Italian Job, un racconto inedito di Stefano Zattera per Sugarpulp MAGAZINE.

Prima parte

Altro che vitella da latte. Quella era una vecchia mucca sfatta!

Ai vecchi tempi le hostess non avevano il culo grosso come uno Zeppelin, Cazzo.

Una volta sembravano tutte le concorrenti a Miss universo che non avevano vinto il concorso. Adesso assumevano anche le sorellastre di Cenerentola.

Questa mi aveva anche strusciato le mammelle sulla spalla quando mi aveva servito lo scotch. Fosse stata anche solo un filo più gnocca un pompino in bagno ci poteva scappare. Ma con quei quarti di bisonte non ce la potevo proprio fare. Probabilmente non ci entravamo neanche in due nel bagno.

Otto ore erano lunghe. Prima avevano dato Il Padrino e mi era passata alla grande. Ma poi quella merda di Pretty woman mi aveva gonfiato i coglioni. Quotidiani e riviste contenevano sempre le solite cagate e avevo dimenticato Le Belve di Don Winslow al terminal.

Quel cazzo di volo sembrava non finire mai.

Buttai l’occhio dal finestrino. Vette innevate. Quelle dovevano essere le vecchie Alpi. Ormai Milano era vicina.

Era un bel pezzo che non venivo nel vecchio stivale forse dagli anni novanta quando avevo fatto da intermediario tra un uomo di Riina e i vecchi capi del New Jersey per quel cargo di fuoristrada rubati. A Palermo mi ero divertito un botto.

E pure anni prima a Napoli per quei Kalasnikov e Roma quella volta per la fornitura di bamba. Ma con la città cardine della finanza del paese non avevo mai avuto affari.

Stavolta, invece, era proprio lì che avevo da fare. Un lavoro con i controcazzi. Dovevo mettere a riposo un pezzo molto, molto grosso. Talmente potente che le famiglie non erano riuscite a incaricare uno dei loro – ammesso che lo avessero trovato un picciotto che avesse le palle di farlo – e si erano rivolte ai bravi ragazzi d’oltre oceano.

Anche da noi si erano fatte varie riunioni prime di accettare l’incarico e si era stati lì, lì per mollare. Quello stronzo era conosciuto in tutto il mondo. Magari più per la sua cafonaggine che per la sua statura politica.

Ma poi la torta proposta come compenso era diventata davvero golosa e avevano pensato subito a me. Sapevano che non avevo nessun tipo di problema a far fuori qualsiasi tipo di stronzo. Fosse stato il Papa o L’ultimo dei Moicani. Purché mi pagassero.

Ero il killer più quotato di cosa nostra e il mio compenso avrebbe fatto girare la testa a un amministratore delegato.

Probabilmente quello sarebbe stato il mio ultimo Job. Poi avrei potuto ritirarmi in nella Farm con vigneto in Minnesota che mi ero comprato per la vecchiaia. Non erano in molti, nel mio ambiente, a pensare alla vecchiaia. Forse perché sapevano che difficilmente ci sarebbero arrivati.

Ma io ci avevo pensato. Per due motivi: perché ero dannatamente bravo a fare il mio lavoro; perché avevo la fortuna dalla mia.

Una fortuna sfacciata. Il culo rotto, come si dice. Ero nato con la camicia ed era pure di seta. Non ero stato baciato ma spompinato dalla fortuna, e gli ero pure venuto in bocca.

Ogni volta che le cose si erano messe male, e sembrava che non ci fosse via d’uscita, la mano di Dio, di Satana, la buona stella, il Dottor Destino, Galactus o chi altro cazzo c’era lassù a organizzare le cose, aveva cambiato le carte in tavola facendomi uscire col culo sano. E questo mi rendeva invincibile perché non avevo paura di un cazzo!

Stavolta però la faccenda era più seria del solito. Il cliente – mi piaceva chiamarli così – era un grosso imprenditore entrato in politica.

Aveva cominciato la sua fortuna negli anni settanta riciclando nell’edilizia i soldi sporchi di cosa nostra. Aveva poi continuato la sua carriera commettendo ogni sorta di reato finanziario possibile, finché aveva finito per diventare uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia.

Poi quando era arrivato a essere primo ministro aveva dato il colpo di grazia a un paese già corrotto fino al buco del culo istituzionalizzando un sistema clientelare di assegnazione degli appalti. Arrivando anche a creare leggi che depenalizzavano i reati riguardo ai quali aveva processi in corso.

La cosa buffa era che un tale soggetto era stato rieletto più volte.

Evidentemente era quello che gli italiani volevano. Era quello che li rappresentava al meglio.

In tutto questo aveva sempre agevolato gli interessi di cosa nostra che lo aveva a sua volta appoggiato. Ma alla fine si era lasciato prendere la mano e ne aveva combinate troppe. Aveva perso consensi. Era diventato dannoso e imbarazzante anche per la Mafia e avevano deciso di darci un taglio.

E quindi eccomi qua.

L’aereo atterrò e quelle teste di cazzo dei passeggeri esplosero in un applauso fragoroso. Neanche il pilota avesse fatto qualcosa di straordinario. Aveva fatto solo il minimo sindacale. Riportare la pellaccia a terra. Quella dei passeggeri era solo un optional, veniva di conseguenza.

All’uscita sgamai subito i miei ospiti. Non avevano bisogno di un cartello con scritto “PICCIOTTI”. Le loro facce da galera non lasciavano dubbi. Anche l’abbigliamento era quello d’ordinanza. Capelli tirati indietro con il gel e camicie di raso aperte fino all’ombelico con capezza d’oro mimetizzata tra il pelo sul petto alto tre dita. Non erano poi molto diversi dai ragazzi del Jersey.

Nonostante tutto comunque erano tranquilli e passavano abbastanza inosservati.
E invece no, cazzo! Che ti combinano ‘sti stronzi? Estraggono il cartello con il mio nome.

Scritto a lettere grandi come quelle di Hollywood sulla collina: “Tommy Pesce”.

Neanche col nome di battesimo Thomas o un acronimo T.P. o altre cagate del genere, no! Proprio col mio nome di battaglia, quello con cui mi conosceva l’Interpol di mezzo mondo!

Cominciava proprio bene! Italiani del cazzo!

Seconda parte.

Tullio Bernardoni guardava attraverso la grande vetrata del suo studio i palazzoni di Milano in lontananza.

Guardava e pensava. Pensava a quante cazzo di cose aveva fatto nella sua vita. Un bel pezzo di quella città l’aveva costruita lui.

Ok. Con i soldi della Mafia, ma cazzo, gli affari sono affari. Se vuoi fare i soldi devi avere i coglioni. Gli scrupoli sono per le pappemolle.

Cazzo. Aveva fatto una montagna di soldi che neanche zio Paperone. Aveva tirato su un impero con le sue capacità di imprenditore. Edilizia, televisioni, assicurazioni, banche, settore alimentare, editoria, produzioni cinematografiche, società sportive.

Ok. Aveva evaso il fisco, creato società fantasma, usato prestanome, compagnie offshore, falsi in bilancio, fondi neri. Ma se rispetti le regole i soldi non li fai. Il fisco ti mangia tutto in questo paese del cazzo.

Aveva tutto ciò che un’uomo può volere. Proprietà e case dappertutto, auto, aerei, elicotteri, barche, mogli, figli, amanti, soubrette in cerca di fama, puttane, escort, aspiranti deputate disposte a tutto. Non si era fatto mancare nulla.

Ok. Aveva corrotto politici, giudici, magistrati, amministratori, tecnici, commercialisti, finanzieri, poliziotti. Ma se non ungi gli ingranaggi non vai da nessuna parte in questo paese dalla burocrazia arrugginita.

Cazzo. Aveva difeso la libertà e il liberismo. Aveva salvato il paese dai comunisti con la sua discesa in campo. Il paese doveva essergli grato.

Ok. Aveva comprato voti e deputati. Usato le sue televisioni e giornali per screditare nemici, oppositori e avversari, sbandierato promesse al popolo che sapeva di non poter mantenere. L’aveva messo nel culo a cinquanta milioni di italiani. Dalla minorenne al vecchio magistrato usando la TV come lubrificante. Ma così funzionava la politica in quel Paese di fregnoni del cazzo. Dovevi metterglielo nel culo per il loro bene.

Ok. Aveva dato la precedenza ai suoi interessi aveva fatto di tutto per se stesso, per le sue aziende, per il suo tornaconto, per il suo ego e per la sua famiglia.

Ma cazzo era lui farsi il mazzo grosso venti ore al giorno e comunque i suoi alleati li aveva trattati bene. Gli aveva fatto fare soldi e carriera politica – che porta altri soldi e pensioni golose. Aveva tirato dentro tutti quelli a cui doveva dei favori. Amici, parenti, amici di amici, faccendieri, galoppini, imprenditori, mafiosi, figli di questo e cugini di quello. Perfino quelle teste di cazzo dei leghisti. Aveva fatto fare i soldi a tutti, cazzo.

E ora tutti lo stavano mollando. Pezzi di merda!

La coalizione si era disgregata, mezzo partito se ne era andato a farne uno per conto suo.

Coraggio Italia perdeva voti a ogni occasione. La barca sembrava affondare e i topi la abbandonavano.

Anche la Mafia si stava allontanando. Non era più il cavallo vincente. Non gli serviva più.

Probabilmente avevano già preso accordi con quella macchietta da cinepanettone che stava governando al momento.

Che cazzo doveva fare? doveva riprovarci! Non c’era altro da fare. Se avesse mollato avrebbero avuto carta bianca per fotterlo, con tutti i processi che aveva in ballo. Doveva tornare a controllare legge e giustizia.

E poi ormai era drogato di potere. Non poteva più accettare di non essere il capo.
Era un momento avverso ma le cose avrebbero potuto cambiare. Due titoli studiati sui suoi giornali e quattro cazzate nei talk show giusti e avrebbe ribaltato le carte in tavola, come sempre.

Si, porca puttana! Poteva, e doveva, farcela. Per lui, per i suoi e per il paese. Gliel’avrebbe fatta vedere a tutti. Gliel’avrebbe ficcato nel culo a tutti un’altra volta. Avrebbe ripreso in mano le redini del paese. Avrebbe di nuovo manovrato la macchina dei soldi grossi! Avrebbe di nuovo partecipato alle riunioni dei grandi della terra.

L’eccitazione stava montando. Ma qualcosa sembrò turbare la sua estasi.

“Cribbio! Attenta con quei denti!” esclamò mentre afferrava per i capelli rossi la testa sotto il tavolo che stava praticandogli una fellatio.

“Mi scusi. Non lo faccio più” rispose la testa.

“E ci mancherebbe altro!” ribadì Bernardoni rimettendo la chioma color rame al suo posto.

“Finisci, dai… Ecco brava così”

Il ritmo andò aumentando e alla fine il faccendiere scaricò nelle fauci della giovane il suo vecchio succo rancido.

La ragazza si riassettò e si avvicinò alla porta.

“Allora ci conto per la parte” disse.

“Si certo… Tesoro” rispose Tullio, “appena esci chiamo il regista”.

E così fece.

“Pronto Carlo. Ciao Caro. Senti per quella rossa di cui ti parlavo… Si proprio quella… ha ha ha… esatto. Senti, lascia stare. Dopo il provino dille che non è adatta. Come dici?… Si esatto, non mi convince”.

Terza parte

Sentii il clacson del fuoristrada suonare due volte come pattuito. Il mio diversivo stava arrivando. Stava per iniziare il ballo.

Mi scappò un rutto. Merdasecca! Io volevo assaggiare il risotto alla milanese ma quei cazzo di picciotti avevano prenotato al siciliano. Sempre e solo le cose di casa come i nostri nel Jersey.

Le lasagne cacate erano ai livelli di quelle di zia Concetta, c’eravamo abboffati alla grande con cassata e zibibbo finali, e mi sentivo appesantito. Ma non c’erano problemi. Avevo portato a termine lavori in condizioni peggiori. Come quella volta che mi assentai dal matrimonio di Gino Joe Picone per far fuori quei quattro armeni del cazzo. Mi allontanai appena finiti i secondi e tornai in tempo per la torta.

Il SUV rallentò, abbassò il finestrino, il bazooka fece capolino e sputò il suo catarro di fuoco. Il portone si accartocciò come una lattina di birra.

Quasi immediatamente cinque bestioni in vestito blu sbucarono dal fumo dell’esplosione come sorprese dalla torta e cominciarono a sparare verso il fuoristrada in accelerazione.

Da quel momento in poi dovevo fare in fretta. Per quanto lenti e sfaticati anche gli sbirri italiani non avrebbero tardato a recarsi sul luogo di un’esplosione. Non avevo più di cinque minuti.

Mi arrampicai e saltai oltre il portoncino laterale lasciato incustodito. avanzai rapido tra gli alberi.

Un sacco di grossi body guard uscivano di casa e si affannavano verso l’esplosione.

Entrai da una finestra. Cazzo! Ne avevo viste di case pacchiane frequentando i Boss della mafia italo-americana. Ma quella zona giorno era veramente il museo degli orrori. Mobili barocchi, legni esotici, radica, marmi, alabastri, dorature, laccature, stucchi, affreschi, tende di raso e pizzo, una tigre a grandezza naturale in porcellana, zanne d’elefante intarsiate, un pianoforte bianco, statue e quadri antichi, piante carnivore, la gomena di una nave, un bisonte impagliato, pelli d’orso e tigre, un sarcofago egiziano che sembrava autentico.

Insomma, un sacco di roba costosa ammucchiata a cazzo. C’era perfino un enorme ritratto ad olio del cavaliere seduto in posa napoleonica con mano dentro la giacca, con tutta la famiglia dietro in piedi. Un tipetto di buon gusto, non c’è che dire.

Mi nascosi dietro il bisonte e attesi che gli ultimi due scagnozzi uscissero dalla stanza. Poi mi lanciai su per la scalinata.

Cazzo! Pareva non finire mai, sembrava quella di Piazza Navona a Roma. Sentivo l’agnello al forno risalirmi l’esofago.

Non feci in tempo a far l’ultimo scalino che altri due gorilla sbucarono dall’angolo. Un piede sullo scalino e uno al piano mi misi in posizione e FUUT, FUUT. Un buco a testa, letteralmente. Gli schizzi rossi incasinarono ancor di più il contorto ricamo delle tende. I due si accasciarono abbracciati come amichetti del cuore. Voltai l’angolo e me ne trovai un altro a un palmo dal naso, era alto due metri e dal basso del mio metro e sessanta gli sparai sotto il mento. FUUT.

La calotta cranica gli uscì da sopra come il tappo di un barattolo di conserva con tutto il pomodoro al seguito.

Bastava seguire all’inverso la strada da dove arrivavano tutti quei cloni dell’agente Smith per arrivare dal Boss.

Un’altro angolo. Mi fermai a ricaricare poi svoltai. Erano in cinque, arma alla mano, davanti alla porta. Bingo. Mi accasciai a terra sentendo sfrecciare i proiettili sopra i capelli come piccoli pirana supersonici a caccia di carne.

FUUT, FUUT, FUUT, FUUT, FUUT.

Ok mi allenavo spesso con le sagome al poligono, e anche su corpi veri se per quello.
Ma quella non poteva essere solo bravura. Ne ero convinto. Lassù qualcuno tifava per il vostro beniamino!

Tutti e cinque quegli stronzi si accasciarono uno sull’atro a strati come una lasagna. Sfondai la porta con un calcio e mi trovai altri tre cazzoni a far muro davanti ad una scrivania.

La scarica di piombo massacrò le ante di rovere dietro di me.

Mi buttai dietro una poltrona e mi diedi un’occhiata. Neanche un buco. E voi insistete a dire che non è culo questo?

Uscii appena di lato rilasciando nell’aria una tonnellata di piombo silenziato.

I corpaccioni sforacchiati si abbassarono come un sipario al contrario rivelando il cavaliere che mi puntava addosso un revolver calibro 38 al riparo dietro la scrivania.

“Posso pagarti più di quanto tu possa immaginare”. Bernardoni era uno che andava dritto al sodo.

“Ah davvero? e come fai? non è che posso andare in banca con un tuo assegno dopo questo casino” anch’io comunque riuscivo a valutare il lato pratico anche in situazioni di stress.

“Contanti, ne ho una montagna la dentro” disse indicando con la pistola una vecchia cassa che sembrava quella dei pirati posta tra la scrivania e la poltrona dietro alla quale mi stavo riparando.

“E come facciamo se esco tu mi stendi”.

“Non se accetti l’accordo”.

“Chi mi garantisce che manterrai l’accordo”.

“Ti devi fidare. Lo stesso vale per me. Non ci sono molte alternative”.

“Facciamo così: al tre buttiamo tutti e due le pistole a terra davanti al caminetto.

Dopodichè io mi prendo i soldi e telo. OK?”.

“Affare fatto!”.

“Uno, due , tre!”.

La sua 38 e la mia gloch si scontrarono davanti al caminetto. Mi alzai e aprii la cassa. Cazzo! Era piena zeppa di banconote da 500 euro.

Presi una valigetta di cuoio dalla scrivania e la riempii.

“Chi ti manda?” chiese il cavaliere.

“I tuoi vecchi amici”.

“Ne ho parecchi di vecchi amici”.

“I più vecchi di tutti”.

“Allora mi sa che non finisce qui”.

“Infatti. Forse è meglio se ti tolgo il pensiero”

“Estrassi la piccola beretta compatta dalla tasca e gli spari al cuore”

“Ma che cazz… Ti ho pagato”.

“hai ragione. Sono prorpio uno stronzo”.

“…”.

“Uno stronzo fortunato”.

Uscendo mi accorsi che uno dei body guard era ancora vivo e stava lanciando l’allarme dall’auricolare stile Matrix che aveva all’orecchio.

Porca puttana! ce ne saranno stati almeno una quindicina di cloni la fuori!

Mi lanciai seduto sul corrimano della scala e in un lampo fui di sotto.

Lo squadrone di agenti Smith arrivò in massa armi in mano e avanzarono coprendosi fino alla scalinata. Dopodiché la risalirono a squadre di tre sempre controllando l’area.

Appena furono saliti tutti uscii dal sarcofago, feci partire la chiamata dal cellulare, mi avviai all’ingresso e arrivai in strada dove arrivò il SUV che mi riportò a Milano.