Uno scrittore intervistato dal suo traduttore.  Joe Abercrombie, uno dei re del grimdark fantasy, racconta a Edoardo Rialti la genesi del primo volume della sua nuova trilogia fantasy, Il Mezzo Re (Mondadori).

Si puo’ parlare di Joe Abercrombie introducendo la sua narrazione: le sue regine belle, intelligenti e inflessibili come diamanti, che sbattono i pugni sul tavolo e condannano i nemici a affogare nel fango; i suoi guerrieri dai denti spezzati, il sorriso folle, che danzano al ritmo delle loro armi; i suoi cattivi ferocemente divertenti, si tratti di piratesse ubriache o di re ammantati di pelli di lupo, i pomelli delle spade degli avversari appesi al collo.

Si può raccontare la sua scrittura ricca, che dà peso, realismo e spessore all’ultima delle comparse e al tempo stesso mantiene sempre un ritmo al cardiopalma, dove il lirismo e la durezza sono i due tagli della stessa lama, affilata dalla cote di un umorismo nero, che ha la stessa forza caustica di Ellroy o Breaking Bad.

“Uno scrittore straordinario” nella parole di G. R. R. Martin, dall’alto del suo Trono di Spade.

Ma forse, per introdurre il suo “Mezzo Re”, la storia del giovane e storpio principe Yarvi, costretto a salire su un trono che non desidera, e a impiegare la propria scaltrezza in un mondo dove a farla da padrone dominano esplicitamente l’acciaio e, più segretamente, l’oro, alla guida di una banda di reietti, forse basta ricordare una risposta che lo scrittore diede a un raduno italiano di appassionati del fantasy.

Alla domanda di una ragazza su quale sarebbe “l’animale-totem” nel quale piacerebbe identificarsi, lo scrittore britannico ha sorriso e ribattuto semplicemente “uno scorpione”, con probabile sconcerto della signorina.

E, come i lettori di quest’intervista “scrittore-traduttore” potranno verificare, gli scorpioni sono anche conversatori micidialmente divertenti.

Intervista a Joe Abercrombie a cura di Edoardo Rialti

Una volta hai presentato la tua trilogia de La Prima Legge come un Signore degli Anelli che incontri L.A. Confidential: poi hai parlato del tuo Il Sapore della vendetta come di un Montecristo combinato a Point Blank, ma con un Lee Marvin donna. Che immagine useresti per presentare invece il tuo Mezzo re?

Vikings che incontri Il re leone, forza, ma stavolta con un Simba molto più simile a Scar che a Mufasa…

Perché hai deciso di scrivere una trilogia Young Adult? Cosa ti ha intrigato particolarmente in quel genere di narrativa?

Mi era stato già proposto di scrivere degli YA qualche anno fa e l’dea mi aveva colpito come interessante, un’opportunità di sperimentare un diverso tono e un diverso formato, ma all’epoca ero occupato con i miei progetti per adulti. Però quando arrivai a finire Red Country mi trovai ad aver scritto sei ampi, complessi, romanzi fantasy adulti belli tosti, tutti ambientati nel medesimo mondo di fila e avvertivo la necessità di tentare qualcosa di diverso. Credo fortemente che come scrittore devi continuare a spingerti oltre e provare cose nuove se desideri mantenere te stesso interessato a quello che stai facendo, per non parlare del pubblico. Ciò costituiva un’interruzione naturale nei miei libri per adulti, e pensai che una serie YA mi avrebbe fornito l’opportunità per tentare qualcosa di diverso ma complementare.

Ovviamente, dal punto di vista creativo, ho voluto mantenere tutto ciò che ritenevo ardentemente avesse funzionato nei libri per adulti – il cinismo, il concentrarsi su personaggi vividi, l’azione violenta, tuttavia dovevo lavorare con personaggi più giovani, non ancora formati, che costituiscono una sfida diversa dalle persone più grandi, più esperte, più “logorate dal mondo” su cui tendevo a centrare le mie opere per adulti; così come avrei puntato su qualcosa di assai più breve, compatto, più agile. Da un punto di vista commerciale mi pareva di poter comunque realizzare qualcosa che avrebbe incontrato il gusto dei miei lettori più affezionati, sperando al contempo di raggiungere dei lettori più giovani e magari un tipo di lettore adulto, interessato al fantasy ma tenuto un po’ alla larga dal gran numero di proposte che ci sono in giro.

Quali sono state le sfide maggiori (lo stile, i personaggi…) nello scrivere un libro del genere? E dov’è stato invece il vero divertimento?

È stata certamente una sensazione liberatoria cominciare a lavorare in un nuovo mondo, nel quale non dovevo considerare cosa i personaggi avessero già compiuto in precedenza o quali frammenti di storia passata avessi saltato. E scrivere con un taglio breve, incisivo dove punto costantemente a mantenere tutto il più compatto possibile è davvero emozionante, poco ma sicuro. Ognuno di questi libri risulta assai diverso dalla gigantesca progettazione che intraprendevo con ciascuno di quelli per adulti, e i giri di revisione e bozze si concludono a tutta birra.

Mi ricordo che leggevo insieme le bozze di tre diverse versioni di Non prima che siano impiccati e che la pila dei fogli mi arrivava alla testa. Ma la brevità e la concentrazione di questi libri comporta anche meno tempo perchè i personaggi maturino nel corso della scrittura, se vuoi. L’intero processo è più concentrato, più intenso, e con una programmazione di sei mesi per la pubblicazione, c’è un inferno di cose da sbrigare.

Dove pensi stia la differenza tra un bel romanzo Young Adult e semplicemente un gran bel romanzo per adulti, quantomeno per te? Ci sono realtà, parole o temi cui “non si dovrebbe esporre” un pubblico più giovane, oppure l’eventuale differenza va trovata da qualche altra parte?

Onestamente non ritengo ci sia affatto questa gran differenza. Un romanzo Young Adult deve avere un giovane per protagonista, e perciò è probabile possieda un certo sentore di formazione. Può anche essere più breve e serrato e focalizzato del tuo usuale romanzo per adulti. Può anche risultare (ma certamente non è sempre così) in qualche misura meno esplicito nel modo di affrontare il sesso, la violenza e il linguaggio, ma non ci sono regole ferree e precipitose, e nel giro degli ultimi anni si è verificato un graduale spostamento in ciò che si può accettare nella narrativa YA, al punto che c’è davvero poco che non puoi inserire nella vicenda se è la cosa giusta e funziona nella storia stessa.

Il mio sentire al riguardo è sempre stato che i “giovani adulti” sono soprattutto adulti solo giovani, e ci sono un sacco di persone tra i 12 e il 16 anni che leggono i miei lavori per adulti veri e propri, in fin dei conti. Ciò che volevo leggere tra i 12 e i 16 anni non è poi così diverso da ciò che leggo adesso.

Puoi dirci qualcosa della cultura, assolutamente particolare, del tuo Mare Infranto così come si riflette nel suo pantheon? Incontriamo tutta una serie di Coppie di Divinità che spesso ribaltano certe nostre immagini tradizionali, (o magari certi nostri clichés): si tratta solo dell’eco di un’altra cultura, quale la visione norrena, vichinga del cosmo, o c’è qualcosa di più che desideravi raccontare?

Con la “Prima Legge” avevo lavorato su una società molto patriarcale, e con il Mare Infranto desideravo un’ambientazione che mi aiutasse a inserire una grande varietà di personaggi femminili nelle vicende. Le donne godevano di molta autorità e libertà nella società vichinga rispetto al resto d’Europa, soprattutto per quel che riguarda il commercio e all’amministrazione della casa, che costituivano l’unità fondamentale della società vichinga. Ho preso questo elemento e l’ho estrapolato un po’, inserendolo in una società nella quale, sebbene il combattere e il lavorare siano tradizionalmente sfere maschili, il denaro, il commercio e la preservazione della conoscenza siano femminili. E man mano che il commercio e gli scambi si fanno più importanti, le donne sono diventate più potenti, e i Ministranti, che stanno al fianco dei re per consigliarlo, sono perlopiù donne.

Volevo estendere questa divisione dei compiti anche agli dei, che quindi tendono a costituire delle coppe binarie, una divinità maschile e una femminile come Madre Mare e Padre Terra, ma pensai anche che sarebbe stato interessante immaginare la relazione tra una persona e il suo nume tutelare quasi come un matrimonio. Perciò un guerriero adora Madre Guerra. Una ministrante adora Padre Pace, e così via. Un altro modo per introdurre un po’ di femminilità in aspetti del fantasy epico dove, per alcune ragioni, tendiamo a non aspettarcelo.

Il viaggio di Yarvi è intessuto di citazioni che provengono dal suo passato difficile: saggi proverbi della sua mentore Madre Grundring, ma anche dai suoi genitori, assai duri, la regina Laithlin e persino il re defunto. Possiamo dire che il viaggio di Yarvi non sia solo spaziale ma anche temporale, un viaggio “nel” suo passato, nel quale scoprirà una relazione più profonda, una luce nuova gettata sulla sua famiglia e la sua stessa storia?

Oh sì penso sia piuttosto corretto. Molto del passato di Yarvi non è proprio come lui lo comprende inizialmente. Persone che ritiene amiche si rivelano essere dei nemici. Persone che pensava lo disprezzassero mostrano sentimenti molto più complessi. Si ritrova anche a provare un certo disgusto verso sé stesso che dovrà superare, e tutto a causa di quell’essere un po’ un paria a causa della propria menomazione fisica, essendo stato detto che non è né potrà mai essere un vero uomo nel contesto di una simile società guerriera. Perciò Yarvi ha parecchio da reinterpretare e rivedere del suo passato. È una storia sul diventare adulti, fare i conti con te stesso, accettare chi sei.

Mi è parso che sia l’Odissea che Amleto giochino un ruolo preponderante come riferimenti della tua narrazione. È così oppure erano altre le storie cui alludevi?

Non saprei dire se proprio quelle due fossero in cima ai miei pensieri, ma di certo riesco a coglierne gli echi. Una ragazzina ad un evento scolastico mi ha chiesto se avessi notato quanto la storia assomigli a Il Re Leone… io ho fatto notare che non ci sono leoni, ma che aveva certamente ragione. Tuttavia personalmente mi piace una storia classica narrata in modo nuovo. Certe volte ritengo che l’originalità sia un po’ troppo sopravvalutata. Quando scegli un’ambientazione o un genere ben definito e amato, si crea una sorta di attesa nel lettore che puoi sfruttare per i tuoi scopi.

Molte delle tue storie riguardano il grande, perenne tema umano della vendetta. Recentemente lo scrittore noir Joe Nesbo ha affermato che la vendetta ci attira tanto perché palesa la nostra intima natura di creature razionali: siamo creature che vivono di conseguenze. Sei d’accordo o pensi ci sia qualcos’altro in ballo?

Certamente la vendetta ci affascina a un livello profondo. Chi non ha mai fantasticato di assassinare una stanza piena di altri scrittori fantasy, dopo tutto? Ah, quello sono solo io? Da parte mia mi sa che ero un po’ stanco di quello stile “da salvatore del mondo” dell’eroe che eravamo soliti vedere in molti romanzi fantasy all’ombra di Tolkien: persone che cercano sempre di fare le cose giuste per le giuste ragioni, e che effettivamente le fanno. Trovo un po’ più credibili le persone che comprendano sia il bene che il male. I cattivi migliori sono quelli ricchi di elementi che ce li fanno ammirare. Gli eroi migliori sono quelli che devono trionfare sulle proprie tenebre. Perciò preferisco vedere dei protagonisti con motivazioni più oscure come l’avidità, l’auto-conservazione, la vendetta.

Sei spesso ritenuto una delle voci principali del fantasy “duro e cupo”, il grimdark. Ritieni si tratti solamente di una cesura tra il fantasy classico e il cammino intrapreso da alcune delle voci contemporanee più amate, o che magari la faccenda sia più complessa? La mia (molto modesta) opinione è che – forse – solo un profondo amante dei classici possa anche trovare un modo nuovo per raccontare le sfumature, le ambiguità, le possibilità non dette nelle storie “più luminose” del nostro passato, come Sergio Leone ha fatto con i western di John Ford, per esempio.

Penso tu abbia assolutamente ragione. Nessuno si mette a passare anni a scrivere una serie di enormi libri in un genere che odia. Il desiderio di realizzare qualcosa di nuovo non sorge mai dal disprezzo per la forma, ma da un amore assai profondo per essa, ritengo, magari col desiderio di andare oltre, di farla uscire dalla routine, e introdurre qualcosa di nuovo negli ingredienti. Per quanto mi riguarda ero (e sono) un grande appassionato de “Il Signore degli Anelli”, e da ragazzino lo leggevo ogni anno.

Ho letto molto del fantasy commerciale che ha seguito le orme di Tolkien, cose come Dragonlance o la Saga di Belgariad di David Eddings, ma dopo un po’ immagino di essermi un po’ stancato dalla gran quantità di ripetizioni e prevedibilità che ci trovavo, e dalla mancanza di quella incisività moderna, viscerale e emozionante che invece notavo in molta della narrativa noir e western che leggevo. Poi ho letto Il Trono di Spade e ovviamente vi ho trovato molta della durezza, dell’oscurità e del pericolo che sentivo mancare al genere. Quando parlo con altri scrittori della mia generazione – gente come Scott Lynch, Brent Weeks, Peter Brett, Pat Rothfuss – li trovo tutti grandi amanti e appassionati di fantasy. Vogliono solo portare il loro contributo al genere facendo a modo loro.

Una volta Robert Louis Stevenson ha affermato che il grande dono dei romanzi sta nel fatto che essi “non inchiodano il lettore a un dogma, che egli dovrà poi scoprire inesatto; non gli insegnano una lezione, che debba poi disimparare; essi ripetono, ridispongono, chiarificano le lezioni della vita; ci distaccano da noi stessi, ci costringono a conoscere gli altri e ci mostrano la tela dell’esperienza”: sei d’accordo? Come definiresti il dono o i doni che cerchi e ricevi nello scrivere o nel leggere un romanzo?

Fiuuuu, questa sì che è una bella domanda. A un certo livello non penso tu ti metta a scrivere un libro con grandi ambizioni per il tema, la profondità o il significato. Ti disponi a raccontare una storia, a divertire il lettore, ma se cerchi di scrivere onestamente non penso tu possa impedire al tuo sguardo sulle cose di trapelare nell’’opera, né che tu voglia farlo. Se presenti dei personaggi vividi allora inevitabilmente toccherai alcuni lettori in modo profondo. I libri che apprezzo maggiormente sono quelli che offrono delle voci uniche, quelli che esprimono cose che non mi sarebbero mai neppure venute in mente, ma che tuttavia mi accorgo essere veritiere.