Kriminalmente Mario Bava: l’horror e la psicologia del coltello
Mario Bava respirò l’aria del cinema e della sua magia fin da bambino: infatti trascorse la sua infanzia nell’officina del padre Eugenio, autore di trucchi cinematografici, un’esperienza fondamentale per il bambino che era allora “…a 3 anni mi avvolgevo nella pellicola e giocavo con il cianuro di potassio…”.
Fin da giovane Bava lavora nel cinema svolgendo tutte le mansioni necessarie per la realizzazione di un film: operatore, direttore della fotografia, montatore, curatore degli effetti speciali. Era il periodo in cui nel cinema italiano, accanto a una produzione cinematografica di tipo industriale, esisteva una vasta schiera di artigiani del cinema che lavoravano a “bottega”, nella tradizione degli artisti fiorentini del rinascimento italiano.
Trucchi, magia e artigianato sono presenti nella vita di Bava fin dalla sua nascita e, non a caso, saranno i tre elementi primari che utilizzerà nel suo film d’esordio alla regia La maschera del demonio del 1960, tratto da un racconto di Gogol’, Il Vij, incentrato sul tema del vampirismo.
In questa opera Bava offrirà un’interpretazione personale del racconto, inserendo, nella struttura narrativa, elementi completamenti differenti rispetto all’originale. La protagonista femminile, le ambientazioni di stile gotico, la capacità seducente del male sono elementi tipici della figura del vampiro tratteggiata in epoca romantica, dal prototipo letterario di John W. Polidori The Vampire (scritto nella famosa sfida letteraria notturna a Villa Donati sul lago di Ginevra, da cui nacquero alcuni tra i maggiori racconti del terrore, tra i quali il Frankestein di Mary Shelley), al romanzo di Sheridan Le Fanu Carmilla.
Il tocco del regista di talento, la ciliegina sulla torta, si nota nell’idea di trasferire il punto vitale del vampiro dal cuore, come nella tradizione letteraria classica, all’occhio, l’organo del quale il cinema non può fare assolutamente a meno.
Stile personale, suspense e horror fanno di questo film un archetipo del cinema horror italiano che nel decennio successivo esplose invadendo le sale cinematografiche (cronologicamente il primo film horror italiano risale al 1957, il bellissimo I Vampiri di Riccardo Freda, al quale Bava contribuì come direttore della fotografia).
Il successivo lavoro horror di Bava si rivelerà un esperimento curioso, tutt’ora poco considerato, di fusione tra il genere peplum e quello horror, Ercole al centro della terra del 1961, il cui titolo italiano risulta ingannevole, mentre in Francia fu distribuito con il titolo ben più esplicativo di Hércules contre le vampire: Bava caratterizzò l’opera attraverso un’atmosfera oscura, da incubo, attraverso un uso magistrale del colore e della musica; le tonalità dominanti della pellicola sono il rosso e il nero, la colonna sonora produce nello spettatore una costante inquietudine, mentre zombie mitologici escono dai loro sarcofaghi già nelle prime sequenze del film, i combattimenti di Ercole sono terrificanti e il sangue scorre a fiumi sullo schermo, dove il percorso del protagonista si dipana evidentemente attraverso un inferno dantesco, piuttosto che nel terreno tipico e consueto di un eroe mitologico protagonista dei peplum allora così in voga.
Nel 1963 l’infaticabile regista realizza due film, La frusta e il corpo e I tre volti della paura: il primo è un film non del tutto compiuto, con una struttura circolare che però spesso si arena e con enormi falle nello svolgimento narrativo; il secondo è un film composto da tre episodi con un prologo e un epilogo, interpretato da un’icona del cinema horror, Boris Karloff.
Il film svela subito quel che è ovvero la destrutturazione delle convenzioni filmiche, mostrando fin dal principio, in maniera sagace e ironica, il meccanismo cinema, la morte al lavoro come è stata spesso definita la settima arte. Karloff nel prologo, guardando dritto nella macchina da presa, si rivolge direttamente allo spettatore, mentre nell’epilogo un’inquadratura lo mostra a mezzo busto intanto che cavalca in una notte ventosa attraversando una foresta scura, per svelarci poco dopo, attraverso un leggero e magistrale carrello all’indietro, l’attore su un cavallo a dondolo in uno studio, con un ventilatore accanto e uno sfondo dipinto dietro le spalle: come un prestigiatore che svela i suoi trucchi, Bava svela qui in maniera magistrale l’illusione magica tipica del cinematografo!
L’anno successivo con Sei donne per l’assassino Bava realizza un magistrale thriller dal quale deriveranno molte figure e stilemi che caratterizzeranno il futuro cinema di Dario Argento, un thriller venato di oscurità, impregnato di un male quasi atavico, seppur più reale e concreto di quello metafisico del genere horror-gotico a cui aveva abituato gli spettatori fino ad allora, attraverso la figura completamente nera dell’omicida (una figura successivamente ripresa anche da un maestro del cinema thriller come Brian De Palma in Vestito per uccidere).
Nel 1966, con Operazione Paura, Bava raggiungerà uno dei punti più alti della sua arte. Il film risulta un suggestivo complesso di rimandi tra la struttura narrativa, lo stile di regia, l’architettura scenografica e il montaggio, in perfetto equilibrio tra di loro. Il risultato è un’opera visivamente barocca, dove le immagini creano un vortice sensoriale in perfetta simbiosi con la storia narrata.
Tre anni dopo Bava realizzerà Il segno rosso della follia, un horror-thriller nel quale il punto di vista narrativo è quello dello psicopatico omicida, il quale viene subito svelato, calamitando in questo modo l’attenzione dello spettatore sul modus operandi e sulla psicologia del serial killer; altra intuizione visivamente notevole del maestro dell’horror italiano è il parallelismo tra l’interpretazione psicoanalitica dell’uso del coltello, una protesi fallica dell’omicida, con la ripresa in primo piano della lama che, splendente e luccicante, invade interamente lo schermo, un elemento che diverrà distintivo di moltissimi film horror americani, nei quali è fortemente sottolineato l’aspetto di pulsazione sessuale, di eros e thanatos, messo in luce dalla cultura psicoanalitica del XX° secolo.
Un elemento che sarà praticamente onnipresente in tutti gli slasher-movie degli anni successivi e che troverà la sua apoteosi in quel capolavoro assoluto che è Reazione a catena del 1971: già nell’incipit del film assistiamo all’uccisione di una vecchia signora da parte del marito che poco dopo verrà a sua volta assassinato. Come una reazione a catena, a causa di una speculazione edilizia, omicidio chiama omicidio e il film aumenta sempre di più di tensione, attraverso magistrali e imprevedibili colpi di scena, rappresentando un gioco al massacro al quale non sfuggirà nessuno dei personaggi in gioco.
Nella messa in scena di un’umanità senza nessuno scrupolo morale, Bava si sbizzarrisce nell’uso del colore, utilizzando una fotografia densa e pastosa, impregnata di rosso vermiglio, facendo cosi sembrare i colori che esplodono sullo schermo come qualcosa di concreto e tangibile; come molteplici sono le modalità dei numerosi omicidi, nei quali viene praticamente rappresentata l’intera gamma delle armi da taglio: dall’ascia al coltello, dalla falce alle lame Bava non si fa mancare nulla, tanto che quasi ogni delitto sarà omaggiato in numerosi film successivi che negli anni 70 e 80 faranno la fortuna del genere a livello mondiale. Uno dei pochi film amati dallo stesso regista, Reazione a catena non risparmia nemmeno l’ingenuità e la purezza dell’infanzia, seppur la visione del gioco da parte dei bambini risulti inevitabilmente influenzata da quella degli adulti.
Cinque bambole per la luna d’agosto del 1970 fu un film realizzato su commissione e basato su Dieci piccoli indiani di Agata Christie: boicottato in parte dallo stesso Bava attraverso un uso eccessivo di zoom sfocati e di situazioni illogiche, in parte dai produttori che lo massacrarono del tutto in fase di montaggio, il film si rivelò un fiasco completo.
Nel 1972 Bava chiuderà definitivamente il periodo d’oro dell’horror-gotico italiano con un film che risulterà un’elegia finale del genere a cui lui stesso diede vita in Italia: Gli orrori del castello di Norimberga è un’opera a briglia sciolta nella quale Bava si sbizzarrirà a dar via libera al suo gusto grand-guignolesco, alla sua sottile ironia, rivolgendola verso il genere stesso, attraverso un’opera visivamente dinamica, ma che in realtà risulta un’autopsia su un tipo di sottogenere ormai morto e defunto.
Non a caso il film successivo segnerà l’ingresso nelle tematiche moderne da parte del maestro, Lisa e il diavolo del 1972, che uscirà solo nel 1975 con scene aggiunte dal produttore e disconosciute dallo stesso regista; nonostante ciò il film risulta un’opera completamente baviana, con una storia in cui è il diavolo in persona, il maggiordomo Leandro, il protagonista assoluto.
Un maggiordomo che muove e sistema continuamente sagome e manichini, come il regista muove e sposta gli attori sul set, di modo che risulta facile identificare il personaggio di Leandro con lo stesso Bava al lavoro, facendo cosi di questa opera una sorta di riflessione metafisica sulla regia cinematografica.
Bava chiuderà la sua carriera di regista con due film minori quali Shock (1977) e La venere d’Ille (1978), ma la sua influenza sul cinema mondiale rimarrà intatta, crescendo sempre più fino ai giorni nostri: non a caso a Mario Bava si sono dichiaratamente ispirati cineasti del calibro di Friedkin, Romero, Carpenter, Hooper, Craven, Raimi, Burton, e Tarantino.