Due fratelli che si odiano, si trovano di fronte a una misteriosa casa bianca con le finestre senza tende, nere come l’abisso. Una vendetta esemplare li attende.
«Dai cretino, andiamo in fondo al sentiero che c’è uno spiazzo per mettere su una porta e giocare.»
«Non mi chiamare cretino, Cain! Lo sai che la mamma non vuole che andiamo laggiù. Ci sono gli animali pericolosi».
Mio fratello era più grande di me di sei ed era prepotente, mi prese per la collottola e mi tirò uno schiaffo sulla nuca.
«Non-mi-chiamare-Cain. Hai capito bene, cretino? Il mio nome è Joel».
Non era vero: si faceva chiamare Joel perché non gli piaceva il nome Cain. Io continuavo a chiamarlo così, comunque.
«Lasciami! Lasciami o lo dico alla mamma!»
Si mise a ridere e mi lasciò andare.
«Sì certo. Nasconditi sempre dietro alla gonna della mamma».
Chiuse le dita della mano a mo’ di ananas e me la sventolò davanti alla faccia.
«Ma quali animali pericolosi? Non ce ne sono in questa pineta. Non lo so perché la mamma non vuole che andiamo laggiù, forse ha paura che ci perdiamo. Dai usa la testa, cretino: come facciamo a perderci se sappiamo dov’è il sentiero?»
Rimasi davvero come un cretino, con la bocca aperta. Cain aveva ragione. Come sempre. Era il mio fratello maggiore e aveva più esperienza di me. Cominciò a correre ed entrò nella pineta ombrosa, lungo il sentiero che aveva indicato. Dopo qualche secondo spuntò dalle frasche, mentre ero ancora immobile.
«Ti muovi o vuoi un altro schiaffone?»
Non mi rimase che seguirlo.
Qualche passo avanti a me, Cain faceva rimbalzare la palla mentre camminava. Io invece ero terrorizzato dalle fronde ombrose sopra di noi. Ma come faceva mio fratello a fregarsene e pensare solo a giocare a pallone? Non vedeva anche lui quello che vedevo io?
Giganti che si abbassavano dagli alberi per tentare di ghermirci e arpie che volavano più in alto in attesa dei nostri corpi succulenti. Probabile che fossi io ad avere le visioni e un’immaginazione un po’ troppo sviluppata per la mia età.
Lo seguii guardandomi attorno e facendomela sotto. Quasi. Non potevo farmi prendere in giro ancora da Cain facendolo davvero, quello mi dava il coraggio di attraversare la pineta che ora pullulava di tigri affamate e gnomi armati di lunghi coltelli.
Coraggioso come i miei eroi dei fumetti proseguii imperterrito alle spalle di mio fratello, che continuava a palleggiare alzando la polvere sabbiosa del sentiero.
Lo spiazzo a cui aveva accennato Cain non era molto lontano e io vi arrivai col fiatone. Cain stava già costruendo la porta con dei rami secchi posizionati per terra a circa cinque metri uno dall’altro.
«Che ti avevo detto, cretino? Qui c’è molto più spazio per prenderti a pallonate» rise della grossa. «Adesso mettiti in porta che comincio a tirare i miei migliori rigori».
«Cain, c’è qualcuno in quella casa laggiù?»
«Non chiamarmi Cain, ti ho detto» e si girò a guardare dall’altra parte dello spiazzo.
«E tu non chiamarmi cretino» ripetei, mentre il mio sguardo era fisso sull’edificio di un solo piano, con un enorme garage di lato e un bel prato ben curato all’ingresso.
Era una casa completamente bianca. Assomigliava a quelle che si vedevano nei telefilm come Happy Days o, ancora peggio, Una Mamma per Amica, con protagoniste le isteriche Lorelai Gilmore senior e junior, madre e figlia.
Una casa bella, sontuosa ma per me tanto tanto inquietante. Le finestre erano buchi nella mia mente, mi penetravano come un trapano a percussione. Era la mancanza di tende che mi colpiva, aperture nere come la pece nella parete, parevano occhi bui che mi osservavano. Osservavano me, non mio fratello. O forse era la mia impressione.
Mi arrivò una pallonata in faccia che mi distrasse in modo traumatico dai brutti pensieri. Meno male, altrimenti mi avrebbero sopraffatto.
«Sei cretino o cosa? Vedi che è vero che lo sei? Ti sei imbambolato a guardare ‘sta casa abbandonata, adesso» disse Cain andando a riprendersi il pallone. «Prendi due rami e fai una porta, dai. Non c’è nessuno in quella casa, cretino».
Oltre a insultarmi riusciva a essere parecchio irritante, quando voleva.
«Non chiamarmi cretino, ti ho detto!»
Rimasi impietrito. Un movimento fugace e due punti di luce rossa attraversarono una delle finestre, ombra nell’ombra. Subito tornò a essere una finestra vuota e nera in mezzo al bianco della parete esterna, senza l’inquietante presenza di alcuna tendina. Era ben altra invece, l’inquietante presenza che mi sembrava di aver visto. Puntai l’indice verso la casa mentre Cain sbuffava e palleggiava.
«C’e’ qualcosa in quella casa, o qualcuno. L’ho visto che mi guardava dalla finestra».
Cain mancò l’ultimo palleggio e il pallone rotolò via verso la porta d’ingresso dello strano edificio in stile New England.
«Uffaaaaa! Ma che cavolo dici, cretino? Non è possibile: in quella casa non c’è nessuno. La mamma ha detto che è abbandonata da un sacco di anni. Sarà un animale che ha trovato rifugio lì dentro».
Guardai Cain e ancora la casa. Poi ancora lui e il pallone che rotolava fino ad andare a fermarsi contro le scalette che portavano all’ingresso, un tacito invito a seguirlo per riprenderlo e… a entrare. Il mio sguardo passava da lui al pallone e viceversa, una partita di ping pong veloce come il mio respiro terrorizzato.
«Ah sì? Così ti ha detto la mamma? Perché a me non ha mai detto niente?» Cain fece spallucce. «E perché invece ha detto di stare lontani dal bosco?»
Corsi a prendere il pallone, nonostante fossi spaventato per il veloce movimento che credevo di aver visto. Il mio odioso fratello raccolse una pietra dal terreno e me la lanciò.
«Vedi che sei proprio un cretino? Sei anche un mammone se lo vuoi sapere: dai troppo retta a quello che dice la mamma».
Con il viso contorto in una smorfia di rabbia, mi puntò l’indice contro. «Da quando è andato via papà è diventata tutta matta. Ha paura della sua ombra ed è tutta colpa tua. Cretino!»
Non ci vidi più, un flusso di sangue mi arrivò al cervello e davanti a me divenne tutto rosso. Tirai un calcio al pallone per colpirlo e fargli male. Molto. Non vi riuscii perché sbagliai la mira e la forza con cui tirai il calcio. Non lui però. Dopo due rimbalzi, Cain colpì il pallone con forza e feci appena in tempo a scansarmi.
La sfera proseguì il suo volo contro la finestra alle mie spalle.
Sì, la finestra senza tende con un buio infinito e spaventoso dentro. Il vetro andò in mille pezzi con un fragore che parve l’esplosione di una bomba atomica in mezzo ai rumori lievi del bosco.
«Guarda cosa hai combinato. Meno male che non c’è nessuno» disse mio Cain, incolpandomi dell’accaduto.
«Adesso è colpa mia. Chi ha dato il calcio al pallone?»
«Cretino, tu me l’hai tirato contro. Adesso vai a prenderlo lì dentro prima che arrivi qualcuno!»
«Io? No no. Ho visto muoversi qualcosa dietro la finestra prima che tu ne rompessi il vetro. Te l’ho detto».
Cain sbuffo’ e si avvio verso la finestra.
«Sei proprio un fifone, cretino. Come te lo devo dire che non c’e’ nessuno? Dobbiamo sbrigarci pero’: il vetro rotto ha fatto rumore e forse arrivera’ qualcuno».
«Vai tu a prendere il pallone, allora?»
«Certo, fifone. Entro ed esco, dobbiamo fare in fretta. Aiutami a salire, forza».
Cain si arrampicò sul bordo della finestra con i vetri infranti e lo sostenni, spingendolo verso l’alto. Fu l’ultima cosa che fece mio fratello.
Scivolò sul davanzale e rimase infilzato su un grosso spuntone di vetro a forma triangolare, che gli recise di netto la testa. Un fiume rosso, sangue caldo pulsante di vita che stava per scomparire, mi si riversò addosso ricoprendomi quasi per intero.
Rimasi senza fiato e prima che comprendessi cosa fosse davvero accaduto passò del tempo. Il corpo di Cain era sopra di me e dopo un’ultimo fremito rimase fermo, floscio come un sacco vuoto.
Riuscii soltanto a dire: «Joel?»
Una figura femminile eterea, quasi trasparente, con gli occhi rossi brillanti e tremolanti, mi comparve davanti quando mi allontanai dal corpo di mio fratello.
Non riuscii a pensare alle conseguenze di quel che era accaduto, o a mia madre. Non riuscii a pensare a nulla se non a guardare la donna dai lunghi capelli biondi davanti a me. Si avvicinò e quando fu a qualche centimetro da me mi accorsi che non era una donna. Anzi, non aveva sesso.
La veste bianca, candida come il latte e lunga fino alle caviglie, non faceva intravedere alcun gonfiore particolare, nè seno o tantomeno genitali. Alzò lentamente una mano verso di me, quasi a racchiudere il mio piccolo e spaventato viso. Non aprì bocca ma nella mente sentii chiare le sue parole.
“La storia si ripete, bambino. Sono qui per te, ti attendevo dentro questa casa dalle finestre senza tende, che sono ingressi verso un luogo diverso.”
Tossii violentemente, sputando il sangue di mio fratello che mi era arrivato tra le labbra. «Tu-tu chi o cosa sei?» balbettai.
Non ero spaventato per la morte di Cain o dal suo sangue con cui ero imbrattato da capo a piedi, ero terrorizzato dalla specie di fantasma telepatico che avevo davanti.
“Io sono l’Angelo che ti darà la Luce, quando verrai dentro questa casa con me. Il cerchio si è chiuso. Alla fine, dopo un infinito tempo, hai ripagato tuo fratello con la stessa moneta.”
Cominciai a tremare. «Io non ho fatto nulla: è scivolato».
L’angelo si mise un dito ossuto davanti alla bocca e questa volta parlò con voce algida, senza tono. «Shhhhh, lo so. Lo so. Non tigiustificare con me, lo so che ti sei spostato un pochino per farlo cadere. Il cerchio si è chiuso, l’odio e la vendetta dei due fratelli hanno trovato il loro termine».
Mi prese per mano, era freddo come la morte. Aveva ragione, per tutta la rabbia che avevo provato forse lo avevo fatto scivolare di proposito.
«Vieni, andiamo a vedere dove è finita la testa di tuo fratello Cain».
Lo seguii come ipnotizzato verso l’ingresso della casa bianca. Parlai con voce spezzata, terrorizzata, ma non riuscivo a staccarmi da lui. Non riuscivo neanche a piangere, non volevo vedere la testa mozzata di Cain.
«Chi sei? Dove mi porti? Devo tornare dalla mamma».
«Oh la mamma non avrà più bisogno di voi due figli cattivi. Te l’ho già detto: sono l’Angelo che ti porterà la Luce, dentro la casa dalle finestre senza tende. Andremo in un posto dove starai bene, ci sara’ tanto caldo».
Dalla schiena gli spuntarono delle bellissime ali che dispiegò in tutta la loro maestosità, soltanto che erano nere come il buio più spaventoso.
Mi tirò con sé, il tono della sua voce diventò duro. Non ero più abituato a sentirmi chiamare con il mio nome. Cain mi aveva sempre chiamato “cretino”.
«Vieni: non c’è più tempo, Abel».