Intervista a Omar di Monopoli

Omar Di Monopoli (1971) vive e lavora in Puglia, a Manduria. Ha firmato la sceneggiatura di La caccia prodotto da Edoardo Winspeare. Vincitore nel 2008 del Premio Kihlgren Opera Prima – Città di Milano. Ha pubblicato per Isbn Uomini e Cani (2007) e Ferro e Fuoco (2008) primi due romanzi di una trilogia western-pugliese. Scrittore, grafico e sceneggiatore. Da anni lavora nel mondo della piccola e grande editoria.

Caro Omar, anzitutto quando e com’è nata questa tua grande passione per il western?

Credo che nell’innamoramento per il genere western, col suo prodigioso apparato di cappellacci, pistole e stivali di cuoio, risieda una tappa più o meno dovuta del percorso di crescita della maggior parte degli adolescenti maschi di questa parte di mondo. La mia personale passione si è alimentata davanti alle dozzine di pellicole «spaghetti» – anche quelle più becere – che le nascenti emittenti Tv locali dispensavano senza requie negli anni Ottanta. Poi però su quella visione «passiva» è andato innestandosi un gusto letterario per il genere, che è passato attraverso il mio amore per il fumetto, la narrativa gotica e tutt’un miscuglio pop che immagino sia il retaggio di chiunque oggi si cimenti a qualsiasi livello in campo artistico.

E l’idea generale di adattare questo genere alla tua terra in chiave contemporanea?

Quello fa parte di un percorso probabilmente più intimo. Suppongo sia maturato cogli anni e che rientri in un discorso di ricerca d’una propria «voce». A parte una serie d’influenze letterarie e cinematografiche molto pregnanti (che vanno dal Faulkner più sanguigno e sudista giù sino al Sam Peckimpah più truculento) c’è tutta una serie d’elementi che mi hanno spinto in questa direzione. Primo fra tutti sicuramente il fatto di essere cresciuto in una terra, la Puglia – quella più marginale e «di frontiera» – che è per sua natura isolata, crepata dal sole, sublime e ingovernabile proprio come quelle che Sergio Leone usava come scenario dei suoi film. E non è un caso che lo sceriffo cui il personaggio di Tuco fa saltare il cappello in Il Buono, il Brutto e il Cattivo fosse un figurante originario del mio paese. Già il Maestro aveva infatti capito che per rendere credibili i suoi cowboys e suoi pistoleri doveva scendere al Meridione, a scovarli tra le facce da peones che molto spesso ci ritroviamo noi «terroni».

Nei tuoi libri la componente “visuale” è indiscutibilmente forte. Immagino pertanto che, oltre al cinema di Sergio Leone e gli spaghetti-western in generale, le tue influenze siano anche altre, o mi sbaglio?

Io penso di essere uno scrittore molto «visuale», mi porto appresso l’imprinting del grafico e dell’illustratore che ero in epoca universitaria, quando assieme a una truppa di altri aspiranti scrittori divulgavamo in fotocopie i nostri fumettacci underground – abbastanza risibili, a dirla tutta! – e sono comunque un grande appassionato di cinema (ho anche lavorato con Edoardo Winspeare, il regista pugliese cui si deve parecchia della riscoperta del Tacco d’Italia come sublime location di frontiera nell’ultimo decennio). E poi, al solito, ci sono i riferimenti letterari: non amo gli scrittori ossessionati dalla descrizione della psicologia dei personaggi, preferisco che essa venga a galla attraverso i loro comportamenti, i loro gesti, e facendo ciò adotto un procedimento che è eminentemente cinematografico (Leone ad esempio utilizzava di continuo i tic dei suoi personaggi per farci capire quanto fossero spregevoli e pericolosi). Elmore Leonard è uno di quegli scrittori davvero insuperabili nello scansare l’overflow da «flusso di coscienza», che pure tanti capolavori ha generato ma per il quale io personalmente non impazzisco (oppure, se vogliamo, più semplicemente non so gestire al meglio).

Come sono nati concretamente i romanzi Uomini e Cani e Ferro e Fuoco? Avevi già delle idee precise, sei partito da una storia vera, da un personaggio?

Ogni personaggio presente nei miei due romanzi (e nel prossimo in uscita il prossimo inverno) parte da un connotato reale, da un carattere che ho incontrato e conosciuto, probabilmente anche da pulsioni mie personali (il che non detiene a mio favore, visto il livello di truculenta efferatezza della quasi totalità dei personaggi che popolano il mio universo), però in linea di massima cerco di fondere caratteristiche disparate, frullo personalità combacianti finendo per ottenere ibridi che forniscano alla mia storia quel giusto apporto di esagerazione e verosimiglianza. Questo vale anche per i luoghi: le città di Languore o di Colle Capurzio sono scenari fittizi, ma sono in essi riconoscibilissime decine di città realmente esistenti nel Salento e nel Gargano.

Parlaci del progetto della trilogia e soprattutto anticipaci qualcosa, se puoi farlo, del terzo romanzo.

Inquadrato il mio campo d’azione (un meridione iperbolico e sui generis attraverso il quale finisco per raccontare i reali problemi della mia terra) e considerando il buon successo di pubblico e critica del primo romanzo, ho facilmente intuito che col medesimo strumento potevo scandagliare zone meno note della Puglia. Ecco perché, dopo il Salento tutt’altro che scintillante e festoso di Uomini e cani sono passato al Gargano degli schiavi e delle pistolettate di Ferro e fuoco. Il terzo, ancora senza un titolo definitivo, è in fase d’ultimazione. Sarà ambientato stavolta nel Brindisino, che è una zona della mia regione ancora poco scandagliata dalla letteratura, tra faide di esponenti d’infimo livello della Sacra Corona Unita e, come spesso nei miei romanzi, cagnacci pronti a sguainare i denti. Ci saranno molte carcasse d’auto (e anche questa, direi, non è una novità).

I temi trattati nei tuoi romanzi sono crudi e riguardano essenzialmente una realtà di emarginazione e violenza, eppure lo stile, la forma e la lingua da te usati (compresa la cura per le parlate dialettali) sono davvero meticolose. Penso ad esempio all’accostamento tra il dialetto e un italiano che a volte è davvero ricercato. Qual è il tuo approccio linguistico nei confronti delle storie che racconti?

Anzitutto c’è la necessità di rendere al meglio la parlata dei miei personaggi che sono spesso decisamente «borderline»: schiavisti, sciroccati, sfasciacarrozze e mafiosi d’accatto sono la fauna che popola i miei libri e naturalmente non posso fargli usare un linguaggio pulito e simmetrico, né troppo filmico. Al tempo stesso non ho alcuna intenzione di propormi come l’ennesimo epigono in salsa pugliese di un Camilleri o di un Niffoi, perciò mi sono semplicemente imposto di usare il dialetto in maniera copiosa ma cercando di renderlo fruibile in una maniera diversa dagli scrittori succitati (che contaminano il loro italiano con efficaci assonanze vernacolari). Io adotto l’escamotage di far dire una frase in dialetto stretto per poi farne ripetere il concetto in italiano più comprensibile dallo stesso personaggio che l’ha pronunciata o al suo interlocutore. È faticoso, talvolta un po’ macchinoso, ma contribuisce a definire uno stile che è tutto mio. Poi, certo, c’è la descrizione sontuosa e volutamente barocca della natura, quasi un contraltare aulico all’estrema violenza di certe situazioni. È uno stilema preso a prestito dai grandi della letteratura del Sud: non solo Faulkner ma anche l’irraggiungibile Flannery O’Connor, e poi McCarthy, Styron, Caldwell e via discorrendo (anche i nostri Fenoglio o Bonaviri era maestri in questo, e l’ultimo Vincenzo Pardini è a tal riguardo un vero must).

Uno degli aspetti secondo me più genuinamente affascinanti dei tuoi romanzi è la spietatezza, il cinismo che mi sembra tu provi nei confronti di tutti i tuoi personaggi. E’ così o mi sbaglio?

Sì, è così, ed è una cosa che non va tanto giù ai miei conterranei, poiché in realtà da più di un decennio vi è un gruppo folto d’imprenditori e politici che stanno lavorando per espungere dall’immaginario collettivo l’idea di un Sud tutto Mala e disservizi, e io credo tra l’altro che questa gente (tra alti e bassi) stia facendo un lavoro esemplare, la Puglia da un pezzo è grande meta di turismo, anche culturale, e però io non ci sto a disegnarla solo come una terra esotica e satura di magia, il regno della pizzica e della taranta abilmente rappresentato dai depliant. Conosco l’inverno interminabile di quelle zone in cui nei mesi estivi sembra andare tutto a meraviglia, e tra la diossina dell’ILVA e quella di Cerano, l’abusivismo, la microcriminalità e la corruzione non c’è da stare gran che allegri. Certo, la Puglia e il Meridione in senso più generale sono evidentemente – e vivaddio! – anche altro, ma questo lo lascio raccontare alle Pro Loco locali e agli Enti turistici: loro sanno farlo meglio. Io sono uno scrittore di western neri come la pece, e quello che racconto è lo stupro nei confronti della natura, il decadimento morale ai danni dei più deboli e l’agonia inesorabile dei diritti civili.

Come è nato il tuo sodalizio con Isbn?

Nel più canonico dei modi: ho inviato loro Uomini e cani e gli è piaciuto molto. Qualche giorno dopo quel contatto mi hanno chiamato per un appuntamento e un solo mese più tardi stavamo già parlando di contratto e copertina. Loro sono davvero efficienti, tutti giovani e motivati, con un progetto editoriale ben delineato da portare avanti. Va anche detto che quel romanzo in particolare – sia chiaro, dopo un decennio di rifiuti con altre opere che evidentemente non erano ancora mature – colpì numerosi editori nazionali, e scegliere con chi pubblicare fu per me cosa non semplice. Devo però tutto a Massimo Coppola e a Giacomo Papi (allora editor di ISBN), poiché seppero guardare a me come uno scrittore di lungo raggio; hanno cioè saputo incanalare la mia energia in un percorso, non puntando esclusivamente (come fanno molti editori anche di grido) ad un romanzo da «una botta e via»…

Disco, libro, film preferito.

Naturalmente molti, difficile, quasi impossibile sceglierne uno solo per categoria. Dei western abbiamo già parlato, li amo tutti, sia americani che italici, anche quelli più scalcinati. Se dovessi fare una scelta originale (scartando cioè i Grandi Cineasti cui sarebbe ovvio guardare) direi che La casa del diavolo (the Devil’s Reject) di Rob Zombie è un horror che non mi stanco mai di rivedere, perché secondo me c’è tanto McCarthy sotterraneo, in quella pellicola. Come disco vado sul sicuro: la colonna sonora di L’assassinio di Jesse James, opera di Nick Cave e Warren Ellis assolutamente inarrivabile. Libro? Davvero arduo, sul serio. Direi che Luce d’Agosto, del buon vecchio William Faulkner occupa sicuramente il gradino più elevato della mia idea di letteratura.

Cosa pensi del movimento Sugarpulp?

L’ho incontrato per caso in rete – via Luca Conti, il magico traduttore degli scrittori più cool americani – e mi è sembrato subito un’oasi refrigerante per uno cresciuto a pane e Joe R. Lansdale come il sottoscritto. Siete in postazione di riguardo nell’elenco dei preferiti del mio browser, e vi controllo di continuo, giuro…

Grazie, Omar!