La mia unica speranza è Lucchetta.

Invece quello se ne sta seduto a divorare il baccalà nello stesso modo in cui i suoi compari si stanno mangiando il futuro di mio figlio.
“Ha sentito che roba stamattina?” ho detto, esasperato dal suo silenzio sicuramente pieno di sott’intesi.
“Che cosa avrei dovuto sentire?”
Il suo modo forbito di parlare che aveva sempre dato ai nervi.
E con le donne poi aveva un fare da cascamorto.

Tipo una sera, saranno stati tre anni prima, si era presentato verso l’orario di chiusura assieme ad una signora impellicciata. Mi pare che fosse autunno. Sì era autunno. Ottobre. Non era un freddo da pelliccia però la signora pareva una di quelle che seguono le stagioni sul calendario più che sul termometro. Entrano che il ristorante è chiuso da un ora. Eravamo rimasti solo io e i cingalesi in cucina.

Avevo fatto l’errore di non chiudere la porta del bar, un errore che commettevo spesso forse perché mi risultava sempre difficile mettere la parola fine ad una giornata di lavoro.

“Una bottiglia di champagne. Ha del Dom Perignon? O cosa mi consiglia? Visto che è lei l’esperto. Tutto quello che vuole. Perché per questa donna non si bada a spese.”

Avrei voluto vomitare. Poi pensai. Hai voglia di giocare pesante? Vuol dire che ci divertiamo.

“Ho una Grand Dame Rose del ’90 se proprio vuole qualcosa di particolare.”
“E vada per la grande dama rosa.” Fece Lucchetta con il suo sorriso da piano bar.
La donna annuì, ma non sembrava intenzionata a togliersi il visone.
“E per mandarlo giù. Fine de Claire?”
“Belon du Belon.”
“Fatta, oste della malora.”
Non mi crederete se vi dico che sono rimasti fino alle tre. Lui a toccale la mano, lei a sbattere le palpebre senza però permettergli di avvicinasi.
La loro serata si concluse con un nulla di fatto.
Lucchetta però non si diede per vinto e mi domandò di fargli una copia del CD di Rossana Casale che avevo messo di sottofondo prima del loro arrivo e che mi aveva costretto a far ripartire almeno cinque volte.
“La colonna sonora di una serata indimenticabile. Seducente. E infinitamente triste…”
Perché non te la vuole dare, pensai passandogli il CD.
“Sono novecentotrenta euro. La musica la offre la casa.”
Nonostante fosse un po’ alticcio Lucchetta subì il colpo.
La donna tuttavia sembrava impressionata. Forse un altro paio di cene e chissà…
“Non serve la fattura.” Propose intimorito.
“Facciamo ottocento tondi tondi.”
Proposta standard.
E lui che fa? Tira fuori la carta di credito.
Che gli posso dire? In nero si accettano solo contanti?
I clienti che si rispettano lo sanno già, ma come vi ho spiegato lui non fa parte della categoria.
Sicuramente ottocento così sull’unghia non li aveva e probabilmente se gli dicevo di portarmeli la volta dopo non lo avrei più rivisto.
Firmò e se ne andò meno pimpante di quand’era entrato. Ebbi come l’impressione che ai suoi occhi anche la signora in visone avesse perso interesse.
Per alcuni mesi non si fece vedere.

Poi ricomparve con un’altra stangona. Questa volta una di quelle che si pagano in anticipo.
Stesso tono da cascamorto.
Stessi discorsi esistenziali.
Conto decisamente meno salato – se non sbaglio da quella volta si è votato al Franciacorta.
E così via fino a quella sera in cui gli ho spaccato la testa con il Soave.

Vi dicevo però che avevo bisogno di un pretesto per far discussione visto che non riuscivo ancora a dimenticare la faccia trionfante di quello là in parlamento che non si è neppure degnato di stringere sportivamente la mano al suo ex-compare.

“Come sentire cosa…?!” gli ho detto, indignato. “Quel cancaro si è preso la fiducia. Per tre voti!” Il mediatore mette in bocca un’altra forchettata di baccalà sforzandosi di trattenere un sorriso di sfottimento.
Simile a quello del suo padrone.
Dalla rabbia sono costretto a ritirarmi in cucina.
Mariella stava aspettando solo che le dicessi di andare visto che i lavapiatti li avevo mandati via già a metà serata.
Quelli però li pagavo a ore.

“Fammi una frittura mista.” Le dico giusto perché non sopportavo di vederla ubriacarsi a spese mie. Mariella si alza, indossa il grembiule e si mette a cucinare.

Mi siedo nella sala ristorante deserta e mi metto ad osservare Lucchetta che sorseggia il Franciacorta.

Chissà come si deve sentire appagato.

La disonestà ha trionfato di nuovo. E quelli come me, che non hanno mai dimenticato di pagare le tasse, che sgobbano dalla mattina alla sera, se ne stanno seduti da soli nel loro ristorante da duecentomila euro di arredamento, con la cantina piena di tre bicchiere che nessuno viene più a bere solo perché una famiglia di bovari aveva avuto la diarrea.

Invece di far chiudere bottega a quello che me li aveva venduti, i frutti di mare.

L’Italia è un paese così. Dove ci rimettono sempre quelli che non possono difendersi.

Difendersi da tipi come quello là a Roma. E come quell’agente immobiliare che sicuramente le tasse le pagherà un anno sì e uno no.

La pendola batte le undici.

Avevo sbeccottato la frittura di malavoglia. Non che non fosse buona. Era sublime perché alla Mariella pago tremila euro in busta mica per grattarsi. Avevo aperto una bottiglia di Pieropan e me l’ero bevuta tutta, come fosse stata acqua minerale.

Mi ero fatto portare una fetta di tiramisù alla zucca a cui avevo accompagnato una mezza di Muffato delle Sala.

Lucchetta aveva finito da un pezzo. Se ne stava là al bar, a sorseggiare il suo spumante giocherellando con l’Iphone.

Probabilmente stava seguendo le notizie politiche, il grande fratello o più probabilmente mandando un messaggio al suo spacciatore di cocaina.

Quelli come lui sanno sempre come trarre vantaggi dalla tecnologia.

Io l’Iphone e tutte quelle diavolerie da perditempo non me le sono mai volute comprare. Io lavoro, che credete, che mi rimanga tempo di prendere a ditate una mattonella di plastica?
“Posso andare ora?”
La Mariella si era già data il permesso di cambiarsi.
Le rispondo annuendo. Se solo l’avessi guardata in faccia mi sarebbe rimasto il dolce sullo stomaco.
Vado in cucina a lavare i miei piatti e penso al mio futuro.
Ai primi di gennaio avrei dovuto affrontare la realtà. L’inventario avrebbe messo nero su bianco il mio fallimento.
E mi avrebbe costretto a prendere una decisione inevitabile.

Chiudere con infamia.

Io che avevo creato il migliore ristorante di Venezia, un posto che per anni era stato celebrato da tutte le guide del mondo, tranne la Michelin.