente mafiosi non sono. È chiaro che qui non stiamo parlando di Stato, ma di Stato deviato. Non di economia sana, ma di economia corrotta, falsata. Per poter avere una lotta alla mafia seria, è d’obbligo ripulire lo Stato e la nostra società dai rami secchi. Da chi rema contro, da chi è complice, da chi è tanto vicino ai criminali quanto è distante dalla gente perbene.
Tra le tue amicizie, c’è anche quella con Gessica Notaro, che giustamente consideri un simbolo di rinascita. La violenza sulle donne è uno degli aspetti più odiosi della parte brutta degli uomini. Come hai conosciuto Gessica? Lei, sfregiata con l’acido dal suo ex, è stata, suo malgrado, una celebre vittima della violenza di genere. Qual è la tua opinione riguardo a questo annoso problema?
Gessica l’ho incontrata alcuni anni fa, a Verona, in occasione di Fieracavalli. Il mio regista, Antonio Giarola, aveva deciso di creare, per il Gala d’Oro, una performance che raccontava la sua storia, con lei stessa protagonista. Io partecipavo al Gala con un mio spettacolo e Antonio volle me come coprotagonista del suo lavoro. Ci siamo conosciuti così, Gessica ed io. Interpretavo la persona che l’aveva sfregiata. È nata un’amicizia fortissima, si è creato presto un rapporto solidissimo. Ci siamo trovati subito, e capiti. Entrambi venivamo da relazioni molto complicate, e avevamo sofferto tanto. La considero una sorella, e lei mi considera un fratello. Condividiamo l’amore per i cavalli, cosa che ci rende ancora più uniti. La nostra amicizia è un ingrediente importante della mia vita e della sua. Tuttora, a volte, ci diamo sostegno reciproco. La violenza sulle donne è un problema enorme. È un problema perché non va bene la violenza in generale. Le donne forse sono più a rischio perché, puntando sul fisico, gli uomini, da violenti, diventano più pericolosi delle donne. Però esiste anche una brutta forma di violenza che arriva dalle donne. Non dev’essere necessariamente fisica, ma può essere verbale, psicologica, educativa. Sto pensando alle donne di mafia, alle madri dei mafiosi che non cercano di tirarli fuori da quell’ambiente, ma anzi li spronano, li educano a rispettare i valori dell’organizzazione. Donne che talvolta sanno essere più mafiose degli uomini. Quindi per me la violenza sulle donne non va presa in considerazione come un problema a parte. È la violenza in generale che non va bene.
In un post su Instagram, in occasione di uno scatto con un’amica, parli della ricchezza del voler bene. A parte la bellezza intrinseca in una frase del genere, che valore ha l’amicizia, quella vera, sincera, per te? Quanto ritieni abbia inciso, sui rapporti tra le persone, l’isolamento dovuto alla pandemia?
Io penso che l’amicizia sia il bene più prezioso che abbiamo. I miei amici sono diventati negli anni la mia famiglia, la famiglia che ti scegli. A causa delle mie vicissitudini e delle mie decisioni, intorno a me, purtroppo, è avvenuta una sorta di scrematura automatica delle amicizie. Molti che ritenevo amici sono spariti nel nulla. Questo tipo di comportamenti mi ha fatto capire che l’amicizia, quella vera, è qualcosa di raro. Le persone che mi sono restate accanto, che in gran parte risalgono ai tempi della scuola, sono gli amici più cari che posso dire di avere adesso, sono le persone a me più vicine, che mi conoscono di più, che mi hanno sempre sostenuto e che ho sempre sostenuto a mia volta. Come dico spesso, gli amori vanno e vengono, ma le amicizie, quelle importanti, durano in eterno. Per me l’amicizia conta più di qualsiasi altro rapporto, anche di parentela. Ad ogni modo, è rimasto ben poco del legame con i miei parenti, data la mia storia. Un po’ alla volta sono entrate altre persone nella mia vita, arrivate dopo la mia presa di posizione contro la mafia e quindi con una consapevolezza diversa, che si sono rivelate veramente speciali e sono diventate amiche. Mi considero fortunato perché ho tanta gente che mi ama, che mi dà man forte, e che io amo. È chiaro che la pandemia ha, per un periodo, congelato i rapporti tra gli esseri umani. Alcune di quelle relazioni sospese si sono sfilacciate, altre non sono più tornate quelle di prima. A me non è accaduto. I miei sono rapporti talmente solidi che nulla può scalfirli. Non li ha scalfiti il mio passato, la mia biografia complicata, non li ha scalfiti il covid. Ne hanno viste tante, e sono sopravvissuti. Credo che l’amicizia sincera difficilmente possa essere corrotta da qualcosa. Da qualunque cosa.
Parlaci del tuo grande amore per gli animali. L’uomo sembra aver perso la capacità di interagire con la natura che lo circonda rispettandone ritmi e delicati equilibri. I cambiamenti climatici, poi, stanno gridando forte e chiaro che è ora di finirla di inquinare e deturpare il pianeta senza che vi siano limiti e regole. Confidaci il tuo pensiero in merito.
Gli animali sono da sempre al centro della mia vita perché da sempre sento questo attaccamento nei loro confronti. Non mi riferisco solo ai cavalli, o ai cani, a me gli animali piacciono tutti. Infatti, nella struttura dove ho i cavalli, ho anche le galline, i pavoni… Gli animali occupano uno spazio speciale nel mio cuore. Ovviamente, in primis i cavalli perché, da che ho memoria, ne sono particolarmente affascinato. Tanto che il mio amore per loro è diventato anche il mio lavoro. Sono una presenza forte nella mia esistenza e sono stati determinanti nelle mie scelte, nel darmi forza, un vero alimento per l’anima. Viviamo in un’epoca in cui ci si sta disinteressando un po’ troppo della natura. Non solo non mostriamo interesse per i suoi problemi attuali e per le creature che, insieme all’uomo, la abitano, ma in più, come razza umana, stiamo facendo del nostro meglio per provocare ulteriori danni. Credo sia il momento di fare tutti un passo indietro. Dovremmo tornare alle origini, partendo dalle scuole, riabituando le nuove generazioni al contatto con la natura. Io abito in Sicilia, in provincia. Per noi è più facile, più normale, convivere con gli animali. Nelle città non è così, nelle città ci sono bambini che non hanno mai visto una gallina, o un cavallo, se non su un libro o in tv. È proprio cambiato il modo di vivere. Questa dovrebbe diventare una priorità, una priorità educativa. Perché un bambino cresce in maniera diversa, più completa, migliore, se si rapporta con il territorio, con gli animali, con gli alberi, con le piante. È l’essenza dell’uomo. Che non è nato per essere immerso nella tecnologia, ma è nato a contatto con la natura. La tecnologia va benissimo, però non bisogna mai dimenticare da dove veniamo e chi è la nostra vera madre. Proteggerla dovrebbe essere una preoccupazione comune. Proteggerla, difenderla, tenercela cara. Altrimenti succede quello che sta succedendo. Che lei si ribella, si rivolta contro di noi. L’uomo è e rimarrà sempre poca cosa rispetto ai disegni del cosmo. E anche solo rispetto ai legittimi capricci del pianeta che lo ospita. Insistere nel fare scempio dell’unica Terra che abbiamo a disposizione, dunque, equivale ad una folle, incomprensibile scelta di autodistruzione. Ci dobbiamo semplicemente fermare, finché siamo ancora in tempo.
Dicci del Centro Equus, che hai fondato a Castelvetrano. Il posto è in parte scuola di equitazione, in parte laboratorio culturale, fabbrica di talenti per l’altra tua attività, il teatro equestre. Spiegaci questa sua, tua, suggestiva doppia anima.
Il Centro Equus è un qualcosa in cui mi riconosco in pieno, e che ho voluto costruire modellandolo secondo i miei desideri. Secondo la mia persona. La passione per l’arte, per il teatro, per il mito, per la cultura classica, per l’archeologia, per tutto ciò che ha carattere epico, mi ha costantemente accompagnato. Ho sempre sentito l’esigenza di esprimere artisticamente le mie inclinazioni. Ma ero anche preso dall’amore per i cavalli. In una qualche misura ispirato da Bartabas, l’artista francese che ha inventato il teatro equestre, che è il mio guru, ho capito che per essere davvero me stesso dovevo unire le due realtà, i due lati di me. Il mondo dei cavalli e il mondo del teatro. Da questa necessità personale nasce il mio progetto di teatro equestre. Il centro viene creato di conseguenza. Avevo bisogno di uno spazio che diventasse un laboratorio, un vivaio per formare nuovi artisti. Ma, soprattutto, puntavo a realizzare un centro diverso dagli altri. Uno nel quale il focus, il valore principale, fosse l’amore per i cavalli, unito alla volontà di dar vita a qualcosa di bello. Sono fortemente legato al concetto di bello. Per me è indispensabile fare e produrre cose belle, contribuire alla diffusione della bellezza nella comunità umana. Vivo il bello in maniera trasversale, spaziando dal teatro equestre, dagli spettacoli che faccio, alla fotografia, un’altra delle mie attività, ai video. Il bello è imprescindibile. Considero il mondo dei cavalli l’apoteosi del bello, dell’espressione della bellezza, della libertà. Quattordici anni fa, quando rientrai da Roma, dove avevo vissuto e studiato, decisi di utilizzare i miei campi, lo spazio intorno a casa, per ospitare questo mio laboratorio. Il centro è parente stretto dei miei sogni e delle mie ambizioni di artista.
Al Centro Equus il cavallo viene messo a disposizione anche delle persone che vivono ai margini della comunità, a causa di disabilità o problemi e disagi di altro tipo. Come funziona questa preziosa nicchia del tuo lavoro?
Uno dei nostri obiettivi è quello di aiutare gli emarginati, chi si trova relegato in seconda fila, ad integrarsi. La mia idea di ippoterapia è questa. Il soggetto in difficoltà non deve restare isolato, non va lasciato solo. Da noi c’è la volontà di inserirlo in un percorso collettivo, di ampio respiro. Tante volte è capitato che ragazzi disabili che seguiamo con l’ippoterapia, che frequentano i corsi presso il nostro centro, siano stati coinvolti in spettacoli di teatro equestre. In un caso, una bambina Down è stata protagonista di un mio lavoro che si chiama “Il sogno di Elena”, presentato anche a Fieracavalli, al Gala d’Oro. Diciamo che riuscire a valorizzare qualcuno che una società distratta sembra quasi voler dimenticare è una grande soddisfazione. Perché nessuno, in realtà, è diverso dagli altri. Cioè, siamo diversi perché siamo noi stessi, perché ognuno di noi ha la propria personalità. Ma non perché c’è chi vale di più e chi vale meno. Il cavallo ti aiuta a superare i tuoi limiti, e ti permette di scoprirli. Questo per dire che l’equitazione in sé, al di là dell’ippoterapia, è terapeutica. Lo è per chiunque. Anche per le persone cosiddette “normali”.
Veniamo finalmente al teatro equestre, magnifica forma d’arte di cui sei una stella riconosciuta e che ti ha portato fama, premi e un sacrosanto apprezzamento da parte di pubblico e critica. Una forma d’arte nella quale uomini e cavalli si muovono all’unisono, come spiriti affini, per dar vita a spettacoli intensi e magici. Quali sono i linguaggi, i significati, le caratteristiche salienti del teatro equestre a firma Giuseppe Cimarosa?
Come ho già anticipato, il mio teatro equestre è figlio del mio amore per Bartabas e per il suo progetto teatrale, chiamato “Zingaro”. Prima che iniziassi io, in Italia questo tipo di teatro non esisteva affatto. A dire il vero, nel mondo ci sono poche realtà come le nostre. Per me lui era ed è un punto di riferimento. Il mio sogno era quello di diventare il Bartabas italiano. Quando ho deciso di intrecciare le due parti di me, l’amore per il teatro e quello per i cavalli, e ho cominciato il mio viaggio d’artista, ovviamente mi sono ispirato a Bartabas. Poi però ho scelto un modo di raccontare, e di raccontarmi, molto personale, che deriva dal mio bagaglio culturale e dalle caratteristiche dei posti da cui vengo. Ne è scaturito un linguaggio onirico, quasi sempre onirico, che veicola dei messaggi. Centrale è la contrapposizione tra il bene e il male, tra il bianco e il nero. Spunto che deriva dal conflitto che vivevo a livello familiare e sociale. Un conflitto che trovava parziale sfogo nel teatro. Nel mio lavoro questo elemento c’è sempre: lo scontro tra due forze, il tentativo di prevaricazione dell’ombra sulla luce. Tutto ciò viene narrato in chiave poetica e onirica. Io non sono un fan del teatro didascalico, quello che espone e spiega ogni cosa. Preferisco lasciare il pubblico libero di interpretare storie e contenuti. Più che le parole, amo le immagini. Perché le immagini possono comunicare tantissimo. Questo è il mio teatro equestre. È il risultato del fondersi di suggestioni e sensazioni, di echi del teatro contemporaneo, delle carezze della musica, del sussurrare della poesia.
Hai lavorato come stunt-man per alcune produzioni televisive e come attore nella web serie, ambientata in Sicilia, “Indictus”. Cosa ci puoi dire di queste due diverse esperienze?
La mia vita da stunt-man è molto lontana nel tempo ed è stata frutto del caso. Vivevo a Roma e sono capitato nel giro delle produzioni tv, finendo a lavorare in quel ruolo. Oggettivamente era un’opportunità da cogliere. Ero giovane e al tempo la cosa mi stava bene. Poi però mi sono accorto che si trattava di una professione che, oltre al compenso, non mi dava nulla. Non mi arricchiva né come uomo, né come artista. Io invece avevo bisogno di esprimere sia me stesso che la mia arte. Era solamente un lavoro, facevo quello che mi veniva detto di fare e stop. In seguito, sono uscito da quel mondo e mi sono dedicato al teatro equestre. L’occasione con “Indictus” si è presentata mentre mi trovavo in Sicilia. Inizialmente, quando mi venne proposta la parte, non ero entusiasta. Dopo aver letto la sceneggiatura e aver compreso bene quale fosse il soggetto, ho cambiato idea. Era una serie a tema storico, che parlava molto della mia terra e dello scontro che ci fu tra gli arabi e i normanni, arrivati in Sicilia dal nord. E dunque parlava un po’ anche di me. Oltretutto, lo storico e il fantasy sono due generi che adoro. Io sono un appassionatissimo di “House of the Dragon”, perché quello attraverso il fantasy è un modo di raccontare meraviglioso. Di conseguenza, quando ho capito il prodotto “Indictus”, ho detto sì. Perché ci ho voluto credere. E perché avevo conosciuto la produttrice e il regista, che avevano ideato qualcosa che a me piaceva parecchio. Loro e la storia in cui mi volevano coinvolgere mi hanno convinto.
Sei spesso presente a Fieracavalli Verona, evento di riferimento per chi ama i cavalli e l’equitazione. Condividi con noi una tua riflessione su una fiera tanto emblematica e conosciuta.
Fieracavalli è un evento famoso a livello europeo. È un appuntamento imperdibile, una fiera veramente unica, che esiste da tantissimi anni. Per me Fieracavalli è casa. Artisticamente sono nato lì. Devo tutto a Fieracavalli, e al regista del Gala d’Oro Antonio Giarola, che da subito ha creduto in me. È una grande soddisfazione che lui sia abituato a lasciarmi una pressoché totale libertà di esprimermi a livello artistico e registico. Quasi sempre, nelle varie occasioni in cui ho partecipato al Gala d’Oro, Antonio mi ha concesso di dirigere il mio blocco senza mettere bocca. Una completa libertà di espressione. È una dimostrazione di stima preziosissima, che mi fa stare bene, e mi permette di lavorare con leggerezza e sincerità, senza recinti o costrizioni. Quindi, proprio per questo, lo ribadisco, per me Fieracavalli è casa.
Nella vita le scelte sono importanti. Tuo padre, ad un certo punto, ha preso la sua decisione, e si è schierato dalla parte giusta. Tu questo lo hai fatto da sempre. Cosa ne pensi di chi invece opta per una vita intrisa di violenza, fatta di omicidi, crudeltà e segreti in nome del denaro e del potere? Torniamo su di te, che hai preferito la libertà di un’esistenza pulita, onesta, dedicata alle persone belle, agli animali e al teatro: che futuro leggi nelle intenzioni del domani per te e il tuo lavoro, per la tua arte?
Io mi sento un po’ pessimista riguardo al futuro. Perché, vedi, le vicende familiari mi hanno sempre intralciato, rallentando la realizzazione dei miei sogni, quasi volessero impedirmi di raggiungere grandi obiettivi. Malgrado tutto, ci sono riuscito lo stesso. Però, come puoi immaginare, ho dovuto impiegare troppe energie in eccesso per arrivare dove volevo. E continuo a impiegarne ancora troppe. Questo per un passato che non è colpa mia e per un destino che non ho scelto. Per una lotta in difesa di diritti e libertà, a tutt’oggi in pericolo, che non spetta solo a me portare avanti, ma che, mi preme sottolinearlo, è un fardello dell’intera società. Io non smetto di lottare perché sono una persona che crede in quello che sta facendo. Credo in questa battaglia, la ritengo ormai una missione. Resta il fatto che il mio lavoro e la mia arte ne sono risultati molto penalizzati. In più considera che, anche se non si fosse messa in mezzo la mia particolarissima storia, il mio si sarebbe comunque dimostrato un percorso professionale e artistico estremamente difficile. Ricordo che sono stato un pioniere, in Italia, per quanto riguarda il teatro equestre. Dettaglio più che sufficiente per rendere l’intera faccenda piuttosto complicata, no? Di certo, le cosiddette questioni di famiglia non sono state d’aiuto. Adesso ho quarant’anni e non so cosa mi accadrà nel lavoro, cosa mi riserva il domani. Magari resterà tutto com’è, o magari resteranno solo dei ricordi, dei bei ricordi. Oppure, forse, riuscirò a fare qualcos’altro di importante. Io ci spero sempre. Non è facile, ecco. Non è facile. Venendo alle scelte dei mafiosi, fatico a comprenderle. Perché sono lontani anni luce dal mio modo di vivere, dal mio modo di pensare. Rappresentano ciò che combatto, la mia opinione su di loro non può che essere quella che dovrebbero avere tutti gli altri. Rappresentano il marcio, l’ombra, la nebbia. Nebbia di cui parlo negli spettacoli. Uno di questi si chiama “D’amore e di nebbia”. Racconta di una terra che è attraversata, contesa, da due forze, l’amore e la nebbia. I mafiosi sono la nebbia. La nebbia va diradata, va illuminata, va spazzata via. Non si può pensare altro se non che la mafia è un fenomeno criminale e sbagliato. Questa gente, quindi, o la smette, o deve pagare. Deve essere isolata. In ambito mafioso, è tutta una questione di cultura, di mentalità. Loro non sono cattivi con la consapevolezza di esserlo, coscienti di stare sbagliando. Al contrario, pensano di essere buoni. Credono di essere nel giusto e sono convinti che quelli in errore siano gli altri. È proprio una questione di mentalità, una mentalità rovesciata rispetto alla nostra. È questa la mentalità mafiosa, ed è difficile da sradicare. Perché le persone le arresti, ma la mentalità purtroppo rimane. Va contrastata con più forza, con più mezzi e più convinzione. Vorrei dire anche con maggior cuore. Da parte della politica, delle forze dell’ordine, e delle persone perbene. Insomma, da parte di ciascuno di noi.
Conclusione
Giuseppe ha fatto dell’arte la propria vita e, sotto molti aspetti, ha reso la sua stessa vita un’arte. È un eccellente e celebrato autore del teatro equestre che tanto ama, e che da anni è tanto amato dal suo affezionato pubblico. Non apprezza, forse a ragione, il termine eroe. Parlare di eroi evoca, infatti, scenari ridondanti, emergenziali, spesso tragici. Ma una vita per tutti liberata dal male non dovrebbe essere l’utopistica ricompensa di un’estenuante, eterna lotta che preveda il continuo sacrificio dei campioni del bene nel loro tentativo di ottenere giustizia per il popolo.
Dovrebbe essere la normalità. Una normalità oggi da pretendere senza ulteriori ritardi, e un domani da godere alla luce del sole, quando i violenti parassiti che si considerano padroni del nostro mondo saranno stati ricacciati nelle loro tane una volta per sempre. Giuseppe respira e regala bellezza. Da amante degli animali, da uomo di teatro, ma, soprattutto, da uomo onesto e libero.
Il suo non è stato un cammino facile o indolore, né scevro di delusioni o rimpianti. Il cammino degli eroi, Giuseppe mi perdonerà per l’espressione, nella nostra società ingrata, non lo è mai. Vivere una vita come la sua permette però di pensare al passato senza provare vergogna e di fissare negli occhi il proprio futuro senza dover abbassare lo sguardo neppure per un momento. Grazie amico mio. Non sono, non siamo, in molti a poter fare lo stesso.