Intervista a Leonardo Patrignani a cura di Daniele Cutali per Sugarpulp MAGAZINE.
Leonardo Patrignani è un artista a tutto tondo. Ha cominciato il suo percorso nelle vesti di cantante heavy metal con la band dei Beholder, da lui fondata. Fa quindi il grande salto nel mondo della narrativa insieme a Mondadori, con la quale esordisce grazie alla vendutissima saga di Multiversum, trilogia di fantascienza young adult nella quale racconta l’avventura di alcuni ragazzi dai poteri speciali che hanno la possibilità di viaggiare in migliaia di universi paralleli.
Nel 2015 esce There, il suo ultimo romanzo in cui narra la vicenda di una giovane ragazza a cui viene a mancare in modo tragico la madre e che per questa ragione vive esperienze pre-morte, sul confine dell’aldilà. Un romanzo inquietante, malinconico, profondo. Facciamo quattro chiacchiere con lui.
L’intervista
Benvenuto sulle pagine di Sugarpulp Magazine, Leonardo. Dal momento che molti nostri lettori e membri dell’Associazione Sugarpulp sono anche appassionati di musica rock e heavy metal, prima di parlare dei tuoi libri, se ti va facciamo un breve excursus sulla tua vita musicale. Quando hai iniziato a cantare e come sono nati i Beholder?
Ho cominciato a cantare intorno ai 18 anni e i Beholder sono stati la mia prima (e unica, in realtà) creatura. Ho fondato la band nel 1999, quando ne avevo 19, e abbiamo fatto concorsi e demo per un paio di anni fino a trovare la prima offerta discografica (Dragonheart Records) ed esordire con The Legend Begins nel 2001.
Quali musicisti o gruppi hanno influenzato maggiormente la vostra musica?
Io sono cresciuto con Queen, AC/DC, Tesla e altri ma, se devo essere sincero, la musica dei Beholder risentiva forse maggiormente dell’influenza di band del periodo che suonavano un genere affine al nostro, come Blind Guardian, Rhapsody e Nocturnal Rites. Questi ultimi, con Afterlife, hanno certamente influenzato il nostro drastico cambio di stile fra il primo e il secondo disco (a mio avviso il migliore, Wish for destruction).
Tre album, vari concerti, il successo e poi lo stop definitivo. Se è lecito chiederlo, cosa è accaduto?
C’erano delle incomprensioni interne, come spesso accade nelle band. Avevamo avuto problemi con la cantante (che è rimasta una cara amica, per la cronaca) e personalmente, come compositore principale del gruppo, stavo vivendo un periodo particolare e in un certo senso modificando i miei gusti musicali. Piuttosto che incidere un quarto disco non sentito, non vero, abbiamo preferito scioglierci.
Dopo lo scioglimento dei Beholder quale è stato il percorso che ti ha portato alla letteratura scritta, senza dimenticare le tue esperienze di doppiaggio?
Proprio durante l’attività della band avevo portato a compimento il mio primo romanzo, intitolato Labirinto. Un chiaro thriller di matrice kinghiana, che un minuscolo editore di Torino mi pubblicò (“stampò” forse è più adeguato) ma con una tiratura quasi inesistente. Sono tornato a scrivere con “intenzioni serie” nel 2008, dopo la scomparsa prematura di mio padre, allo stesso tempo un’esperienza traumatica e una scintilla che mi ha spinto a buttare ogni energia nell’arte. Nel frattempo sì, ho studiato recitazione e dizione per intraprendere una strada come doppiatore. Oggi ho poco tempo da dedicarvi, ma continuo a farlo, e stando a Milano mi capita di doppiare principalmente videogiochi.
Arriva quindi la saga di Multiversum, della quale il primo volume omonimo viene pubblicato da Mondadori nella collana Chrysalide nel 2012. L’idea di migliaia di universi paralleli non è nuova, a partire dalla fisica quantistica per finire ai fumetti americani soprattutto della DC Comics. Come sei giunto alla tua idea di Multiverso e come sei riuscito a raggiungere, con essa, il gigante Mondadori? E poi sono arrivati i seguiti Memoria e Utopia. Era già previsto o è stata una conseguenza del successo di Multiversum?
Alle origini di tutta la storia editoriale di Multiversum, in realtà, si trattava di un romanzo autoconclusivo. Mondadori fece la sua prima offerta per quel volume. Poi, cominciando a parlare con Francesco Gungui (ai tempi editor della redazione ragazzi) dello sviluppo e degli interventi sulla trama, ci è venuta la voglia di ampliare gli orizzonti, di sfruttare la tematica in vista di un’ipotetica serialità. La stessa offerta dunque, che il mio agente stava ancora negoziando, si è trasformata in un deal per due libri con l’ipotesi di un terzo se la saga fosse partita bene. Cosa che, fortunatamente, è accaduta, rendendo possibile dunque lo sviluppo su tre volumi e la pubblicazione di Memoria e Utopia negli anni successivi. A proposito della tematica, credo di aver attinto a quella scienza di confine che tanto mi incuriosisce, ormai da almeno una decina di anni. L’idea del Multiverso mi permetteva di rispondere alla domanda, nata in occasione della scomparsa di mio padre: “e se avessimo preso una strada diversa?”. Le infinite possibilità sono state la risposta. Da lì alla storia di Alex, Jenny e Marco il passo è stato breve.
Arriva There, quindi. Come nasce l’idea di esplorare il confine tra la vita e la morte e il campo dei sogni premonitori?
Credo sia stata una naturale conseguenza del lavoro precedente. Avevo bisogno di alzare leggermente l’asticella, confrontarmi con un target forse di qualche anno più “maturo” e con una tematica assolutamente universale: la vita oltre la vita. Avevo già letto qualcosa, mi ero incuriosito, ma prima di iniziare la stesura di There ho studiato la materia come se dovessi preparare un esame universitario o un convegno. Utilissimo, in questo percorso, il saggio Esperienze di premorte del dott. Enrico Facco, col quale sono anche entrato in contatto durante il processo creativo, ma anche i libri di Moody, Michael Harner, gli studi di Sam Parnia. La sfida era quella di raccontare un dramma autentico come la scomparsa improvvisa di un genitore e l’elaborazione del lutto da parte di una ragazza di soli 19 anni, costretta a reinventarsi la vita e a confrontarsi con esperienze al confine con la metafisica. Sono molto soddisfatto di questo viaggio e ho trovato nel responso dei lettori una conferma preziosa.
Ormai sembra ti sia affezionato a protagonisti che sono ragazzi, come Alex, Jenny e Marco della saga di Multiversum, e la stessa Veronica Argenti di There. Non temi di rimanere ingabbiato nell’etichetta di scrittore young adult o l’afflato tipico del Bildungsroman è un’opportunità che permette di raccontare storie profonde di crescita interiore?
Interessante quesito. Fecero quasi la stessa domanda a King (credo fosse un suo agente o editor dell’epoca) quando propose un altro romanzo horror dopo Carrie. Il rischio di ingabbiarsi in un’etichetta, già. Ti dirò, a me piace variare. L’ho sempre fatto. Se ascolti i tre dischi dei Beholder, noterai questa tendenza. Va detta una cosa. Multiversum è un contenitore di storie piuttosto vasto. Se la linea principale viene trainata da due sedicenni (nel primo libro, Alex e Jenny) e un ventunenne (Marco), è anche vero che dal secondo in poi le dinamiche cambiano drasticamente. Entrano in scena personaggi adulti (Ben, Anna…), e in Utopia gli stessi ragazzi li troviamo sia giiovani che adulti (inutile spoilerare il motivo!), arrivando così a un cast veramente eterogeneo.
Senza entrare nel dettaglio, la seconda parte di Utopia vede in scena svariati “attori” di oltre cinquant’anni, al punto che durante la stesura mi sono detto “accidenti, l’ho trasformato in Cocoon!”. In ogni caso, ho nel cassetto storie anche per adulti, esclusivamente per adulti. Devo ancora capire quando vedranno la luce, ma arriverà anche il loro tempo.
Per scrivere There hai compiuto approfonditi studi scientifici sull’argomento. Tu personalmente credi in queste esperienze o può essere soltanto buon materiale per una trama misteriosa come quella di There?
Sono partito da un approccio talmente scettico, nel senso originale del termine, senza dunque prendere alcuna posizione e cercando testi scientifici che fossero in grado di fornirmi tutte le informazioni possibili e di “convincermi”, che oggi credo fermamente che qualcosa esista eccome oltre l’ultima soglia del nostro percorso terrestre. La convinzione non nasce dunque da uno spirito new age o da un volo di fantasia, ma dallo studio delle neuroscienze e dall’analisi dell’intera fenomenologia. Una ricerca di concretezza in un ambito assolutamente impalpabile. Sembra una contraddizione, in realtà non lo è.
Basta addentrarsi in questo universo sottile e dare una sbirciata a uno stadio superiore di coscienza che ha tanto da insegnarci e che oggi, a differenza del passato, anche la scienza ufficiale prende finalmente in considerazione (determinanti, negli ultimi anni, le tecniche di brain imaging, per cominciare a esaminare qualsiasi tipo di esperienza cerebrale e discuterne con spirito critico e senza pregiudizi di sorta). Naturalmente lo spunto, a livello narrativo, è perfetto per creare quell’alone di mistero e curiosità nel lettore, ma nasce da una pulsione del tutto sincera che mi accompagna ancora oggi: la volontà di scoprire che cosa si cela oltre questa materiale realtà, la voglia di vedere al di là.
In There racconti la fredda periferia di Milano, che la depressione malinconica di Veronica fa sembrare ancora più disperata e fatiscente di quello che è in realtà. È proprio così o è il punto di vista di Veronica, dal quale poi può fiorire soltanto la speranza?
La sua percezione della città è di certo condizionata dallo stato d’animo. Riesce a vedere solo la scala di grigi del mondo che la circonda. Milano sa essere straordinariamente moderna e scintillante e allo stesso tempo fredda e inospitale. Veronica, all’inizio della storia, a causa del trauma subito un anno prima vive una sorta di paralisi emozionale. Non guarda realmente in faccia nessuno, non sente più i sapori della vita, rifiuta le emozioni e i contatti sociali. Oltretutto abita in periferia, e nelle prime pagine la troviamo persa nella fitta nebbia tipica dei paesini appena fuori città. Dunque, vede la peggiore Milano possibile. Finché qualcosa non cambia la sua vita…
La saga di Multiversum è terminata, a parte le antologie spin-off Multiversum Stories nn. 1 e 2 che hai deciso di produrre. Hai già affermato che There è uno one-shot. Cosa dobbiamo aspettarci prossimamente da Leonardo Patrignani?
Sono muto come un pesce, in questo momento. Fino all’eventuale firma su futuri deal, non posso dirti molto. Posso però garantire che ci saranno diversi progetti interessanti che mi vedranno in azione nel 2016. Sto lavorando sodo e su fronti differenti, sono certo che presto si vedranno i frutti e ne vedrete delle belle.
Cosa ti senti di consigliare agli scrittori esordienti ed emergenti?
Consiglio di trattare questa delicata materia con tutta la serietà possibile. Scrivere è un mestiere: richiede tanta umiltà, pazienza, rispetto dei ruoli, determinazione. Non bruciatevi, non abbiate fretta solo per la smania di pubblicare. Quello che credete possa essere un grande esordio, a volte, si rivela un autogol. Mettetevi sempre in discussione, spostate il punto di vista, non affezionatevi troppo alle vostre stesse idee. Il vaglio editoriale di una redazione è importante, è un test decisivo, non aggiratelo con facili autopubblicazioni.
Non vi aiutano a crescere, non sono passaggi importanti della vostra carriera. Vi assicuro che non c’è niente di meglio, per migliorare, che incontrare un editor che vede in voi un potenziale autore ma vi ribalta, vi apre in due, vi mette sotto torchio al punto da distruggere qualsiasi cosa voi abbiate creato. Da quelle ceneri nascerà la vostra vera arte.
Grazie Leo, per la tua immensa disponibilità. In bocca al lupo per tutti i tuoi progetti.
Grazie a te, Daniele, e un saluto ai lettori di Sugarpulp!