Intervista a Maain Achour, volontaria per ONG come Islamic Relief e ActionAid, scrittrice, attivista. A cura di Giorgio Cracco per Sugarpulp MAGAZINE.

Talvolta, Maain Achour, giovane studentessa, neo sposa a fine marzo di quest’anno, sceglie di regalarsi una pausa dall’assordante cacofonia della vita moderna e si ricava del tempo per sé, lasciando i pensieri liberi di vagare verso le loro destinazioni preferite, concedendosi di immaginare il suo mondo ideale. Un mondo dove la moneta di scambio, il bene più prezioso, non è l’oro, né è il petrolio, ma l’amore.

Lei lo vede come una risorsa inesauribile, un carburante per tutto, persone, comunità, relazioni, per l’ambiente e per le altre creature che, insieme a noi umani, lo abitano e lo vivono. L’amore non finisce le sue scorte, non segue i capricci dell’economia, non sale di prezzo, non è vittima del dramma della guerra, non è soggetto a sanzioni o ricatti politici. L’amore, secondo Maain, si rigenera di continuo, perché chi lo dona, a sua volta lo riceve e, di conseguenza, fa la propria parte affinché il mondo che fa uso di questo bene, di questa moneta, sia sempre più unito e in armonia, sempre più favorevole alla sua circolazione. E quindi felice.

Si parla molto, soprattutto nell’attuale contesto internazionale, di transizione verde, di energie rinnovabili. I vecchi modi di alimentare il circo dell’umanità, con il suo variopinto inventario di macchine, industrie, grandi città e via dicendo, improvvisamente sembrano avere un costo troppo alto. In termini di vile denaro, certo, ma anche di vite umane, sangue, sofferenza. I giovani sono il futuro, come si dice da sempre. Prima o poi dovrà essere vero per forza. Proviamo a conoscere insieme Maain Achour, le sue speranze, i suoi desideri. E le paure e i rimpianti. Perché se le idee trasportate dai pensieri quando li lascia correre liberi, verso le loro utopie, si realizzassero anche solo in minima parte, il mondo sarebbe più bello e più giusto. E per una volta, la prima, lo sarebbe per tutti.

L’intervista

Maain, sei di padre algerino e madre slovacca. Una ragazza italiana di fede islamica nata a Milano e studentessa di sociologia alla Bicocca. Maain Achour è tutto questo e molto di più, come stiamo per scoprire. Leggendoti sui social, colpiscono l’affetto, la nostalgia e la commovente dolcezza con cui parli della tua famiglia. Raccontaci di te, aiutaci a capire chi sei. Scrivi per noi, con le parole più belle, un piccolo estratto dalla tua biografia.

Beh, che dire…vivo da parecchi anni a Carate Brianza anche se, in passato, tra un trasferimento e l’altro, mi sono ritrovata a cambiare casa e a dovermi fare nuovi amici più di una volta. Ho imparato sin da bambina l’arte del sapersi adattare e questo mi è tornato utile perché, nella vita, ho sperimentato frequenti cambiamenti. Ho intrapreso diversi percorsi di studi prima di abbracciare la ricerca sociale. Sono passata dalla moda al settore sanitario e alla fine sono approdata alla sociologia. Il conflitto con me stessa per cercare di capire quale fosse la mia strada non è stato breve. Su una cosa, lo ammetto, non ho mai avuto dubbi: la scrittura.

Ma andiamo per gradi. Sono cresciuta in periferia, in Brianza, e nel corso del tempo mi sono molto legata a Milano. Infatti, le mie attività attuali, le amicizie più care e le esperienze che più mi hanno reso la persona che sono oggi sono connesse con la realtà milanese. Come ho detto, ho sviluppato presto il mio spirito di adattamento. Qualità che mi ha fatto comodo perché essere donna, musulmana, con genitori stranieri e indossare il velo, in Italia, non è esattamente una passeggiata di salute. Io mi sono sempre ritenuta italiana. Per un motivo piuttosto semplice. Sono nata e cresciuta in Italia e l’italiano è la lingua con cui parlo, scrivo, elaboro i miei pensieri e concepisco i miei sogni. Eppure, per qualcuno, italiana non lo sono mai stata o mai abbastanza. Per me, il velo e le mie origini sono sempre stati un punto di forza che mi ha permesso di approcciarmi al mondo con un bagaglio più ampio e di vederlo con lenti più neutre. Io che ho vissuto in più culture e alla fine, da sociologa, ho deciso di abbracciarle tutte e nessuna. Nonostante gli sforzi per essere considerata alla pari delle mie coetanee, ho subito atti di discriminazione e mi sono sentita ospite sulla mia stessa terra, nella mia stessa casa. Questo, però, non ha fatto altro che rafforzare il mio carattere.

E se oggi sono la ragazza determinata e piena di grinta che cerco di raccontarvi è solo grazie alle situazioni, positive e negative, che ho incontrato nel corso dell’esistenza. Ricordo che, quando ero piccola, papà portava me e le mie sorelle in un parco con campi da calcio, basket e un ruscello, costeggiando il quale facevamo lunghe camminate. Ogni tanto capitava che anche mamma si unisse a noi e allora, quando eravamo tutti insieme, mi sentivo la bambina più felice del mondo. Mi bastava essere in compagnia della mia famiglia, a cui ho sempre voluto un bene dell’anima e a cui devo tutto. Crescendo, la vita mi ha messo alla prova, e l’aria per me si è fatta, a tratti, più pesante del dovuto. La mia famiglia è stata testimone di come quegli anni difficili abbiano inciso nel mio cuore ferite incancellabili. I miei familiari ed io possiamo dire di aver affrontato, e vinto, quelle sfide, anche se altre certamente ci aspettano dietro l’angolo.

Qualcuno di loro magari si è un po’ allontanato da me, con qualcuno, al contrario, sono stata in grado di costruire un legame speciale. Ciò che importa è che, alla fine, nonostante i problemi, siamo sempre stati presenti l’uno per l’altro, nei momenti decisivi, quelli che contano, e siamo rimasti uniti. Superata la notte, è puntualmente spuntato il sole. E anche se non passeggio più con le mie sorelle e i miei genitori in quel parco, dentro di me sento ancora il calore buono di quel luogo per noi magico. La sua atmosfera benevola, i bei ricordi e la mia famiglia ci saranno sempre per me. Ora lo so. E capisco di non averne mai dubitato davvero.

“Quando l’amicizia ti attraversa il cuore”. Sono parole tue. Quanto vale l’amicizia, quella vera? Quanto è importante per te?

Inizio raccontando un fatto che mi è accaduto recentemente. Una cara amica mi ha scritto di non stare molto bene e ha aggiunto di sentire un forte peso sul cuore. Quando siamo sopraffatti dalle emozioni, siano esse positive o negative, è il cuore, simbolicamente, il centro di tutto. Quando siamo felici o magari, al contrario, tristi ciò si ripercuote sul nostro fisico, e sul nostro cuore. Perché mente e cuore, ragione e sentimento sono più connessi di quanto crediamo. Questo preambolo per dire che l’amicizia per me significa portare quel peso sul cuore in due, condividere il dolore e affrontare qualunque cosa insieme. Poter contare su qualcun altro oltre a te stesso è una fortuna che non tutti purtroppo possono dire di avere. Le persone che reputo veramente amiche sono poche perché per me amicizia vuol dire esserci. Esserci quando è importante. Il che non significa doversi sentire ogni giorno.

Anzi. Spesso vedo ragazzi chattare tutto il tempo con il cellulare, mentre sono seduti tra loro. Preferiscono dedicarsi a qualcun altro, a qualcuno che è lontano, altrove, invece di rivolgersi a chi hanno di fronte. I social, se se ne abusa, rischiano di distrarci, facendoci perdere i piaceri veri della vita. Non dico che i social in sé siano negativi, ma talvolta catturano troppo la nostra attenzione, portandoci a distogliere lo sguardo dalla realtà, per farci concentrare su un vissuto “virtuale” che può rivelarsi ben poco reale. E se lo è, è solo una parte della realtà, quella che ognuno decide di far vedere. La copertina accattivante del libro della nostra vita. In amicizia, invece, la chiave è aprirsi, lasciarsi scoprire dall’altro per come si è, mostrando il bello, ma anche il brutto di noi, di quello che ci succede.

Gli amici, quelli veri, non si fermano alla copertina, ma leggono con affetto ciascuna delle pagine della nostra esistenza. Ritengo fondamentale che si torni a coltivare rapporti sani, chiacchierando davanti ad un caffè e ad un sorriso, e non unicamente attraverso uno schermo. Quando parlo di amicizia non mi riferisco solo ai nostri coetanei, ma a chiunque ci sia per noi, a condividere le esperienze della vita. I genitori, i fratelli e le sorelle, i nostri insegnanti possono diventare amici e confidenti. Ognuno di questi legami può risultare unico e speciale a modo suo.

Fai parte dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia, organizzazione che vuole essere un punto di riferimento per ragazze e ragazzi musulmani in Italia. Come lavora questa associazione, di cosa si occupa? Quanto è stato d’aiuto questo gruppo per te nel corso degli anni?

Quando si è giovani, si è alla ricerca di modelli da imitare e di momenti di confronto, in cui crescere insieme ai coetanei. La scuola è uno di quei luoghi in cui mettiamo in gioco noi stessi, attraverso le tappe tipiche di ogni età e il dialogo con gli altri. E’ stato così anche per me. Col tempo, però, ho cominciato a percepire come un blocco, come se un qualcosa si frapponesse tra me e una vita piena, priva di limitazioni invisibili e posticce. Ho iniziato a sentirmi via via più lontana dai miei compagni di scuola, mentre il mio rapporto con loro invece di rinsaldarsi, si sfilacciava sempre di più. Mi consideravo incompresa perché loro non potevano capire cosa volesse dire crescere ferita dagli sguardi taglienti e dalle provocazioni di chi non mi riteneva abbastanza italiana.

Quando io non mi riconoscevo in nessun’altra cultura se non in quella di questo paese. E poi ho incontrato l’associazione Giovani Musulmani d’Italia. Lì, finalmente, ho trovato uno spazio sicuro in cui mi sono sentita capita e accettata. Ti spiego un po’ come funziona con loro. Si tratta di un’associazione che si sviluppa a livello territoriale, toccando diverse città italiane. Ogni sezione organizza in maniera autonoma la propria attività. Attività che si estrinseca sia tramite incontri settimanali che attraverso eventi regionali e nazionali. Gli incontri, grazie ad una scelta di programmi e contenuti intelligente, variegata e stimolante, capace di affiancare sessioni ludiche ad altre di apprendimento in senso stretto, contribuiscono a trasformare i giovani partecipanti in protagonisti attenti, non solo del volontariato, ma della propria esistenza e a renderli membri propositivi e consapevoli della propria comunità.

Per questo, le singole realtà dei GMI selezionano con cura il lavoro da svolgere, al fine appunto di offrire a ciascun giovane un viaggio educativo, e di favorire il raggiungimento di una più compiuta consapevolezza di sé, secondo i principi e le prospettive derivanti dalla cultura e dall’identità islamiche. Qui ho trovato qualcuno che, come me, affrontava la sfida dell’essere italiani senza rinunciare alla propria fede e alle proprie radici. Questo ha significato molto per me ed è stato fondamentale per il mio percorso di vita perché ho capito di poter far tesoro delle mie origini, valorizzandole, e al contempo coltivare il legame con questa terra, l’Italia, che reputo a tutti gli effetti casa. Ho frequentato l’associazione dei GMI per più di dieci anni. Le iniziative a cui ho preso parte avevano per oggetto la discussione su temi a me particolarmente cari, come la crescita dell’individuo da un punto di vista sia personale che religioso, ma non solo.

A volte capitava di guardare un film per commentarlo insieme oppure veniva invitato un ospite per approfondire un argomento specifico, sul quale poi ci saremmo confrontati in un workshop. Quella con i GMI è stata un’esperienza molto importante perché mi ha permesso di lavorare sulle mie insicurezze, maturare e mettermi in gioco come non avevo mai potuto fare prima.

Sei volontaria e team leader a Milano per Islamic Relief, ONG tra le più importanti al mondo. Raccontaci la sua storia, gli scopi e le sue principali attività. Qual è stato il motivo che ti ha spinto ad unirti ad Islamic Relief? Cosa significa per te farne parte?

Ad un certo punto della mia vita mi sono resa conto che, nonostante mi impegnassi col volontariato, non riuscivo a sentirmi realmente utile. Avevo la sensazione di non fare la differenza. Io volevo dare un contributo sostanziale nel rendere migliore questo mondo, e desideravo che le mie azioni avessero un riscontro maggiore, un respiro più ampio. Di conseguenza, ho rarefatto le presenze con i GMI, gruppo che mi aveva dato molto, ma che non mi bastava più. Ero estremamente grata nei loro confronti per aver curato vecchie ferite e per chi mi avevano aiutato a diventare. Volevo restituire almeno una minima parte dei doni che mi aveva regalato la vita.

È stato allora che ho scoperto Islamic Relief, ONG fondata dal dottor Hany El-Banna in Gran Bretagna nel 1984. Il dottor El-Banna decise di agire in seguito alla carestia in Sudan. Venne ispirato, si dice, dal gesto del nipote, che aveva regalato la sua moneta di cioccolato da venti pence per aiutare la popolazione che soffriva a Khartoum. Il lavoro di Islamic Relief, inizialmente, si concentrò sulle catastrofi e sui soccorsi a carattere emergenziale: venivano assistiti coloro che, colpiti da siccità, conflitti, alluvioni, avevano perso tutto e dovevano ricostruire da zero le loro vite. Oltre a fornire questa assistenza immediata ed urgente, l’associazione ha poi scelto di combattere la povertà e la sofferenza anche a lungo termine. Un anno dopo la fondazione, Islamic Relief ha istituito il primo ufficio da campo a Khartoum. Da allora, sono stati aperti più di cento uffici in quaranta paesi, dall’Afghanistan all’Albania, dal Pakistan alla Palestina, alla Somalia.

Lo scopo di Islamic Relief è ormai non solo quello di portare aiuto nel caso di catastrofi naturali o guerre, ma anche di realizzare interventi di sviluppo sostenibile per fornire acqua, cibo, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione in maniera stabile e durevole. L’organizzazione agisce a favore dei bambini e degli orfani, e si adopera nell’aiutare le persone a trovare lavoro perché possano essere economicamente indipendenti ed in grado di mantenere, da sole, la propria famiglia. La cosa più sorprendente che ho capito facendo la volontaria in una ONG è che, aiutando gli altri, stavo aiutando per prima me stessa. Mi era stato detto che contribuire a migliorare la vita degli altri avrebbe innanzitutto migliorato la mia. Confesso che mi sono chiesta come sarebbe stato possibile. Con Islamic Relief ho avuto modo di conoscere da vicino le sofferenze altrui e di essere testimone della forza e del sorriso, della leggerezza d’animo, con cui tantissime persone affrontano problemi reali, duri, implacabili, come la fame, le guerre, le malattie, il freddo e privazioni di ogni genere.

Mi sono resa conto che noi che abbiamo tutto siamo comunque spesso insoddisfatti. Questo mi ha spinto a ringraziare Dio e a mostrare gratitudine, giorno dopo giorno, per ciò che ho, che noi abbiamo. Ho preso coscienza del fatto che loro che non hanno niente sono più felici di noi a cui, invece, niente manca. Molte delle persone che hanno beneficiato del mio lavoro con IR vivono in paesi in cui non c’è la possibilità di raggiungere un adeguato livello di istruzione, ma, nonostante questo, mi hanno dato la più grande delle lezioni di vita: mi hanno ricordato che la vera felicità non la fanno i soldi, la fama o il potere che tanto inseguiamo, ma la famiglia, l’amore, l’amicizia. I valori semplici, i sentimenti autentici sono i veri, unici beni capaci di renderci felici.

Ognuno di noi ha il proprio concetto di felicità, che si è costruito su misura in base alle proprie esperienze di vita, al quale ha dato forma nutrendolo con le proprie convinzioni e modellandolo secondo le proprie aspettative. Ma, alla fine, non ho mai conosciuto una persona che fosse felice senza amore, senza una famiglia, senza amici. Non ho più smesso di fare volontariato perché ho compreso presto che ad averne più bisogno ero io. Sono diventata team leader a Milano per Islamic Relief, con conseguente aumento di responsabilità e impegno da parte mia. Il volontariato mi ha insegnato che per realizzare al meglio gli obiettivi bisogna lavorare in team e che per lavorare bene in team c’è bisogno di cooperazione, fiducia, stima reciproca tra le persone. Islamic Relief, per me, non è “solo” un’organizzazione che mi consente di fare ciò che amo fare. E’ diventata una nuova famiglia. Che voglio tenermi ben stretta.

Da alcuni anni sei anche attivista per ActionAid Italia. Descrivici l’esperienza di collaborare con un altro noto pilastro tra le ONG. Dicci di ActionAid. Che tipo di umanità ti è capitato di incontrare lavorando con loro?

Da piccola ho subito parecchi torti, così come molti tra i miei coetanei e compagni di scuola. Per troppo tempo, mi sono portata dentro questi pesi in silenzio. A volte crediamo di essere gli unici a vivere determinate situazioni, ma quando troviamo il coraggio di parlarne, non tardiamo a renderci conto che non è affatto così. Crescendo, ho sentito l’esigenza di lottare contro le ingiustizie. Ingiustizie come quelle che avevo subito in prima persona, e come quelle che vedevo perpetrate, reiterate ogni giorno, in altri contesti, ai danni di altri. Il volontariato già mi permetteva di mandare aiuti dove era più necessario, di partecipare alla realizzazione di progetti umanitari.

Le mie azioni erano, però, accompagnate dalla spiacevole sensazione che, alla lunga, per i soggetti e i territori destinatari del mio intervento le cose, nella sostanza, non sarebbero cambiate. Come si dice, “non dare il pesce al bisognoso, ma insegnagli a pescare”. Era esattamente questo quello che io, in realtà, volevo fare. Il mio vero obiettivo non era solamente quello di lenire le ferite del mondo, fornendo un aiuto ai più bisognosi, ma piuttosto essere parte attiva nella costruzione di un nuovo domani. La mia intenzione era, è, quella di lasciare il pianeta in una situazione più felice di quella in cui l’ho trovato quando ci sono nata, dare rinnovato vigore alla speranza per una Terra più prospera e pacifica, in armonia con l’umanità e con la natura tutta. Questa vorrei fosse la mia eredità per le future generazioni. Spinta da questo fuoco interiore, ho iniziato a fare attivismo con ActionAid.

Ho scelto ActionAid perché il suo scopo è il mio: combattere contro le ingiustizie, inclusa la lotta per le pari opportunità. Ho preso parte a diversi corsi di sensibilizzazione sull’argomento, come quello sulle mutilazioni genitali femminili. Ho imparato a conoscere un lato oscuro del genere umano che, fino ad allora, essendone inconsapevole, era rimasto ai margini del mio sguardo e della mia coscienza. Una realtà in cui le donne, le ragazze, le bambine subiscono violenze indicibili. Donne di ogni età che vengono private della possibilità di scegliere che cosa fare del proprio corpo e della propria vita. Campagna dopo campagna, mi sono legata sempre di più a questa ONG, particolarmente sensibile e attenta alle necessità più indifferibili delle persone e capace di toccare i tasti giusti nel mio cuore, appassionandomi a temi come i soprusi, le discriminazioni e le profonde disuguaglianze tra esseri umani.

ActionAid mi ha permesso di conoscere giovani attivisti come me, ciascuno con un passato di speranze da condividere e realizzare e una storia fatta di ideali potenti e multicolori. Ho avuto la fortuna di incontrare tante persone belle che mi hanno arricchito lo spirito, spingendomi a fare sempre di più per gli altri. Giovani capaci, brillanti, con un’enorme forza di volontà e un grande sogno: quello di provocare, e vivere, un vero, irrefrenabile ed irreversibile cambiamento nel mondo.

È piuttosto evidente come il volontariato abbia una parte rilevante nella tua vita. Tra le tue iniziative, c’è anche l’assistenza alle persone senza fissa dimora. Parlaci di questa tua ulteriore, lodevole attività.

Durante i mesi iniziali della pandemia, io e un gruppo di ragazzi, inizialmente una decina di volontari, abbiamo deciso di aiutare le categorie più fragili a superare i problemi e le sofferenze causate dal coronavirus. Abbiamo pensato che i senza fissa dimora fossero una delle categorie più colpite in un momento profondamente drammatico per tutti. Così è nata l’idea di munirci di indumenti, cibo, bevande calde e tanto entusiasmo, per provare a limitare il disagio di chi stava già male prima del COVID-19. Con il trascorrere delle settimane, grazie al passaparola, il gruppo è andato allargandosi. Il virus ha di certo distribuito a piene mani dolore e morte in ogni angolo del globo, ma ha anche avuto, tra i suoi “effetti collaterali”, la capacità di riaccendere scintille di umanità in molte persone. Scintille che, ravvivate dal vento dell’emergenza, sono spesso diventate delle vere e proprie fiamme, che non si sono più spente.

Le nostre comunità, strette d’assedio, hanno iniziato a sentirsi più unite di quanto non lo fossero prima. Date queste premesse, io e altri giovani, come musulmani e come cittadini, abbiamo quindi sentito il bisogno di fare la nostra parte all’interno della società. Una società formata, non dobbiamo mai dimenticarlo, anche da chi, colpito più duramente dalle asprezze della vita, ne è finito ai margini. Ai margini, non fuori, e bisognoso, più di tutti, di aiuto e comprensione. Di attenzione. Con la nostra attività, dunque, abbiamo cercato non solo di arginare problemi come la fame e il freddo, ma abbiamo fatto in modo di far sentire i “dimenticati” degni di uno sguardo d’amore e di una parola gentile come ogni altro essere umano. Come ciascuno di noi. Oggi quel gruppo si è dotato di una struttura, diventando a tutti gli effetti un’associazione, con tanto di logo e progetti “ufficiali” in corso.

Il nostro obiettivo è quello di crescere ed espanderci in Italia e un domani, magari, nel mondo. La missione, però, rimane la stessa del primo giorno: portare speranza a chi potrebbe non averne più e donare un po’ di umanità a chi ne ha maggior bisogno. Con l’auspicio che, da questi semi, possa rinascere una comunità vera, accogliente, amorevole nei confronti delle sorelle e dei fratelli che ne fanno parte.

Che rapporto hai con la religione islamica? Com’è stato e com’è per te essere una ragazza musulmana nell’Italia multietnica e multiculturale, ma non del tutto aperta e matura in tema di integrazione, in cui viviamo oggi? Considero il confronto e la conoscenza reciproca tra i popoli le ricchezze forse più stimolanti e promettenti del mondo moderno. Come pensi stia andando il turbolento viaggio della fratellanza umana?

La religione, per come la concepisco e la vivo io, non è un limite. Anzi. È uno stile di vita che adotto a trecentosessanta gradi, che permea ed ispira tutti gli ambiti della mia esistenza. L’Islam è ciò che mi spinge ad andare avanti e che mi indirizza lungo il cammino, mostrandomi quali strade percorrere e quali scelte prendere. Più di una persona mi ha chiesto se il fatto di portare il velo e di professare la mia religione siano stati un problema per me, in quanto italiana ed in quanto donna. Non nascondo che ci siano stati momenti in cui sono stata messa alla prova.

Uno di questi, ad esempio, si è verificato quando, mentre studiavo moda, ho cercato un’azienda in cui fare lo stage. Il velo che per me, nel rapporto con gli altri, non è che un segno distintivo della mia cultura e della mia fede, in quell’occasione è stato visto come un motivo sufficiente per potermi respingere. Sono stata considerata inadeguata per aver scelto di vivere anche esteriormente una religione che per me è gioia, sprone, guida. Nella mia quotidianità, mi capita di incorrere in episodi di razzismo. Può accadere che, per una paura immotivata nei confronti dello straniero o, banalmente, per ignoranza, io sia etichettata come immigrata o, addirittura, come terrorista. Io che parlo solo italiano, vivo da sempre in questo paese e, soprattutto, lo amo.

L’idea di essere inserita in categorie di cui non faccio parte, semplicemente per ciò che indosso o per il mio aspetto esteriore, mi fa arrabbiare e mi rattrista, perché significa che, per alcuni, è veramente solo l’abito a fare il monaco. E allora ciò per cui lavoro e mi impegno, la mia personalità, le conoscenze acquisite grazie ai miei studi, tutte queste cose, improvvisamente sembrano effimere. Anche se sono ben consapevole che non sia così, tutt’altro. In ogni caso, è proprio grazie alla religione che sono riuscita ad affrontare ogni sfida a testa alta. Per un motivo molto semplice. Perché la mia religione mi insegna la bontà d’animo, la generosità, la saggezza e rende più saldi, dentro di me, i valori in cui credo. Io sono cresciuta mangiando pizza, gulasch, cous cous e sushi. Non è realistico pensare che possa esistere oggi una cultura del tutto priva di contaminazioni ed influenze. Da ben prima della globalizzazione, il mondo è diventato come una sconfinata piazza cittadina, tipo quella che ospita il mercato settimanale in cui si trova un po’ di tutto. Un grande mercato, insomma, in cui i paesi si scambiano merci, informazioni, scoperte scientifiche e chi più ne ha, più ne metta. Un luogo in cui i popoli si mescolano, creando un saporito miscuglio, dal gusto invitante e ricco di promesse che ammiccano da un futuro comune, favorito dal suggestionarsi delle culture l’una con l’altra.

Trovo tutto questo, come dici tu, una ricchezza. Anche per tale ragione mi ritengo fortunata, perché aver respirato in famiglia i profumi di più culture mi ha permesso di conoscere diverse lingue, usanze e abitudini che mi hanno portata, poi, ad interessarmi alla sociologia. Sono consapevole che l’antropologia sia più affine allo studio delle culture e dei popoli, ma anche la sociologia arriva a toccare questi temi, questo scambio, questo continuo influenzarsi gli uni con gli altri. Perché è un insieme di persone a formare la società ed è la società nel suo complesso ad essere portatrice e custode di sapere e tradizioni. E’ questo insieme eterogeneo, brulicante di individui in movimento, che porta i popoli ad incontrarsi, favorendo l’”infrangersi” delle culture l’una sull’altra, come le onde del mare, consentendo a tutti noi di navigare nell’oceano condiviso che chiamiamo umanità. Il progresso, quello vero, non può che essere questo.

A differenza di molti miei coetanei, ho avuto la possibilità di comprendere, sin da bambina, che non esiste un solo punto di vista, una sola verità e che ogni persona è diversa, a suo modo unica, e per questo speciale. Da sociologa, nata e cresciuta in un contesto multiculturale e multireligioso – la famiglia di mia madre è evangelica – , ho compreso nel profondo la bellezza e la ricchezza che derivano da tutto questo. Quando siamo a tavola, ad esempio, mamma ci racconta della Slovacchia e papà dei suoi viaggi dall’Algeria alla Francia per motivi di studio, mentre noi figlie spieghiamo le sfumature della cultura italiana, che loro non colgono se non superficialmente. Per qualcuno ciò potrebbe avere come risultato la perdita di una “cultura pura”, se mai un tale concetto può dirsi esistito o aver avuto un qualche senso. Per me no, tutt’altro. Gli esseri umani sono creature meravigliosamente imperfette, ma non sono esseri statici e non sono isole. Da sempre cercano l’altro, ambiscono ad andare oltre le differenze, a superare i limiti, che spesso sono i propri, quelli nascosti dietro convinzioni sbagliate e sciocchi equivoci tramandati da altri. Siamo entità dinamiche, in continuo movimento ed in perenne cambiamento. Il confronto ci migliora e non ci peggiora, ci salva dalle zone d’ombra dell’anima e dal disastro in agguato, figlio del fondamentalismo e della diffidenza. L’influenzarsi a vicenda è tutto tranne che una minaccia o un problema. È la nostra possibilità di salvezza.

Palestina, Siria, Yemen. Adesso Ucraina. Tutti teatri di conflitti dolorosi e drammatici, verso i quali il mondo si mostra come uno spettatore impotente e talvolta disattento. Qual è la tua opinione in merito? Cosa dovrebbe fare ciascuno di noi per non essere a propria volta mero testimone silenzioso di tanta sofferenza? Cosa manca all’umanità per decidersi ad anteporre la bellezza della vita agli interessi economici e politici, alle ingiustificabili rivalità tra nazioni che continuano ad insanguinare la storia dell’Uomo?

Scivolare nell’indifferenza, vittime, anche da osservatori, della disumanità anestetizzante degli atti atroci che, da sempre, vengono compiuti dall’uomo sull’uomo, può essere più facile di quel che si crede. La modernità ci forza ad una vita frenetica, a rincorrere obiettivi, successo, carriera e il rovescio della medaglia, molto spesso, è la difficoltà di fermarsi a riflettere, a restare in compagnia dei propri pensieri, cercando di comprendere davvero ciò che ci accade attorno. Dedicarsi allo studio, alla propria formazione personale e professionale, farlo con impegno e qualità, non è una cosa da nulla, richiede tempo ed energie. Tempo ed energie che, per quanto mi riguarda, investo più che volentieri per diventare la Maain che vorrei vedere nel mio futuro.

Detto ciò, però, abbiamo anche delle responsabilità verso il pianeta e verso gli altri, intesi come individui e come popoli. Non ci è permesso fingere di non vedere ciò che accade nel mondo, convincerci che vada sempre tutto bene. Non ci è permesso dimenticare ciò che non siamo riusciti ad impedire che accadesse. Ora è in corso la guerra in Ucraina, insieme a troppe altre che stanno devastando paesi più lontani dal nostro. Le persone muoiono a causa di conflitti insensati, ma noi non siamo lì, né con il corpo, né, cosa ancor più grave, con la mente o il cuore. In genere, non ci importa, non ci importa veramente, quanto succede dall’altra parte della strada, nel cortile del vicino. Figuriamoci se riusciamo a farci coinvolgere facilmente da eventi terribili che avvengono fin troppo distanti dai nostri occhi e orecchie.

Non ci sentiamo in dovere di preoccuparci più di tanto perché non ci riteniamo responsabili e pensiamo di non poterci fare niente. Questo, forse, è il peggiore tra i mali della nostra epoca. Dimenticarci che siamo tutti esseri umani, lasciare che la nostra umanità si dissolva, travolta dagli impegni quotidiani, dalle scadenze, da quello che dovremo fare domani o che non siamo riusciti a fare oggi. Succede quando volgiamo lo sguardo dall’altra parte, quando crediamo che anche solo informarci non serva a nulla. E, invece, è tutto. Dobbiamo imparare dalla Storia, dagli errori che l’uomo ha commesso e continua a commettere, per non ripeterli più e capire cosa è realmente importante. Nella mia vita, la fede mi ha insegnato che denaro, potere, fama, successo, i frutti del mondo materiale, possono al massimo essere il mezzo, ma mai il fine.

Possono, però, offuscare la mente di molti, peggio se si tratta di uomini o donne che il potere già ce l’hanno e che guidano nazioni. Il rischio è quello di considerare lecito perseguire la grandezza, personale o del proprio paese, anche a costo della vita altrui. Per quanto ci riguarda, è fondamentale fare la propria parte, essere consci che scendere in piazza per ricordare doveri e affermare diritti significa proseguire nel cammino verso la libertà. Significa lottare per tutti coloro che soffrono per la guerra. Oggi sono anche gli ucraini a fuggire dalla propria terra. Noi italiani vediamo immagini e tragedie che ci rimandano all’orrore della seconda guerra mondiale.

Dobbiamo ricordare che purtroppo la ruota gira. Forse è proprio questo il punto. E’ il momento di ripudiare l’eredità di odio che opprime i popoli dall’inizio dei tempi e cominciare a coltivare un nuovo tipo di rapporti. Rapporti che si basino, senza incertezze di sorta, sulla fiducia, sull’amore per le promesse e la bellezza della vita, per quanto essa sa donare a chiunque sia pronto a ricevere. Non dobbiamo più temere che la speranza, sempre più urgente, di un futuro migliore, equo e di pace, travolga definitivamente il nostro triste passato comune di sangue, lutti e dolore. Dobbiamo trovare il coraggio di essere felici, e liberi. Tutti.

La scrittura è un altro dei tesori che impreziosiscono la tua vita. Quando l’hai scoperta? Che peso ha per te la forza delle parole? Più in generale, come ti poni nei confronti dell’arte? Quanto la ritieni necessaria, quale ingrediente per l’anima?

Alle medie ho affrontato uno dei periodi più difficili. A quell’età, tutto è amplificato. Non è necessario che io scenda nei dettagli.Quel che, invece, mi preme sottolineare è che, nei momenti più bui di una persona, emerge inevitabilmente il carattere. Si scopre ciò che ci fa stare bene e ciò che invece ci fa del male, ci provoca dolore, e di cui dobbiamo liberarci. Così, per assurdo, i momenti peggiori diventano, in realtà, le occasioni migliori che ciascuno ha per scoprirsi e riscoprirsi. Al tempo ero completamente disinteressata, apatica rispetto a ciò che mi accadeva. Avevo eretto una barriera per proteggermi, una barriera così potente da non far entrare nulla. Nemmeno uno spiraglio di luce. Poi, un giorno, mi sono ritrovata a svolgere l’ennesimo compito a scuola. Dovevo rispondere a delle domande di epica, ma, non so come, mi sono uscite frasi molto personali e, alla fine, mi sono ritrovata a scrivere di me.

È stato così, per un banale compito in classe, che la barriera, creata per difendermi dal brutto che percepivo all’esterno, è crollata. È bastata qualche crepa, incisa con la mia penna incerta, ma già appassionata, di ragazzina delle medie. Da lì ho iniziato a capire che la scrittura sarebbe stata qualcosa di veramente importante nella mia vita. La scrittura per me ha significato rinascita, ha impresso una svolta, è stato il mezzo che mi ha consentito di chiudere con l’isolamento e di approdare ad una vita piena, serena. E’ stato lo strumento che mi ha permesso di disfarmi di ciò che mi appesantiva. Oserei dire che è stata la mia cura e da allora è la mia migliore terapia, compagna di viaggio, amica. Non ho mai avuto la presunzione di ritenere il fatto di scrivere un talento innato, perché si tratta semplicemente di qualcosa che faceva parte di me e che ho coltivato nel tempo. Sono però consapevole che si tratta di una risorsa di valore e per questo ne faccio tesoro. Per me le parole sono la chiave con cui facciamo breccia nei cuori degli altri, e che ci permette di far crescere i rapporti interpersonali, di dar loro basi solide, di renderli profondi, completi e belli.

Parola dopo parola costruiamo la stima e la conoscenza reciproca. E’ per questo motivo che ritengo le parole fondamentali. Si sa che le parole sono in grado di ferire, forse persino di uccidere. A differenza dei tagli, diciamo, “fisici”, le ferite lasciate dalle parole rimarginano molto più lentamente, e a volte si insinuano così in profondità dentro di noi da segnarci per sempre. Ma così come sono in grado di ferire, le parole sono anche capaci di guarire, di fare del bene. E’ proprio questo ciò che, ad esempio, cerco di realizzare con le dirette sui social. Utilizzo le parole per descrivere situazioni comuni a tante persone e provare a dimostrare come, dopo ogni tempesta, ci attenda il sereno. Dobbiamo solo essere pronti ad accorgerci del suo ritorno, essere capaci di accoglierlo nuovamente nelle nostre vite segnate dalla sofferenza o dal trauma. Ritengo quella degli oratori una vera e propria arte. L’arte di usare le parole per curare gli altri e contemporaneamente se stessi. Questo perché tirare fuori ciò che si ha dentro, nel tentativo di aggiungere qualcosa alla vita altrui, è importante anche per l’oratore stesso, se opera con sincerità, con purezza di intenti.

Lo spinge ad andare avanti, riempie le sue giornate, ne scalda l’animo. Considero l’arte uno dei canali più importanti, forse la strada maestra attraverso la quale l’uomo si mostra per com’è davvero, comunica, sogna e si rapporta nel modo più sincero con la società. È un linguaggio fondamentale per dialogare con l’anima dell’umanità. Ecco perché, nei suoi confronti, mi pongo sempre con atteggiamento di curiosità e con tanta voglia di imparare. Penso che ognuno di noi abbia bisogno di esprimere i propri sentimenti, di dare voce alle proprie idee, di esorcizzare paure. L’arte è in grado di abbattere qualunque ostacolo ed è capace, meglio di ogni altra cosa, di scavare dentro di noi. Se ci lasciamo travolgere dall’arte, se ci abbandoniamo a lei, possiamo solo vincere.

Credo sia fondamentale per il nostro benessere ritagliarci dei momenti, fossero anche solo pochi minuti ogni giorno, per alimentare passioni e pulsioni artistiche. È importante tanto quanto prendersi cura del proprio corpo. L’arte nutre l’anima, la rende felice e, cosa più importante, le dà pace. Anima e corpo sono connessi, non possono prescindere l’una dall’altro. Ciò che fa bene all’anima, fa bene al corpo. Se riusciamo a non dimenticarcelo, staremo bene tutti, con noi stessi, e con gli altri.

Sei zia orgogliosa della bimba di una delle tue sorelle. Spesso rifletti su quanto i bambini siano in grado, con i loro comportamenti, di ricordare agli adulti il valore e le potenzialità di un’innocenza perduta, ma difficile da dimenticare del tutto. Quanto credi che possano insegnare, con la loro spontaneità priva di filtri e preconcetti, i bambini ai cosiddetti grandi?

Faccio la baby sitter da quando avevo sedici anni e ho insegnato all’asilo per uno. Ho preso parte, nel mio percorso di studi, a diversi stage legati alla realtà dell’infanzia. Ho sempre sentito una connessione particolare con i bambini. Forse perché la purezza della loro innocenza mi ricorda appunto ciò che, crescendo, tutti noi tendiamo a perdere per strada. Per cominciare, proprio la bellezza della spontaneità. Diventando adulti, ci capita continuamente di vestirci con panni nuovi e sempre diversi. Ce lo chiede l’intrigante sfilata della vita, che ci inonda di stimoli, lusingandoci con opportunità e progetti, ma ci costringe a ricoprire dei ruoli, spesso preconfezionati, standardizzati e ci forza ad indossare delle maschere.

Maschere che ci permettono di presentarci agli altri come gli altri si aspettano che facciamo, ma che nascondono il nostro vero io, mentendo su chi siamo davvero. Sono profondamente convinta che sia importante, invece, mantenere la nostra unicità come esseri umani, e rimanere il più possibile autentici, cercando di rivelare al prossimo quella che è la nostra immagine interiore più vera. Perché possiamo lasciarci convincere che omologarci, divenire docili pecorelle del gregge sociale, possa farci sentire più accettati, ma sono proprio la capacità e la voglia di rimanere fedeli a noi stessi che ci possono rendere persone stimabili agli occhi di Dio e degli uomini.

Papà mi ha sempre detto che, da piccola, quando incrociavo un bambino, o un anziano, mi brillavano gli occhi. Dopo anni spesi con anziani e bambini, mi sono resa conto di quanto sia i primi che i secondi siano capaci di illuminare le nostre vite. Questo grazie all’affetto e alle attenzioni gentili che, nel rapportarci con loro, possiamo scambiarci a vicenda, nel più desiderabile dei loop dello spirito. Dobbiamo deciderci a gettare la maschera, e abbandonare i gesti e i linguaggi dei personaggi artefatti che il vivere in società ama cucirci addosso con certosino scrupolo.

Più riusciamo ad essere trasparenti e genuini con chi si è da poco affacciato alla vita e con chi, da molti anni, grazie a quella stessa vita, accumula un’inestimabile saggezza, più siamo in grado di generare positività, per noi stessi, per loro, per la collettività. Non nascondo che, per un periodo, ho pensato che la mia strada fosse proprio l’insegnamento. I bambini sono delle spugne e confesso che ancora mi entusiasma l’idea di poterli educare, di far emergere il potenziale insito in quelle giovanissime menti, incontaminate e felici, lontane come sono da ciò che comporta l’essere adulti. Un’altra cosa che posso dire di aver imparato da mia nipote, e dai bambini che ho avuto il piacere di conoscere e di aiutare a crescere, è l’importanza della sincerità e delle promesse.

Quando si diventa grandi inizia l’epoca delle promesse non mantenute. Le facciamo un po’ a tutti, ai coetanei, ai nostri genitori, ai bimbi. Spesso ci crediamo, quando la nostra promessa viene pronunciata. Vorremmo tanto mantenerla, insomma. Poi subentra la frenesia della vita, intervengono gli impegni quotidiani e, alla fine, la nostra promessa scompare come non fosse mai stata detta o udita. O così ci farebbe comodo. I bambini hanno il fantastico dono della memoria ed è terribilmente difficile farla franca con loro. Una volta fatta una promessa, di fronte a quei teneri occhioni che ci scrutano con attenzione, conviene mantenerla. Inoltre, l’idea che per loro siamo dei modelli, dai quali acquisiscono schemi di comportamento, e imparano i piccoli, grandi trucchi del vivere, ci costringe a riflettere sul nostro di comportamento, e a farci un rigoroso esame di coscienza.

Ciò che facciamo e diciamo potrà essere ripetuto da chi conta su di noi per imparare a crescere. Di conseguenza, dobbiamo sentirci sempre sotto osservazione, senza mai abbassare la guardia. La spontaneità e la sincerità dunque, la bontà d’animo innata, la curiosità, queste sono le qualità dei bambini che da sempre mi affascinano e amo. E sono anche quelle che, ogni giorno, cerco di custodire dentro di me, imparando dal loro esempio.

L’orrore triste della violenza sulle donne si ostina a sconvolgere le cronache e a turbare le coscienze delle persone per bene. Tra queste ci sei anche tu. Raccontaci il tuo punto di vista su un argomento che non vuole proprio smettere di essere scottante e attuale.

Nascere donna è un qualcosa che non si sceglie ed è, inoltre, una questione ancora tremendamente difficile con la quale convivere. Anche in una società che si vanta di essere moderna come la nostra. In un mondo che per millenni è stato profondamente maschilista è difficile estirpare dalle menti delle persone i pensieri discriminatori verso le donne ed abolire la tradizione di violenze che tutt’ora queste ultime si ritrovano a vivere. Per questo motivo ho deciso di diventare volontaria dell’associazione Progetto Aisha.

Volevo contribuire a spezzare la catena dell’odio e provare a curare la sofferenza di donne private, a causa della violenza maschile, del diritto ad un’esistenza piena e libera. Mi viene chiesto spesso se quella di mettere il velo sia stata una mia decisione o se sia stata mia la scelta della persona che ho accanto nella vita. Il solo pensiero che una sottrazione di libertà di questo tipo venga associata ad una religione, la mia religione, che più di ogni cosa mi ha reso libera, mi manda su tutte le furie. Le violenze, le prevaricazioni, le parole crudeli e le azioni finalizzate ad impedire alla donna di vivere normalmente e in condizione di parità sono comportamenti riprovevoli, da ricondurre a retaggi e consuetudini che nulla hanno a che vedere con la religione. Religione che, invece, dà rilievo al ruolo della donna e la considera, di fronte a Dio, alla pari dell’uomo. Credo che, nonostante gli enormi passi in avanti e gli sforzi compiuti per arrivare alla parità dei sessi, la strada da fare in questo campo sia ancora molta.

La lentezza della nostra evoluzione, come individui e come collettività, non va, però, usata come una facile scusante, un motivo per starsene con le mani in mano ad aspettare che il progresso faccia il suo corso. Al contrario, ognuno di noi deve lavorare affinché questo cambiamento avvenga il prima possibile. Quando ci rendiamo conto che stiamo alimentando un modo di pensare sbagliato, quando ci accorgiamo di essere in torto, è bene riflettere e rivedere le nostre posizioni, consapevoli dell’influenza che pensieri e azioni hanno sugli altri, degli effetti che provocano sulla società. Un pensiero diventa parola, la parola azione e l’azione abitudine.

Le abitudini, le usanze sono tra le fondamenta della nostra comunità e della nostra cultura. Ecco perché sminuire la gravità di certi atteggiamenti nei confronti della donna non è più tollerabile. Noi donne siamo stanche di tutto questo e non possiamo più accettare le vecchie e le nuove forme di ingiustizia. Ormai un tale modo di ragionare dovrebbe essere condiviso anche dalla maggior parte degli uomini. Per quanto estenuante sia la lotta per un futuro migliore, per quanto impegnativo sia il viaggio verso una società con pari diritti ed eguale dignità per ciascuno, è l’ora di combatterla insieme, quella lotta, di procedere fianco a fianco, in quel viaggio fatto di aspettative legittime e di doverose speranze. Lo dobbiamo a chi ha combattuto finora, a chi ha sofferto ed è caduto, nella battaglia per i diritti, delle donne e non solo.

È il momento di renderci conto che il tempo delle discriminazioni, delle violenze e dei soprusi dell’uomo sulla donna, che mai avrebbe dovuto vedere un’alba, sta comunque giungendo al suo tramonto. Aspettiamolo insieme. Anzi, incoraggiamo il suo arrivo. Abbiamo tutti pianto abbastanza gli uni per gli altri.

L’Islam è una religione di pace che però, in alcune travagliate aree del pianeta, penso all’Afghanistan dei talebani, viene interpretata in chiave intransigente e violenta, mostrandone un volto duro e crudele che assolutamente non merita. Il Cristianesimo è stato vittima di errori e strumentalizzazioni simili. Quando pensi che questo possa finire? Quando, a tuo parere, le religioni smetteranno di essere utilizzate come strumento di oppressione e verranno vissute per quello che sono, percorsi privilegiati per donne e uomini che desiderano avvicinarsi a Dio?

Diciamo che esistono due tipi di uomini: coloro che incolpano la religione per tutti i mali del mondo e coloro che, per tutti i mali del mondo, incolpano chi la religione non la professa. Io non mi rivedo in nessuno dei due. Io credo che la religione, così come ogni altro elemento che fa parte delle nostre vite, possa essere un mezzo per fare del bene o, al contrario, per compiere azioni malvagie. La linea tra bene e male è spesso sottile. Può facilmente essere oltrepassata, dall’Uomo, come dalla Storia. Nel passato, durante le crociate, si è utilizzato il Cristianesimo come motivo per fare la guerra. Ai giorni nostri, ci sono uomini che sfruttano posizioni di potere o ruoli di prestigio all’interno della comunità per diffondere una visione distorta dell’Islam. Non esiste religione che predichi il male.

Anzi, viene incoraggiato in tutte le religioni, così come nel comune buon senso, qualunque comportamento che persegua il bene per il prossimo, e viene sottolineata l’importanza della cooperazione tra individui nella società. Non penso che questa strumentalizzazione della religione avrà vita breve perché credo che interpretare la realtà secondo i propri fini sia parte della natura umana, tanto quanto la crudeltà nei confronti dei propri simili. Anche in questo caso, non dobbiamo sentirci demotivati o deresponsabilizzati. La difficoltà di cambiare quanto c’è di sbagliato o di brutto nel mondo deve scuotere le nostre coscienze e spingerci a fare di più.

È necessario promuovere la reciproca conoscenza tra i popoli e favorire l’interscambio tra le culture. Ne abbiamo già parlato. È così che potremo neutralizzare l’odio immotivato tra le persone e le nazioni, preparando il terreno per un raccolto fertile che nutra le genti della Terra tramite i frutti dell’accoglienza, della cooperazione, del perdono e quindi dell’amore. A quel punto sarà finalmente chiaro a tutti che le religioni sono mezzi imprescindibili per diffondere valori positivi e messaggi di universale fratellanza, in grado di fare la propria parte nel porre le basi di società pacifiche e giuste.

Per concludere, svelaci i desideri e le aspettative di Maain per il futuro.

Ci sono tanti sogni, tanti obiettivi che inseguo nella mente e che vorrei concretizzare nella mia vita. Mi piacerebbe scrivere un libro o, magari, anche più di uno. Punto a laurearmi alla magistrale e proseguire gli studi con un dottorato. Voglio specializzarmi nel mio ambito professionale, la sociologia, perché fare ricerca in questo settore è una cosa che amo davvero. Un altro mio sogno è quello di costruire una famiglia.

Un progetto sconosciuto ai più, di cui non parlo quasi mai, è quello di aprire una mia attività, una realtà che possa funzionare sia come circolo letterario che come luogo in cui coltivare e far crescere i tanti talenti dei giovani e in cui favorire la condivisione del sapere. Vorrei, inoltre, realizzarmi pienamente come moglie e madre, come figlia, come musulmana e infine come individuo. Mi sento parte integrante della comunità in cui vivo e sono consapevole di avere il diritto, ma soprattutto il dovere, di contribuire al suo sviluppo sotto ogni punto di vista.

Che si professi o meno una fede religiosa, e qualunque sia il nostro stile di vita o il nostro ideale politico, condividiamo tutti la stessa casa, la Terra. Per proteggere questa nostra vita in comune, per salvaguardare il benessere dell’umanità e di ogni altro singolo essere vivente, è fondamentale avere rispetto. Rispetto per l’ambiente, per gli animali, per le persone, in particolare le più deboli, e per noi stessi. Perché per rispettare gli altri dobbiamo, innanzitutto, rispettare noi stessi. Ricordarci della vita bella, riempita dalla felicità, che ci meritiamo. E ricordarci di condividerla con gli altri, perché quella stessa vita bella, avvolta dal calore degli affetti che ospitiamo nell’anima,

la meritano tutti, nessuno escluso. Per realizzare ciò dobbiamo agire in coerenza con i nostri principi e valori, con indole libera e atteggiamento inclusivo. Attraverso la ricerca, il mio lavoro, le dirette social, o grazie alle mie attività di volontariato, al mio attivismo, il desiderio è quello di raggiungere e aiutare più persone possibile. Migliorando la loro vita, incuriosendole, o anche solo distraendole un momento dai loro pensieri, dalle loro preoccupazioni. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Per me non è solo una famosa frase, magari un po’ abusata. È la bussola che, con la fede, cerca di dare una direzione alla mia vita, rimbalzando da anni nello spazio magico tra la mente e il cuore.

Conclusione

La strada verso un domani migliore è tortuosa, irta e per niente scontata nella sua destinazione finale. Anche dal punto di vista di una persona solare e positiva come Maain Achour. C’è molto, moltissimo da fare. Mai come in queste settimane, è sufficiente accendere la tv e guardare qualche minuto di un qualsiasi telegiornale per capirlo. Ma le utopie non sono per forza destinate a rimanere tali. Non tutte, non per sempre. C’è un’alternativa, alla scelta di migliorare questo mondo. Certo che c’è. L’alternativa alla volontà di salvare l’umanità da sé stessa è lasciare che si autodistrugga. Ci siamo vicini.

Credo che le utopie, come quelle di Maain, siano un’opzione migliore. Anche se costano fatica, anche se dobbiamo combattere contro i biechi istinti egoistici che ci governano con l’inganno, facendoci credere di vivere liberi e padroni del nostro destino. Maain ci chiede, con il sorriso e la dolcezza di chi sa di avere ragione, di fare la nostra parte. Ci invita ad immergere le mani nella pittura, a lasciare un’impronta, il nostro contributo, nella vita. Come ama dire lei, “il mondo è più bello, se lo colori anche tu.”