La bambina e il nazista, la recensione di Linda Talato del romanzo di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli.

La bambina e il nazista, recensione
  • Titolo: La bambina e il nazista
  • Autori: Franco Forte e Scilla Bonfiglioli
  • Editore: Mondadori
  • PP: 312

«Mio caro Hans», gli sussurrò Meyer mostrandogli i palmi sporchi, la terra incastrata sotto le unghie. «Cosa stiamo facendo? In nome di Dio, cosa stiamo facendo?»

Ho atteso un po’ prima di leggere La Bambina e il Nazista (Mondadori) di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli e non perché non reputassi degne di interesse le tematiche trattate dagli autori – lo sterminio sistematico perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei e di quelli che venivano considerati nemici del Reich – ma perché pensavo di aver letto e visto abbastanza sul tema, tanto da potermi permettere di “accantonarlo” per un momento.

Mi sbagliavo. Per due motivi, il primo è che di certi argomenti non si parla mai abbastanza e riescono sempre a riaccendere quella fiammella che è in noi, e il secondo è che Forte e Bonfiglioli riescono a creare un punto di vista a mio parere originale su quella che è una delle pagine più tragiche della storia contemporanea.

“Originale perché?” Vi starete chiedendo. Spero di riuscire a trasmetterlo nel modo giusto, perché da un punto di vista strettamente narrativo – quindi al netto di tutte le riflessioni storiche e umane che si possono fare – è ciò che fa scattare quella specie di molla presente in ogni lettore e che ti fa pensare “ah, però…” 

È la conquista più difficile per uno scrittore: catturare l’interesse e mantenerlo, senza spezzare mai la “sospensione dell’incredulità”, che vale anche per le opere a sfondo storico e ispirate a fatti realmente accaduti.

Cambio di prospettiva

E come fanno, i nostri?  Lo fanno “girando”, passatemi il termine, il focus dalla vittima – gli ebrei o comunque i prigionieri dei lager, in questo caso – al carnefice.

Il punto di vista principale della narrazione non è più quello di chi soffre, ma di chi si trova costretto, a volte pure suo malgrado, a infliggere questa sofferenza. E qui si apre un mondo, che va dai Processi di Norimberga a tutte le implicazioni correlate ai crimini contro l’umanità ma, soprattutto, si apre un mondo nell’animo del lettore, che per una volta non si metterà più soltanto nei panni della vittima, ma pure del carnefice, chiedendosi “e se fossi stato io, al posto del protagonista, cos’avrei fatto?” 

Perché, diciamocelo, Hans Heigel, nel momento storico in cui si svolgono i fatti, sta lavorando. Deve attenersi agli ordini che provengono da Berlino e al controllo di capi nazisti spietati non solo con i prigionieri, ma pure con i sottoposti che manifestano umanità e pietà verso di questi.

Il rischio di trovarsi non solo senza lavoro, ma pure giustiziato per alto tradimento, è dietro l’angolo. Per questo alcuni, come il protagonista appunto, sceglieranno di lottare fino alla fine, anche mettendo a repentaglio la propria vita e compiendo scelte dolorosissime; altri, invece, non riusciranno a reggere l’orrore quotidiano dei lager, e se la toglieranno, la vita.

La bambina e il nazista, il romanzo

Dopo questa premessa, ripartiamo dall’inizio con qualche dovuta informazione sulla trama.

Come avrete ormai inteso, siamo in Germania, nel 1943. Hans Heigel è un ufficiale di complemento delle SS nella piccola cittadina di Osnabrück. Svolge un lavoro prevalentemente impiegatizio e sin dal principio si capisce come il protagonista non condivida l’aggressività con cui il suo Paese si è rialzato dalle ceneri della Prima Guerra Mondiale.

Tuttavia, riesce a ritagliarsi il suo personale angolo di serenità con la famiglia, l’amata moglie Ingrid e l’adorata figlioletta Hanne, nella speranza di poter continuare a vivere così, macchiandosi il meno possibile con il dramma.

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che Hans non è un eroe: non sa combattere né ci tiene a farlo, spesso ha paura e si fa prendere dallo sconforto… Insomma, è un uomo comune, ma proprio questo suo essere così “comune” lo rende ancora più vicino al lettore, come se fosse una sorte di “eroe del quotidiano”.

Tutto cambia quando arriva la fase della cosiddetta “chiamata”, ovvero quando la storia costringe il protagonista a uscire dalla sua “comfort zone” e agire. Hanne si ammalerà di tubercolosi e morirà, lasciando Hans e Ingrid piegati dal dolore, e a questa fase seguirà direttamente quella del “varco della prima soglia”, quando Hans verrà inviato al campo di concentramento di Sobibór, e successivamente in quello di Majdanek dove, a mio parere, entrerà nella fase di “avvicinamento alla caverna più profonda”.

A Majdanek, infatti, avrà luogo quella che gli ufficiali nazisti chiameranno la Festa della Mietitura, che a me personalmente ha fatto pensare a una versione orribilmente tragica dei Fuochi di Beltane…

Uno strato di morti, uno strato di terra. E poi ancora morti, e terra, e morti. 

Presto le enormi fauci di Majdanek furono saziate, colmate fino all’orlo. 

Di notte le sepolture si gonfiavano. Come se i morti cercassero pace, oppure provassero a rotolarsi sui fianchi o sulla schiena, per mettersi più comodi in quel loro sonno sinistro. Le fosse ricolme si sollevavano, per riabbassarsi all’alba liberando miasmi di morte. 

Majdanek respirava.

Ciò che terrà in vita Hans in mezzo all’orrore quotidiano sarà un’ideale più alto, una sorta di missione: salvare dalla morte Leah, una piccola prigioniera conosciuta a Sobibòr e che tanto somiglia alla defunta figlia Hanne.

Angeli e demoni senza stereotipi

In quest’opera ho ritrovato qualcosa che mi era particolarmente piaciuto in un altro romanzo letto di recente, Romolo il Primo Re, scritto sempre a quattro mani da Franco Forte, stavolta con Guido Anselmi, ovvero la caratterizzazione dei personaggi femminili.

Anche qui, scordiamoci angeli del focolare – neppure la dolce Ingrid lo è del tutto -, fragili fanciulle e figure stereotipate: qui le donne sanno essere crudeli quanto gli uomini, anche di fronte ai più piccoli.

I bambini vennero uccisi a ondate. Divisi in gruppi, erano stati portati in fila al Blocco 41 e fatti passare per l’anticamera, dove venivano loro tagliati i capelli.

«Raccoglieteli» intimavano i poliziotti ai sonderkommando. «Metteteli nei sacchi, li porteremo via con noi.»

Capelli da una parte e abiti dall’altra. Quello che rimaneva dei bambini – ebrei o figli di ribelli, di prostitute ancora chiuse nella baracche, di partigiani o mogli di soldati – non erano altro che pelle e ossa che venivano mandate sotto le docce.

Alida Haller, Kobyla e le “valchirie”, come vengono chiamate le ausiliarie, bersagliavano le prigioniere di atti orribilmente crudeli per puro divertimento, senza alcuna pietà, e agivano in gruppo, unite nella loro ferocia.

Kobyla e le sue cavalle pazze avevano eletto i blocchi femminili a loro personale riserva di caccia. Chiudevano i cancelli per “andare a divertirsi con le ragazze” e lo bersagliavano con sorrisi crudeli, se lui osava avvicinarsi troppo. A malincuore fu costretto a desistere, ripromettendosi di cercare Larysa quando Alida Haller e le sue valchirie si fossero ritirate nelle loro tane.

Allo stesso modo, non mancano personaggi femminili positivi e di grande valore, quali l’inserviente ucraina Larysa e la pittrice Margaret Kien, figure forti e disposte a giocare pesante tanto quando i “colleghi” uomini pur di difendere ideali di libertà e giustizia.

Personalmente, ritengo che per un autore sia molto più complesso costruire personaggi fatti in un modo piuttosto che in un altro sulla base della propria individualità di esseri umani, piuttosto che percorrere le facili strade già preconfezionate degli stereotipi.

Un finale perfettamente riuscito

Molto ben costruito anche il finale de La bambina e il nazista, che lascia il lettore soddisfatto senza però risultare troppo scontato, anzi: devo ammettere che ho avuto qualche perplessità sino alla fine sul coronamento romantico del rapporto tra Hans e la moglie, messo a dura prova dai tragici eventi esterni, invece l’epilogo è stata una fra le cose che ho apprezzato di più.

Fai tutto quello che puoi per tornare da me, Hans. Come in quella canzone che ascoltavamo insieme, ricordi? “Quando ci incontreremo vicino al lampione, come una volta Lili Marleen, Come una volta Lili Marleen.”