A Marsiglia con un amico, un consiglio di viaggio (tra mille suggestioni letterarie) di Francesco Rigoni per Sugarpulp MAGAZINE.

Devo darti un consiglio, e confessarti un segreto. Comincio dal consiglio: Marsiglia. La prossima vacanza, gita, occasione: Marsiglia.

Dal cielo al mare è un’infinita varietà di blu. Per il turista, quello che viene dal nord, dall’est o dall’ovest, il blu è sempre blu. Solo dopo, quando ci si sofferma a guardare il cielo e il mare, ad accarezzare con gli occhi il paesaggio, se ne scoprono altre tonalità: il blu grigio, il blu notte e il blu mare, il blu scuro, il blu lavanda. O il blu melanzana, nelle sere di temporale. Il blu verde. Il blu rame del tramonto, prima del mistral. O quel blu così pallido, quasi bianco.

Lo vedi bene dal punto più alto della città: Notre Dame de la Garde. La bonne mère. È una figura emblematica, che protegge i marinai, i pescatori e tutti i marsigliesi. Struttura di stile romanico-bizantino con cupole e policromia delle pietre, ori, mosaici; risponde perfettamente al programma delle grandi costruzioni intraprese a Marsiglia sotto Napoleone III. Da qui si può ammirare, dalla collina più alta della città, un panorama meraviglioso.

Marsiglia è la storia di un porto

Le città di mare spesso fanno storia a sé, ma – per certi versi – sono anche tutte uguali nella loro diversità. Nelle città cresciute attorno ad un porto vigono regole diverse rispetto agli altri posti.

Il cuore che batte nei porti è quello dei marinai, dei pescatori, dei commercianti, degli immigrati. Sempre. Per forza. Le città portuali sono – devono essere – città vive, col cuore pulsante. Un cuore che ha bisogno di essere giovane, forte, pronto a tutto. Poco importa a che spese.

Il corpo di queste città molto spesso è lacerocontuso, sfregiato, come il viso di Al Pacino in Scarface. È un corpo che ne ha passate di tutti i colori. Che ne ha viste di tutti i colori. Che ha visto cose che voi umani. Ma il cuore è un cuore in forma.

Perché il sangue che ci scorre dentro è di quello più duro a morire. Sangue che ha fatto il giro del mondo più volte. Sangue che viene dal mondo. Sangue sempre fresco. Sangue meticcio.

Se ne dicono tante, sempre. In questa città si radunano in un unico luogo tanti viaggi, sogni, lacrime versate e orizzonti lontani. Ogni storia viene nutrita da altre storie. Più misteriose. Più segrete. Sennò, è un semplice fatto di cronaca, e non vale un fico secco.

Un porto antico

In francese Marsiglia è soprannominata cité phocéenne perché venne fondata nel 600 a. C. da marinai greci originari di Focea (un posto vicino all’attuale Smirne, in Turchia). Fin dalla sua fondazione i focesi – gli abitanti di Marsiglia – hanno avuto un legame diretto e indissolubile con il mare. Alcune proposte etimologiche fanno derivare il nome della città da Mas-Alieus, cioè “casa di pescatori” o “casa dei venti”. Marsiglia e il Mediterraneo sono una cosa sola.

Marsiglia è prima di tutto un porto, con le merci, gli scambi e i viaggi che ne sono l’anima. È il primo porto francese e il sesto del Mediterraneo per importanza.

Chiunque abiti sulle sponde del Mare Nostrum ha qualche antenato che è passato per il Vieux Port. E che – in un modo o nell’altro – ha lasciato il segno del suo passaggio, contribuendo a plasmare il DNA di una città che fin dalla fondazione trae vantaggio dall’incrocio di culture.

Il Panier è il quartiere più antico della città. Era il quartiere degli immigrati, soprattutto italiani, soprattutto del Sud. Sui campanelli delle case ancora oggi sono molti i cognomi che finiscono per -a o per -o. Dal balcone escono le note di Renato Carosone che canta Chella llà. Qui è dove ognuno di noi può facilmente trovare un pezzo di sé.

In giro per Marsiglia

Per farti un’idea rapida prendi l’autostrada del Littoral, dalla parte dei porti. Solo per vedere le banchine dall’alto della passerella. Costeggia le darsene e offriti il lusso delle luci dei traghetti all’ormeggio. I sogni di tanti sono ancora là. Intatti. In quelle barche pronte a tirare su l’ancora. Per altri lidi. Africa, Asia, America del Sud.

Imbocca il tunnel del Vieux-Port, per uscire sotto il forte Saint-Nicolas. Di fronte al vecchio bacino di carenaggio costeggia il quai de Rive-Neuve. Nell’ora in cui Marsiglia si agita. In cui ci si chiede quale zuppa si mangerà, la sera. Antillese. Brasiliana. Africana. Araba. Greca. Armena. Vietnamita. Indiana. Provenzale. O delle Isole Réunion. C’è di tutto nel calderone marsigliese. Per tutti i gusti.

Rue Francis-Davso. Imbocca Rue Moliere, costeggiando l’Opéra, rue Saint-Saens, a sinistra, rue Glandeves. Di nuovo al porto. A due passi dall’hotel Alizé.

Verde. Arancione. Rosso. Di nuovo verde. Percorri boulevard Michelet senza fermarti. Ad alta velocità attraversa l’incrocio di Mazargues. Dopo Redon e Luminy imbocca la D559, una strada piena di curve: stretta e pericolosa. Direzione Cassis. Passando dal colle della Gineste. Il classico percorso dei ciclisti marsigliesi. Da li partono diversi sentieri per le calanques: le più belle calette di tutta la Provenza, piccole insenature di roccia bianca affacciate su un mare cristallino.

L’essenza del Mediterrano

Il Mediterraneo si vede, si annusa e si sente ad ogni passo. La storia di questa città è legata al mare ma non solo: anche l’industria ha giocato un ruolo fondamentale. Fra il 1945 e il 1975 la crescita economica attira in città più di 300 mila persone da ogni angolo di Francia, rimpatriati d’Algeria e immigrati.

Negli anni Sessanta Marsiglia conosce una profonda ricomposizione sociale, una mescolanza di genti che finiscono per diventare molteplici punti di riferimento culturali e religiosi. Lo spazio urbano si modella a partire da queste trasformazioni.

La cité

La Canebière è il viale centrale della città che un tempo collegava il Vieux Port con quelli che allora erano campi a nord della città e che ora sono i famigerati Quartieri Nord. I marsigliesi chiamano queste zone cité: un agglomerato di 80 mila case popolari che ospita più di 250 mila abitanti e dove il tasso di disoccupazione è il doppio rispetto alla media.

Sono quartieri che gli addetti alla toponomastica hanno chiamato – coscientemente, in modo simbolico, con ironia grottesca? – con nomi di fiori: meravigliosi in potenza, ma che se non vengono annaffiati quotidianamente sono destinati ad appassire, e a marcire.

Fra il 1975 e il 1990 il comune perde più di 70 mila posti di lavoro fra industria e edilizia, e i primi a rimetterci sono gli immigrati e i loro figli nati sul territorio francese. Da lì trae origine una crisi sociale che è tuttora in corso.

A Parigi le banlieue sono in periferia, a Marsiglia sono in città. Con le migliaia di finestre illuminate, i Quartieri Nord assomigliano a delle barche. Navi perse. Vascelli fantasma. Blocchi di cemento lontani da tutto, e dimenticati. A Nord non c’è nulla, solo la vista: verso sud, verso i quartieri ricchi.

Terreno fertile per gli estremismi

Il problema dell’abbandono è serio. Dove lo Stato latita, il terreno diventa fertile per le radicalizzazioni che poi portano agli estremismi. Due di questi, in particolare modo, hanno trovato nella suburbia di Marsiglia l’humus ideale per proliferare: il fondamentalismo islamico da un lato, l’estrema destra del Fronte Nazionale dall’altro. Opposti e complementari.

E poi c’è la mafia, che non guarda in faccia nessuno. Il risultato è che in questi posti i principali prodotti da esportazione sono razzismo e foreign fighters.

I militanti sfruttano a fondo il campo dell’aiuto sociale, trascurato dall’amministrazione comunale. Portano avanti obiettivi umanitari quali il tempo libero, il sostegno scolastico, l’insegnamento dell’arabo.

L’obiettivo di questi agitatori supera ampiamente la lotta alla tossicomania. S’inquadra nella prospettiva di una guerriglia urbana.

I quartieri nord traboccano di giovani beurs pronti a fare i kamikaze. Sopra di loro ci sono altri capi. Molti altri. Chi li manovra è conosciuto dalla polizia.

C’è una parte di polizia che disgusta. Quella in cui le idee politiche o le proprie ambizioni scavalcano e oscurano i valori repubblicani, la giustizia, l’uguaglianza. Esistono tonnellate di guardie così. Pronte a tutto. Se un giorno le periferie esploderanno sarà a causa loro. Del loro disprezzo. Della loro xenofobia. Del loro odio. E di tutti i loro piccoli patetici calcoli per diventare un giorno “un grande poliziotto”. È una quotidiana guerra contro il lato oscuro della forza, come in Star Wars.

Marsiglia non è una città provenzale

Risalendo la Canebière in certi punti ti sembrerà di essere in Marocco: un cameriere ti taglia la strada portando con due mani un vassoio di rame colmo di pastilla al piccione. In lontananza si sente musica raï. Dopo pochi metri pare di trovarsi in Arabia: ad un tavolino all’aperto due uomini si riparano dal sole sotto un ombrellone bianco che sembra una tenda. Mangiano datteri, fichi secchi, mandorle, mentre ascoltano l’oud.

Se ti sale un certo languorino, perché non soddisfarlo facendo un salto in Grecia? È sufficiente attraversare la strada: insalata di cetrioli allo yogurt, foglie di vite ripiene, tarama, spiedini alle cento spezie, grigliata su tralci di vite, con un goccio di olio d’oliva, capretto. Tutto accompagnato da un retsina bianco.

Marsiglia non è provenzale. Non lo è mai stata. Nella maggior parte dei ristoranti, quindi, si mangiano cose semplici, e a prezzi onesti, piatti senza artifici legati non a una tradizione ma a una tenace fedeltà alle origini.

Qualcuno l’ha già detto: la cucina qui non innova, non “si mescola”, perpetua. Mangiare ti riporta al tuo paese. Mettersi a tavola, in casa come al ristorante, in famiglia, tra amici, vuol dire far rivivere la memoria, i ricordi. Perciò non parlerò della cucina provenzale.

Questo vuol dire spazzare via, finalmente, tutte le ambiguità che pesano su Marsiglia e la sua cucina. Una città in cui si mangerebbe se non proprio male, perlomeno mai un granché bene. E che, ci ripetono, manca impietosamente di fantasia. Un giorno ho letto addirittura che bisognerebbe inventare un tajine di bouillabaisse! Perché no, se c’è qualche estimatore. Però, mi viene da dire con un sorriso, se non esiste forse è perché non ce n’è motivo.

La Marsiglia di Jean-Claude Izzo

Jean-Claude, il mio amico che mi fa da cicerone – di cui parlerò più avanti – me lo ha confermato:

sono di questa città, è vero, e spesso mangio con più gusto un trancio di pizza preso da Roger e Nénette, guardando il mare con le chiappe su uno scoglio, piuttosto che annoiarmi davanti a una sogliola in crosta con il suo “succo d’oliva” in un ristorante ovattato dove si accalcano quelli che sognano una città diversa. Omogenea, priva di passione, e per forza di cose senza esuberanza.

Provenzale, e civile, oserei dire. Dove l’aglio sarebbe saggiamente limitato, se non bandito dai pranzi – quelle famose colazioni d’affari in cui, più che mangiare, si pilucca. A me, quando mangio, mi piace sentire Marsiglia vibrarmi sotto la lingua. Selvaggia e volgare, come possono essere una spigola, un sarago o delle triglie con finocchi alla griglia condite solo con un filo d’olio d’oliva, come da Paul o all’Oursin. Questo significa che i ristoranti dove vado volentieri raramente figurano sulle guide, e non ricevono mai cappellini da cuoco o chiavi d’oro.

Ma che importa! La gente che si incontra in certi posti non è necessariamente quella che mi va di frequentare. D’altronde quelli apprezzano solo con moderazione aïoli, bouillabaisse o purè di acciughe. Non sanno niente del piacere delle focaccine fritte. Non hanno mai assaggiato le lumache in salsa piccante, né la salsa di ricci di mare, né i piedini e le interiora di montone, oppure il merluzzo con cipolla e salsa alle erbe, la salsa bohémienne, lo stufato di fave fresche. E ignorano del tutto la gioia di una zuppa al basilico, appena tiepida, all’ombra di un pino.

Qui mangiare è una festa

Non è un caso se Jean-Claude mi parla di questi piatti. La cucina marsigliese da sempre si basa sull’arte di abbinare pesci e verdure disdegnate dalla ricca borghesia di armatori, “la gente del posto”, che le terre dei mas e delle bastides della regione di Aix rifornivano di prodotti raffinati: selvaggina e volatili, agnelli, tartufi, formaggi e frutta. La bouillabaisse è nata così. Per via di quel pesce dall’aspetto orribile, lo scorfano, invendibile perché immangiabile.

Potremmo fare un mucchio di esempi. Cucina da poveri, certo. Però la sua genialità continua ancora a deliziarci, anche se oggi si litiga sui mille modi diversi di preparare la bouillabaisse. Per non far arrabbiare nessuno, dirò che è meglio se ve la preparate da soli. Ma lo stesso vale per tutte le ricette marsigliesi, e più in generale per i piatti del Mediterraneo: cuscus, tajine oppure paella, o anche solo pasta al pomodoro con polpette e uccelletti.

E così ritroviamo tutta la convivialità del sud: mangiare è una festa. Il mio amico ci tiene a ribadire il concetto:

Quando sono in un ristorante è questo che cerco prima di tutto: l’atmosfera familiare. È vero, i piatti non sempre sono all’altezza un giorno dopo l’altro, come da Étienne, al Panier. Ma è un po’ come la vita. Ci arrangiamo con quello che offre la giornata. Sappiamo che un giorno arriverà qualcosa di meraviglioso, non può che essere così. E resteremo senza parole davanti ai ravioli in salsa di olive, ai calamari al prezzemolo o anche solo a un po’ di frittura. Tutto qui. Marsiglia mi va bene così”

Gli rispondo che sono d’accordo, mi ha convinto, e allora lui mi dice di andare in un posto. Puoi andarci anche tu.

Brel, Bassens e Ferré

Se imbocchi la stretta rue Curiol, in cima alla Canebière, troverai il bar des Maraichers su in alto, a due passi da place Jean-Jaures. È il bar di Hassan. Sul muro è appesa una foto in cui Brel, Brassens e Ferré erano insieme. Seduti allo stesso tavolo.

Per Hassan quella foto è un simbolo. Anche una buona referenza. Da lui non si ascolta qualsiasi cosa. La musica è musica solo se ha sentimento. Entrando, Ferré canta:

Oh Marsiglia si direbbe che il mare abbia pianto / quelle parole che camminano abbracciate per strada / e che ora non volano più con lo stesso slancio / sulle labbra della tua gente imbalsamata dalla tristezza / Oh Marsiglia…”.

Subito dopo c’è Sonny Rollins che suona Without a Song. Con Jim Hall alla chitarra. Il suo album più bello, The Bridge. Ti siedi, ci sono altri clienti abituali. Paghi il tuo giro, poi i giri continuano a succedersi.

Si sta bene al bar di Hassan. Tra i frequentatori abituali non esistono barriere di età, sesso, colore di pelle, ceto sociale. Tutti amici. Chi viene lì a bere un pastis sicuramente non vota Fronte Nazionale, e non l’ha mai fatto. Neppure una sola volta nella vita. Qui, in questo bar, tutti sanno bene perché sono di Marsiglia e non altrove.

L’amicizia che aleggia qui, tra i vapori dell’anice, si comunica con uno sguardo. Quello dell’esilio dei nostri padri. Ed è rassicurante. Non hanno niente da perdere, avendo già perso tutto.

Ferré ha ripreso a cantare:

Sento che stanno arrivando / treni pieni di browning, / di berretta e fiori neri / e i fiorai preparano bagni di sangue / per i telegiornali…”.

Continua a bere, con questo o con quello, e con Hassan che non si lascia mai sfuggire un giro. Ascolta le conversazioni. Anche la musica. Dopo l’ora ufficiale dell’aperitivo, Hassan abbandona Ferré per il jazz.

Sceglie i pezzi con cura. Trovando il suono giusto per ogni momento. Comincerai ad essere leggermente ubriaco. Hassan ti farà l’occhietto. Complice fino in fondo. E Miles Davis attacca Solea. Un pezzo meraviglioso. Da ascoltare continuamente, la notte. La solea è la colonna vertebrale del canto flamenco.

L’altra Marsiglia

L’altra Marsiglia. Con un pizzico di tradizione libertaria. Si cambia completamente argomento nel giro di cinque minuti. Parigi, Marsiglia, Giamaica. B.B. King riempie gli amplificatori con Rock my baby, e tutti gridano insieme a lui.

Nel tavolo a fianco un gruppo di ragazzi parla a voce alta. Si mettono d’accordo per andare “a vedere in giro”. All’Intermédiaire, a due passi da lì, dove suona Doc Rober, un bluesman. O al Cargo, un nuovo locale, in rue Grignan. O ad ascoltare jazz, il Mola-Bopa quartet. Potrebbero passare ore anche a fare questo. A parlare di posti dove finire la notte, senza muoversi.

I cambiamenti che la città ha vissuto nell’arco di quarant’anni hanno spinto la gente a lottare. Lottare per il lavoro. Lottare per la giustizia sociale. Lottare contro l’intolleranza. Contro la povertà. L’hanno spinta a impegnarsi politicamente.

Ancora oggi esiste una rete di associazioni incredibilmente fitta. Marsiglia ha conosciuto le stesse trasformazioni di tutte le grandi città francesi, esacerbate però dalla sua posizione di crocevia e da una storia interamente legata allo scambio, alla condivisione e all’apertura.

Marsiglia genera e racchiude in sé la miseria, come testimoniano i quartieri Nord; ma la sua storia, gli uomini, la luce e il mare, questa “città […] trasparente. Rosa e blu nell’aria immobile” (parole di Jean-Claude Izzo) rappresentano per il futuro un mondo di speranze.

Marsiglia, Mediterraneo

Di ritorno dal Cairo, Flaubert scrisse a un amico:

Ho acquisito la certezza che le cose previste accadono di rado.

Nelle città del Mediterraneo è spesso così. Non trovi mai quello che eri venuto a cercare. Forse perché questo mare, i porti che ha generato, le isole che culla, le linee e le forme delle sue rive rendono la verità inseparabile dalla felicità. L’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione.

L’essenziale quando viaggiamo su queste rive è concederci quello che non potremo mai portarci via, che esiste solo nell’istante in cui guardiamo, e che non fa parte dei ricordi ma del piacere di vivere. Piccole cose, come per esempio l’ultimo palpito della luce prima di mezzogiorno. La vita è un frammento di nulla.

“Da Marsiglia guardo il mondo”, mi dice Jean-Claude. Siamo in cima alla scalinata del faro Sainte-Marie, per l’esattezza all’estremità orientale della diga del Large. “È da qui che penso al mondo. Al mondo lontano, al mondo vicino. Che penso a me, anche. Mediterraneo. Uomo mediterraneo”.

Poi continua, il mare lo ispira:

“Marsiglia ha duemilaseicento anni. Marsiglia è il mio destino, come il Mediterraneo”. Dice questo guardando il largo, con la schiena contro la pietra calda del faro Sainte-Marie. Infine cita dei versi di Louis Brauquier: “Uomini perduti di altri porti, / che portate con voi la coscienza del mondo!”.

Marsiglia esiste soltanto in queste parole. Tutto il resto è solo cicaleccio. Politico, economico. Anche culturale, a volte. Se ce lo dimentichiamo, moriamo.

Ovunque oggi si parla molto di Europa, e questo è un argomento che sta molto a cuore a Jean-Claude:

“È per questo che vengo al faro Sainte-Marie. C’è di che disperare. Perché io non vedo nessun futuro europeo a Marsiglia. Nonostante quello che dicono. Marsiglia è città mediterranea. E il Mediterraneo ha due rive. Non solo la nostra. L’Europa parla di una soltanto, oggi, e agli europei questo va fin troppo bene. Trasformano questo mare, per la prima volta, in una frontiera tra oriente e occidente, tra levante e ponente. Ci separano dall’Africa e dall’Asia Minore. In nome delle Andalusie perdute, di Alessandria silenziosa, di Tangeri spezzettata, di Beirut massacrata, ci saremmo potuti ricordare che la cultura europea è nata sulle rive del Mediterraneo, nel Medio Oriente. Europa, casomai ci fosse bisogno di ridirlo, era una dea della Fenicia rapita da Zeus”.

È molto saggio Jean-Claude.

Protis, l’Ulisse dei Marsigliesi

Mentre il mio amico mi parla, dal faro di Sainte-Marie io non giro le spalle alla città. Mi ci appoggio, invece. E guardo il mare. Il largo. L’orizzonte da cui un giorno emerse la barca del focese chiamato Protis.

Protis è l’Ulisse dei marsigliesi. E magari, prima di gettare l’àncora qui, aveva viaggiato a lungo, conosciuto paesi e incontrato molte Calipso. La leggenda non dice se ad attenderlo a casa sua ci fosse una Penelope. Si tramanda solo che una ragazza di queste parti, Gyptis, gli porse una coppa d’acqua fresca e lo scelse come sposo.

Il mito ha senso solamente se lo si legge per quel che è. E se diventa progetto. Marsiglia proclama con fierezza la sua esperienza del mondo. Si potrebbe aggiungere: un’esperienza mediterranea. Perché non ce ne saranno altre.

Marsiglia, l’unica, la resistente, la sopravvissuta dei mondi mediterranei, saprà non essere il posto di frontiera – moderno remake del limes nell’impero romano – tra il mondo civilizzato e il mondo barbaro, tra l’Europa del nord e i paesi del sud, come invece preconizza un rapporto della Banca mondiale alle élite europee.

Guardando il mare credo che se c’è un futuro per l’Europa, un futuro bello, è in ciò che Edouard Glissant chiama “la creolità mediterranea”. Ed è qui che si gioca tutto. Fra il vecchio pensiero economico, separatista, segregazionista (della Banca mondiale e dei capitali privati internazionali) e una nuova cultura, diversa, meticcia, in cui l’uomo rimanga padrone sia del suo tempo sia del suo spazio geografico e sociale. Questo rivendico. Pienamente. Per fedeltà ai primi due amanti di Marsiglia, Gyptis e Protis. E quindi per amore.

La potenza della letteratura

Ovunque mi trovi, sono a casa mia. Anche in quei paesi di cui non padroneggio la lingua. Mi basta leggere un racconto di viaggio, un romanzo di uno scrittore per appropriarmi del suo territorio, dei suoi ricordi. E diventare il suo gemello.

Ho imparato la libertà del ramingo, quella di muoverti non per scoprire, incontrare, imparare, ma per fonderti nell’altro, e vedere con i suoi occhi l’”altro mondo”, quello da cui provieni.

Tutto questo ha poca importanza, in fin dei conti. Il vero e il falso. L’immaginario è una realtà, a volte più reale della stessa realtà. Conrad lo spiegherebbe meglio di me. L’importanza di permettere alla realtà di trovare la sua logica.

Troppo spesso non osiamo andare fino in fondo a noi stessi. Incrociamo lo sguardo dell’Altro come un invito. Ma rimaniamo sul molo.

Parigi è un’attrazione. Marsiglia è un passaporto.

Parafrasando il regista Robert Guédiguian, che stava all’Estaque, dirò: “Marsiglia: questa è la mia identità, la mia cultura e la mia morale”. E qui o altrove, quando parlo la lingua di “casa mia”, reinvento quella che Gyptis, la celto-ligure, e Protis, il focese d’Asia Minore, hanno inventato nella loro notte d’amore, duemilaseicento anni fa. Una lingua in cui ogni lettera dell’alfabeto deve essere profondamente umana. Io vi dico: non c’è nessun rischio nel parlare questa lingua. Solo felicità.

Mi piace credere che Marsiglia, non sia una meta in sé. Ma soltanto una porta aperta. Sul mondo, sugli altri. Una porta che rimanga aperta, sempre. Come quelle raccontate da Moshin Hamid nel suo bellissimo romanzo, Exit West.

Quando scendiamo dal faro di Sainte-Marie il mio amico Jean-Claude mi invita a prendere un pastis nel dehor di un bar lì vicino. Appena ci sediamo mi dice: “La prima ragazza che ho baciato sapeva di aglio”. Da qui cominciamo a discutere uno dei nostri argomenti preferiti (siamo entrambi figli del Mediterraneo): il cibo.

L’aglio, un oltraggio culinario

L’aglio fa parte del gusto di vivere. È lui, solo lui che apre le porte a tutti i sapori. Sa accoglierli. Cucinare, mangiare vuol dire questo: accogliere. Gli amori, gli amici, i figli, i nipoti.

Intorno alla tavola, nessuno escluso, si sgusciano fave, fagioli bianchi o rossi, si tagliano melanzane, zucchine, peperoni verdi, rossi, gialli, si puliscono i pesci, si lavano polipi, calamari e seppie, si disossano conigli, si mettono a marinare carni rosse. Orate al finocchio, aïoli, civet di ratatouille, bouillabaisse, zuppa al basilico, paella, carciofi in tegame, merluzzo con cipolla e salsa alle erbe. I piatti nascono in amicizia, nel piacere di stare insieme, fra risate e parole senza freno.

E la casa si scopre piena di profumi intensi. Un sentore selvaggio e volgare. Perchè è chiaro, cucinare con l’aglio è un oltraggio culinario, un oltraggio al buon gusto. È nel modo di maneggiare l’aglio che i mondi si separano. Più profondamente di quanto possiate immaginare. Niente, infatti, si accorda all’aglio meglio del vino, di preferenza rosso. “In particolare il Bandol, mi dice Jean-Claude, proveniente dal favoloso vitigno del Mourvèdre. Vini generosi, eleganti, robusti, grassi e aromatici”.

A ogni boccone vino e aglio spingono l’oltraggio fino al limite. Là dove il palato non riesce a far fronte a così tante sollecitazioni. Come l’ebbrezza di un primo bacio. Per parafrasare lo scrittore Jim Harrison, senza l’aglio e il vino continuare per la nostra strada in questa vita può essere davvero dura.

La menta e il suo profumo

Amiamo la menta per il suo profumo. È lei la più popolare. Non appena dobbiamo citare una pianta profumata, è lei, solo lei che abbiamo in bocca. Il suo odore, ammettiamolo, anche se leggermente pepato, non stordisce, non dà alla testa. La sua grazia ci commuove. E basta lasciar cadere qualche foglia in una teiera per essere quasi trasportati nel palazzo di Sherazade.

La menta agisce così. Come un filtro d’amore. Direi perfino che apre le porte di quell’immaginario orientale in cui, come cantava Baudelaire, tutto è lusso, calma, voluttà.

Forse è per questo che la menta viene usata così poco nella cucina occidentale, anche in quella meridionale. A causa della paura dei viaggi, che ci allontanano da Penelope più di quanto non ci riconducano a lei.

Jean-Claude è un vero esperto di menta. A un certo punto mi fa:

Posso permettermi un consiglio? – certo, gli dico – Semina menta intorno a te. Menta della Corsica, per decorare i viali con i suoi minuscoli fiori color malva. Menta citrata, con le sue foglie venate di rosso. Menta puleggio, i cui fiori, piccoli e rosa, nascono tra le lastre di pietra. Menta a foglie rotonde, con le sue foglie verde pallido picchiettate di crema e bianco. Menta verde, infine, nei vasetti sui davanzali delle finestre. Respira i suoi profumi pepati. Scoprirai allora che ci sono sempre mille e una notte per i vostri sogni. E ti prenderai cura della menta come fosse la più bella delle amanti.

Il basilico, la pianta del Mediterraneo

Se io dovessi scegliere una pianta mediterranea sceglierei sicuramente il basilico. Appena lo dico Jean-Claude si illumina:

Sono cresciuto in mezzo al profumo del basilico. Come tutti i bambini del sud.

Allora gli racconto che fin da quando ero piccolo mia madre, quando torna dall’orto, ne porta in casa due o tre vasetti, che sistema sul davanzale della finestra di cucina. Quello è il posto del basilico. All’ombra delle persiane, accostate fin dalla primavera. Dopo ho saputo che il suo odore tiene lontani gli insetti.

Ho saputo tante altre cose, dopo. Per esempio che fino alla Rivoluzione francese il basilico era una pianta regale. Poteva essere colto solo con una roncola d’oro, e solo da una persona di rango elevato. Ma immagino che i plebei non abbiano atteso l’anno I della Repubblica per sminuzzarne le foglie sui loro piatti.

Il buon gusto e i buoni odori sono cose che si acquisiscono d’istinto. E il basilico, quando lo hai annusato una volta, non puoi più farne a meno. Per me è così. Non sento il suo profumo in casa, e già mi manca. All’arrivo dei primi pomodori, ho bisogno di lui. Qualche goccia di olio d’oliva sui pomodori rossissimi, due o tre foglie sminuzzate sopra, un pezzo di pane del giorno prima sfregato con l’aglio, e cominciano le danze per le papille.

Non conosco piacere più semplice. Il primo, quello regalato dal basilico. Gli altri vi danneranno. Così come, terminato il pranzo, chiudere le persiane sulla calura del pomeriggio. Dopo aver pensato al vaso di basilico sul davanzale della finestra in camera da letto. Nell’ombra profumata della stanza, allora, la vita diventa più semplice. Come il piacere di amare.

“Non temere, – mi dice Jean-Claude – l’abuso di basilico e l’abuso d’amore non nuocciono alla salute”.

Un giro al mercato

Ovunque vado, in qualsiasi città del mondo, la prima cosa che faccio è andare al mercato. Per sentire la città. Sono stato cresciuto così, nella tradizione di andare al mercato. Ti nasce subito una sensazione di appartenenza, non appena vai a zonzo in un mercato. Come una fame di vita comune. Lo dicono gli sguardi. Anche i sorrisi.

I sapori fondamentali è qui che si trovano. Nei mercati di ogni giorno, che sono l’anima della città. Dove le influenze del sud ispirano ricette, sfuggendo a chi vorrebbe renderle immutabili.

Cominciando da quel tripudio di sensi che sono basilico, santoreggia, aneto, dragoncello, prezzemolo, maggiorana, menta, rosmarino, salvia, timo, anice. L’odore che si spande fa venire l’acquolina in bocca. La cucina prima di tutto si immagina. Prima di essere fatta. Invoglia a invitare.

Manuel Vàzquez Montalbàn ce l’ha insegnato: si può cucinare per perpetuare, ma anche per sedurre. È dopo, a tavola, abbandonandosi all’ebbrezza dei sapori di prodotti cresciuti sotto il sole, che tornano agli occhi e alle orecchie una miriade di piccolissimi dettagli: il rumore della fontana nella piazzetta, l’odore delle tegole riscaldate, il silenzio dell’ombra di un vicolo. Voluttà.

Solo l’essenziale conta, non il superfluo. E nei mercati esiste soltanto il piacere della giornata. Domani è domani, tutta un’altra storia. La felicità mediterranea è questo, un modo di dare senso alla giornata, giorno dopo giorno. Andare al mercato non è nient’altro che la reinvenzione di quest’arte di vivere con semplicità, e in compagnia.

Il mio segreto

Ti avevo promesso che ti avrei confessato un segreto. Non mi sono dimenticato.

È molto semplice: io, a Marsiglia, non ci sono mai stato. Almeno non fisicamente. Ma è come se.

Il mio segreto ha un nome e un cognome: Jean-Claude Izzo – il mio “amico”.

È nato il 20 giugno 1945 a Marsiglia, la sua città, dove è morto il 26 gennaio 2000 per un cancro ai polmoni, quando non aveva ancora compiuto 55 anni.

L’ho conosciuto con i suoi libri, a cominciare da Casino totale, Chourmo, Solea – ovvero la Trilogia che ha Fabio Montale come protagonista – e continuando con Marinai perduti, Il sole dei morenti, Vivere stanca e Aglio, menta e basilico.

Con i suoi libri Izzo – che io ormai chiamo Jan-Claude – mi ha preso per mano e mi ha fatto conoscere una città in cui non sono mai stato come se ci avessi sempre vissuto. Un po’ come quello che succede leggendo Salgari, che racconta le avventure di Sandokan nella giungla della Malesia senza essere mai andato fuori dall’Italia. Solo che nel caso di Izzo l’autore è la sua città: Izzo è Marsiglia.

È solo grazie al mio amico se sono riuscito a descrivere Marsiglia finora. È tutta farina del suo sacco. Mi ha fatto viaggiare, annusare, assaggiare e passeggiare per la sua città senza muovermi dalla poltrona di casa mia; e in fondo è proprio questo il compito della grande letteratura.

Chi ha conosciuto di persona Jean-Claude Izzo, come Massimo Carlotto – che consigliandolo al suo editore e/o contribuì a portare in Italia i suoi libri – dice che era prima di tutto una bella persona, e che “era impossibile non provare un’immediata simpatia per quell’uomo minuto dallo sguardo attento e curioso e con l’eterna sigaretta tra le labbra”.

“Appartengo all’erranza”

Di sé Izzo ha scritto:

Appartengo all’erranza. Mio padre, dato che aveva incontrato una bella sivigliana, si è fermato lungo la via dell’esilio. A Marsiglia. Sarei potuto nascere altrove, come i miei cugini. A Buenos Aires, o a New York. Oppure in Canada, dove poco dopo la guerra i miei genitori sognavano di andare a vivere. Non avrebbe fatto nessuna differenza. Qui o altrove, ero figlio di un esule. È il mio unico bagaglio. La mia unica eredità. La mia memoria. E dunque la mia storia. Questo significa che il sangue che mi scorre nelle vene non appartiene a una razza, a un paese, a una terra (Ovunque sono a casa mia).

Autodidatta, figlio di immigrati, un barman napoletano e una sarta spagnola. Dopo una lunga militanza nel giornalismo di sinistra, è stato poeta, sceneggiatore televisivo e cinematografico, autore di numerosi saggi.

Quando decide di affrontare il noir lo fa con una trilogia marsigliese che ha come protagonista Fabio Montale: poliziotto figlio di immigrati e culturalmente integrato nel meticciato interfonico di Marsiglia, sceglie da che parte stare nella roccaforte del Fronte nazionale.

Nella sua prosa talvolta affiorano degli stereotipi, ma la Marsiglia di Jean-Claude Izzo è quella del poeta. Vissuta, vagheggiata, interiorizzata, intrisa dei ricordi d’infanzia e delle leggende tramandate. Un autore che nei suoi romanzi rievoca continuamente la nascita di Marsiglia dal matrimonio fra Gyptis, figlia di Nanno re dei Focesi, e Protis, il bel forestiero, può parlare della città come farebbe un sociologo? Nei suoi romanzi non dobbiamo cercare Marsiglia, ma la sua Marsiglia. E la Marsiglia di Jean-Claude Izzo, prima di tutto, è il mare.

La linea dell’orizzonte rappresenta tutte le possibilità. Tutti i viaggi raccontati dagli autori che Montale e Izzo prediligono: Conrad e Rimbaud. E Ulisse, presente in tutti i romanzi della Trilogia. Il mare rappresenta l’identità comune agli emarginati e ai discriminati della società, un’identità complessa, insondabile e pericolosa, descritta così bene in Marinai perduti. E la percezione che Izzo ha del mare e che condivide è proprio quella del poeta.

Fin da giovane scrivere si rivela un’esigenza, e i romanzi terranno fede alla duplice ambizione coltivata dalla sua scrittura: evocare la sua sensibilità nei confronti del mondo e difendere quei valori umani che gli stanno tanto a cuore perché lo costituiscono in quanto essere vivente.

La Trilogia ne è l’esempio più significativo. Izzo mette in scena un personaggio che si esprime in prima persona, comunica direttamente con il lettore, in un modo che mi ha ricordato un altro personaggio indimenticabile: il Barney Panofsky di Mordecai Richler.

L’assenza di intermediari consente di entrare nell’universo di Fabio Montale nello stesso modo in cui si entra nell’immaginario di un poeta. E nello sguardo: quello del poeta sulla città e sul mare; quello di un difensore dei valori umani sugli uomini e sulla società. Ciò che affascina tuttavia è che, anche al di là della scrittura e della militanza, Jean-Claude Izzo ha sempre cercato di vivere in simbiosi con le sue idee e i suoi ideali. E noi non possiamo fare a meno di constatare che ci è riuscito.

Mai accontentarsi

Ci si accontenta sempre più facilmente. Un giorno, ci si accontenta di tutto. E si crede di aver trovato la felicità (Casino totale).

Izzo non ha mai trascurato questo pensiero di Fabio Montale. E non si è mai accontentato. La sua vita è una continua rimessa in discussione, senza mediazioni. Del resto forse è proprio la tendenza a non mollare mai che lo differenzia profondamente dal suo alter ego.

Jean-Claude Izzo ha intrapreso senza indugi vari progetti e ha levigato la propria penna sulle pietre del giornalismo, della poesia e della sceneggiatura. È un grande appassionato di polar: un neologismo francese per indicare un genere cinematografico e letterario nato dalla fusione dei termini poliziesco (policier) e noir.

Forse gli piace perché è uno dei pochi generi letterari attuali capaci di evocare la vita, la quotidianità, di creare trame immaginarie intessendole con frammenti di realtà, con ciò che quest’ultima può avere di doloroso e sordido.

Nella splendida introduzione all’edizione integrale della Trilogia pubblicata da e/o Nadia Dhoukar racconta come

in un momento in cui la letteratura poliziesca francese si perde spesso in meandri politici e sociali che azzerano ambientazione, personaggi e intreccio, Jean-Claude Izzo riporta in auge la tradizione del narratore. Ci racconta storie. Sordide, ma storie. Al tempo stesso rinverdisce la tradizione del personaggio seriale, sofferente certo, ma umano, dotato di uno sguardo tutto suo e forgiato dai ricordi. Nel corso delle inchieste tra il personaggio e il lettore si crea un rapporto di complicità e intimità. Montale è un personaggio a immagine del suo creatore. Pudico, ma terribilmente generoso.

L’analisi di Dhoukar si fa ancora più interessante quando indaga il modo particolare che ha Izzo di maneggiare gli stilemi del noir:

Non si limita a descrivere ma incide nel profondo delle contraddizioni, lasciando spazio alla riflessione sociologica, al ritorno alla memoria della sua generazione, soprattutto dando un senso al presente. Attraverso il viaggio interiore di Montale, dichiara la sua incrollabile fiducia nella possibilità di trasformazione, individuale e collettiva. Il punto politicamente irrinunciabile per Izzo è la cultura solidale. Tra gli sconfitti di ieri e i perdenti di oggi.

Da questo punto di vista, Montale è un personaggio straordinario. Entra in polizia per non rimanere un marginale dedito all’illegalità. Abbandona il gruppo di coetanei dalle molteplici differenze etniche ma non dimenticherà mai le sue origini che diventeranno la fonte del senso di colpa del suo ruolo di sbirro in una società sempre più intollerante. Un travaglio interiore che lo costringerà ad abbandonare la polizia e a diventare un solitario alla ricerca di una giustizia che non si trova nelle aule di tribunale. A spingerlo a ficcarsi nei guai è l’etica solidale e il desiderio, comune all’universo del meticciato etnico e culturale, di trovare un luogo e un momento per vivere serenamente.

Izzo si considera un uomo mediterraneo, profondamente inserito nella storia di quel mare che ama osservare dal faro di Sainte-Marie ma è soprattutto “marsigliese” – etichetta che rifiuterà perché troppo restrittiva. Eppure Marsiglia nella sua opera è solo un simbolo per parlare dei tre temi cruciali che gli stanno a cuore: la mafia, il razzismo e la miseria sociale. Temi che purtroppo si ritrovano ovunque, ben al di là di Marsiglia.

Non si tratta solo di amore sviscerato per la sua città ma di una concezione politica di appartenenza all’area del Mediterraneo che lo porta a battersi contro la trasformazione di Marsiglia in luogo di confine tra l’Europa del nord e i paesi del sud. Il nemico vero è la cultura dominante del nord che a partire dall’economia cerca e pretende l’omologazione. Nella rivendicazione del meticciato come unico tessuto sociale possibile, Izzo ripropone un’Europa nata ai bordi del Mediterraneo che ha un avvenire solo nello sviluppo della “creolità mediterranea (Glissant).

Contro l’indifferenza

Ciò di cui ci parla Montale, e che tormenterà Izzo per tutta la vita fino a provocare in lui una lacerazione in cui vengono ad annidarsi tutte le atrocità umane, è l’indifferenza.

Perché la discriminazione razziale, il cancro della mafia nelle istituzioni o nelle imprese private e la miseria sono solo i risultati visibili dell’indifferenza umana. Come Gélou in Chourmo, che a forza di chiudere gli occhi, di non volere sapere né parlare, perde il figlio. Perde l’essenziale. Ecco di cosa parla Jean-Claude Izzo nella Trilogia attraverso Montale. E numerosissimi sono gli esempi, dalla miseria dei quartieri nord alle figure emblematiche e sacrificate di Leila, Guitou o Sonia, passando per l’evocazione di atrocità assolutamente reali come il Rwanda, l’Algeria, la Bosnia.

Lo racconta bene Massimo Carlotto:

La società in cui viviamo è criminale nel senso che produce crimine e anticrimine in una spirale senza fine dove economia legale e illegale si fondono in un modello unico. Chiamate magari locomotive come nel caso del nordest italiano.

Il noir mediterraneo in questo senso esce dalla tradizione della critica all’esistente del noir francese e del romanzo poliziesco moderno. Il romanzo non racconta più solo una storia nera in un determinato luogo e in un determinato momento ma lo fa a partire da un’analisi ben precisa della criminalità organizzata. Altra intuizione di Izzo è l’individuazione dell’area mediterranea come centro geografico della rivoluzione dell’universo criminale. Un intreccio di alleanze di nuove culture illegali provenienti dall’Est e dall’Africa che assorbono o fagocitano organizzazioni europee più deboli e intavolano trattative dirette col potere.

Questo è il noir mediterraneo. Raccontare storie di ampio respiro. Raccontare le grandi trasformazioni. Denunciare e allo stesso tempo proporre l’alternativa della cultura della solidarietà.

Un uomo fatto di carne: le donne, il cibo, la musica

Izzo è un uomo dalla coscienza acuta. Qualsiasi ingiustizia, vista dall’angolo della strada sotto casa o al telegiornale, lo colpisce in pieno. Gli piace il film Pretty Woman e lo considera un affresco sociale: ogni volta che lo riguarda si commuove alla scena in cui Julia Roberts viene cacciata dal negozio di lusso. L’ingiustizia, le ignominie umane lo consumano ben più profondamente di un cancro. Una lacerazione.

A differenza del suo creatore, che forse incontra qualche difficoltà a indicare le ragioni della propria infinita sofferenza e della propria empatia, come poliziotto Montale ha tutti i motivi per indignarsi.

Dà le dimissioni, ma il mondo lo riacciuffa sulla porta di casa, sul limitare dei ricordi. Ricordi comuni per Montale e Izzo: genitori immigrati; un’infanzia per le strade di Marsiglia percorse da odori, colori, risate e rumori. Frammenti che rendono felici: “la dolcezza del sole sul viso. Era bello. Credevo solo a questi momenti di felicità. Alle briciole dell’abbondanza” (Chourmo).

La felicità sono quelle briciole prodigate dal mare, da Marsiglia e dai ricordi dolci. Entrambi conoscono “le piccole gioie quotidiane” (Chourmo).

La felicità è anche Lole, la donna inaccessibile che Fabio sogna come si sogna una chimera. Quella dell’infanzia. Delle illusioni volate via, oppure massacrate. Montale condivide con Izzo l’amore per le donne. O meglio per la donna. Il suo mistero. Il fascino. La sensualità. La poesia. L’invito al viaggio che le sue braccia aperte promettono.

Fabio legge una donna come un libro. E nella Trilogia tutti i personaggi femminili sono specchi. Il tema ricorrente del riflesso è rivelatore del principale cruccio dell’autore: potersi guardare ogni giorno, con sincerità, riflessi nello specchio.

Jean-Claude Izzo non ha mai parlato tanto come attraverso il suo personaggio – ci racconta Nadia Dhoukar -, sguardi, gesti e attenzioni costituiscono un mezzo espressivo più sicuro delle parole. Ciò non significa che a volte Izzo non si arrabbi, come il suo protagonista. Spesso, fra l’altro, per le stesse ragioni. Il riserbo però non impedisce mai a Jean-Claude Izzo di instaurare rapporti duraturi e sinceri con gli uomini. Intorno a valori comuni. E a un tavolo.

Anche il cibo occupa un posto fondamentale nella vita di Jean-Claude Izzo, così come in quella di Montale, e probabilmente per gli stessi motivi. “Ho bisogno di ingurgitare cibo, verdure, carne, pesce, dolci. Di lasciarmi invadere dai sapori. Non avevo trovato niente di meglio per negare la morte. Per salvaguardarmene. La buona cucina e i buoni vini. Come un’arte della sopravvivenza” (Chourmo).

Cucinare per sé e per gli altri è un vero piacere. Un momento di condivisione e forse anche di oblio, di concentrazione su un compito preciso. Soprattutto un momento di piacere, perché da buongustaio Izzo apprezza i sapori, il vortice dei profumi, la freschezza di un piatto, la schiettezza di una pietanza. E quanto alle passioni, Izzo condivide con Montale anche quella per il whisky, il Lagavulin, “dal sapore di torba” (Solea), che addolcisce i contorni della realtà.

La passione per la musica

Un’altra passione di Izzo è la musica, in particolare il jazz e quel miscuglio di ritmi mediterranei che caratterizzano l’attuale musica sudeuropea e nordafricana. La musica non è solo ritmo o nostalgia ma anche una chiave per capire le differenze generazionali. Montale si confronta con il rap. Non lo ama ma riflette: “Rimanevo sempre sbalordito da ciò che raccontava. La giustezza delle intenzioni. La qualità dei testi. Non cantavano altro che la vita dei loro amici, a casa o nei riformatori”.

Tutti i testi di Jean-Claude Izzo sono intrisi di musica. I suoi libri, sfogliandoli, suonano. I tre titoli della Trilogia si rifanno alla musica: Casino totale cita il gruppo marsigliese degli IAM, un gruppo hip hop di Marsiglia che è diventato un cardine della musica rap e della cultura hip hop prima in Francia e poi in Europa; Chourmo chiama in causa un altro gruppo marsigliese, i Massilia Sound System, un gruppo reggae che canta in occitano e molto legato alla curva dell’Olympique Marsiglia; Solea è un brano di Miles Davis.

Immancabilmente la musica alberga nelle pagine della Trilogia quanto nelle giornate di Jean-Claude Izzo. Spesso viene da lontano (Lili Boniche,Abdullah Ibrahim, Paco de Lucìa), talvolta è di oggi (IAM, Massilia Sud System, Paolo Conte) e sovente di ieri (Miles Davis, Ray Charles, Billie Holiday).

Izzo ama la musica, indispensabile per vivere, e in particolare il jazz (come Montale), che parla e trascina senza bisogno di parole: “Il jazz aveva sempre un buon effetto su di me. Mi aiutava a rimettere insieme i pezzi” (Chourmo).

Adieu…

Nell’ottobre del 1998 arriva il verdetto del medico: cancro ai polmoni. Sconvolto dalla lettura di un fatto di cronaca, Izzo comincia Il sole dei morenti. Il suo romanzo più duro. Più aspro. Più lontano dal mare, più terribilmente umano. L’autore abbandona i suoi temi preferiti. Certo, la miseria e la disperazione sono presenti, ma il filo conduttore è la morte, declinata in tutte le sue forme: l’oblio, l’indifferenza, la miseria, l’abbandono, il disprezzo. E l’angoscia. È il momento dei bilanci. Del riflesso nello specchio.

All’approssimarsi della fine Jean-Claude Izzo sceglie ancora, anzi più che mai, la figura dell’escluso per parlare agli uomini di umanità. L’umanità di cui si dimenticano quando incrociano un barbone, che non riconoscono come una sfaccettatura di se stessi. Perché di questo si tratta, e Izzo ce lo mostra con forza.

Quando parla dei quartieri nord di Marsiglia e della necessità prima o poi di una rivolta violenta. Quando parla degli integralisti che fanno proseliti nei luoghi in cui intere generazioni marciscono senza radici, senza identità né punti di riferimento. Le prigioni e le periferie.

Quando ci avverte che una mattina la Francia si sveglierà insanguinata dagli attentati commessi da uomini nati sul proprio suolo e relegati nelle cités senza anima, senza futuro né orizzonte. E infine quando ci parla di quell’uomo che come tutti noi ha lavorato faticosamente per guadagnarsi un surrogato di felicità quotidiana, ma che è caduto. Si è perso. E che d’un tratto agli occhi degli altri diventa inesistente, peggio di un cane. Izzo ci parla di come l’uomo civilizzato abbia fatto suo l’inaccettabile “porcheria umana”, nell’anima e nella coscienza.

È lo specchio di cui tanto teme il riflesso. Da Casino totale al Sole dei morenti, Jean-Claude Izzo ci parla solo di noi.