Intervista a Valerio Evangelisti a cura di Marilù Oliva per Sugarpulp

Uno sguardo fermo sull’attualità e uno sguardo accorto sul passato: Valerio Evangelisti è studioso, storico, scrittore cimentatosi in più generi. Il suo nome è legato al ciclo di romanzi dell’inquisitore Nicolas Eymerich (per approfondimenti cliccate qui, qui oppure qui) alla trilogia Magus – Il romanzo di Nostradamus ma anche al suo lavoro di direttore editoriale.

Dopo essere stato per un decennio direttore della rivista “Progetto Memoria – Rivista di storia dell’antagonismo sociale” oggi dirige Carmilla On line, una pubblicazione di genere trasversale dedicata parimenti alla narrativa, alla critica politica e alla cultura di opposizione.

Delle diverse opere di narrazione storica (molte delle quali tradotte in francese, spagnolo, tedesco e portoghese), ricordiamo il ciclo messicano Il collare di fuoco (Mondadori, 2005) e Il collare spezzato (Mondadori, 2006).

In virtù di una scrittura capace di riportare gesta, pensieri, epoche, di esplorarle in senso diacronico e geografico, Evangelisti è considerato a buon diritto una delle figure più significative del panorama letterario italiano contemporaneo.

Il Messico come luogo di osservazione e di creazione è fondamentale sia perché lo scrittore vi trascorre puntualmente alcuni mesi ogni anno, sia perché nei mari che lambiscono Messico e Caraibi è ambientata la parte più importante della saga dei pirati: Tortuga (Mondadori, 2008) e Veracruz, appena uscito per Mondadori, nella collana Strade blu. E proprio su quest’ultima opera e sui suoi presupposti storici abbiamo chiesto allo scrittore di rispondere alle nostre domande.

É appena uscito per Mondadori (Strade blu) il secondo volume dei fratelli della Filibusta, “Veracruz”, prequel del precedente “Tortuga” (Mondadori, 2008). Veracruz, la città che i pirati puntano, è teatro di parte del romanzo. É ritenuta inespugnabile ai limiti della leggenda, così protetta da scoraggiare il minimo desiderio di conquista. É un’impresa?

È un semplice fatto storico. Una delle ultime azioni dei Fratelli della Costa fu la conquista dell’inaccessibile Veracruz, che io narro con una certa aderenza alla realtà degli eventi.

Vorrei partire da alcuni personaggi per ampliare il discorso. A capo dei Fratelli della Costa sta Michel De Grammont, indole guerriera e risolutiva, mentre ai suoi ordini troviamo il diligente Hubert Macary che, come ho scritto in una recensione, è «un onesto ammiraglio disertore degli eserciti di re Luigi, che dalla carriera militare ha conservato la disposizione alla subordinazione e all’obbedienza ottusa.» Come rapporti questa dissociazione tra ruoli che ritroviamo – oggi come nel 1683 – e questa gerarchizzazione rispetto alla società?

Ogni tipo di società ha distinzioni di ruoli e gerarchie, di fatto o di diritto. La piccola società dei pirati dei Caraibi non faceva eccezione, anche se in essa, in certa misura, l’elemento costrittivo era ridotto (cosa che infastidisce Macary, abituato a suddivisioni gerarchiche più rigide). Volevo mettere in evidenza che tra i pirati era marginale l’indole libertaria su cui certa saggistica ha molto favoleggiato.

Le donne in questo romanzo hanno, in alcuni capitoli, un ruolo comprimario nonostante tu abbia ambientato il romanzo in un’epoca, tranne rare e casuali eccezioni, maschiocratica. Da un lato Gabriela Junot-Vergara è un’intraprendente femme fatale, irresistibile tanto quanto consapevole del suo potere seduttivo, dall’altro Claire, sorella del cavaliere De Grammont, detenuta a Veracruz dall’Inquisizione come ugonotta, liberata ormai moribonda ma pur sempre simbolo di tenacia: ha resistito all’inverosimile, «cinque anni in condizioni di prigionia che avrebbero ucciso chiunque». Perché questa scelta di rappresentazione al femminile?

Amo rappresentare, in molti miei romanzi, figure femminili che all’inizio possono parere convenzionali, ma che in fin dei conti non lo sono affatto. In “Veracruz” sia Gabriela che Claire sembrano stereotipi (la seduzione, la sofferenza), ma entrambe resistono a modo loro al tentativo di sottometterle.

Cosa ne pensi della rappresentazione del femminile in Italia oggi?

Desolante. Non c’è altro aggettivo.

Inquadrando l’opera nei canoni del romanzo storico, come hai proceduto metodologicamente intersecando il presupposto documentativo a quello della narrazione? Hai dichiarato nella nota finale: «essendo il mio un romanzo e non un testo storico, all’occorrenza mi sono allontanato, a fini di drammatizzazione, dalla realtà degli avvenimenti.», hai delle linee guida quando t’imponi di rispettare il dato storico e quando scegli la via della libera ricostruzione/interpretazione? Ti chiedo qualche delucidazione in più su “All’occorrenza”!

Io cerco di riportare con un certo scrupolo i fatti conosciuti, desumendone in maniera coerente quelli sconosciuti. “All’occorrenza”, però, mi distacco da questo metodo. Ciò avviene quando trovo necessario uno sviluppo romanzesco che la realtà non offre. Si tratta però di piccoli strappi, tali da non incrinare la veridicità del quadro generale.

Il tuo lavoro di storico (mi riferisco sia alla precedente produzione saggistica sia alle ricerche in funzione della narrativa) ti ha portato a una conclusione antropologica sull’indole dell’umana? L’uomo è sempre uguale a se stesso o muta col trascorrere dei secoli? Se invece cambia qualcosa, cosa?

L’uomo muta e molto rapidamente. Certi comportamenti diffusi due o tre secoli fa – per esempio le esecuzioni in pubblico, in presenza anche di bambini – oggi ci risultano incomprensibili e inaccettabili. Mutano anche le forme di pensiero, i valori condivisi. Ritengo però una costante una certa indole ferina di origini ancestrali, che la società umana, per potersi sviluppare, deve tenere a freno.

Sempre partendo da presupposti storici, sei giunto a tesi conclusive in merito al connubio storia-distruzione?

La storia, piaccia o no, ha per motore la violenza. C’è comunque chi si batte per fare dell’intelligenza il nuovo motore, con successi finora solo parziali.

Una domanda estesa, ma mi interessa molto conoscere il tuo parere in merito. Qual è la situazione dell’editoria italiana oggi? Cos’è cambiato in questo ventennio?

Mah, non sono abbastanza esperto per dare una risposta certa. Sul piano strutturale si è assistito a una maggiore concentrazione, legata anche ai canali distributivi, e a una lenta emarginazione del ruolo della critica letteraria. L’unica vera novità, sconvolgente, è stata rappresentata da Internet e dall’espansione dei soggetti in grado di produrre cultura. Preciso però che non credo nel futuro degli e-book: un diverso medium deve veicolare un messaggio a esso adeguato, non strappare un’identica comunicazione alle sue vecchie forme.

Il Messico è stato (ed è) luogo significativo per la tua produzione, penso a “Il collare spezzato” (Mondadori, 2008), “Il collare di fuoco” (Mondadori, 2007) ma non solo. Cosa possono aspettarsi i tuoi lettori, stai preparando un nuovo volume sulla saga dei fratelli della Filibusta?

No. Ho in mente per filo e per segno il capitolo conclusivo della saga dei pirati, però lettori ed editore reclamano a gran voce Eymerich. Li accontenterò, ma sarà l’ultimo Eymerich: il congedo forse definitivo dal personaggio.

Ci saluti con uno slang messicano?

“Ooorale!”, con l’accento sulla prima o. É un’espressione solo messicana che può significare “ciao”, “grazie”, “d’accordo” o altro ancora, a seconda del contesto.