La scrittura non si insegna, intervista a Vanni Santoni a cura di Andrea Bricchi. Di libri-mondo, canoni, sperimentazioni e… giochi di ruolo

L’ultima pubblicazione di Vanni Santoni, La scrittura non si insegna (Minimum Fax, 2020), di nemmeno cento pagine, si presenta come un pamphlet che in uno stile scorrevole e colloquiale intende non solo dimostrare la tesi desumibile dal titolo, ma polemizza su certi procedimenti, tipicamente da novellini, di tantissimi aspiranti scrittori.
Ed è proprio a questi che l’autore si rivolge, in una sorta di corso accelerato utile a comprendere come si arrivi all’agognato esordio e più in generale cosa significhi fare lo scrittore e pensare come tale. Nel fare questo, Santoni mescola considerazioni personali, consigli dettati dall’esperienza e riflessioni di altri scrittori, ricavate da interviste, saggi e manuali di scrittura.
All’esordio, oltre che arrivarci, bisogna arrivarci bene, e per farlo, secondo il Nostro, occorre seguire alcuni passaggi inevitabili. Imprescindibile è mettersi a “dieta” (così la definisce Santoni), cioè leggere diversi buoni libri, anche molto lunghi, che formeranno la cultura fondamentale dello scrittore in erba.
Oltre a leggere molto, quest’ultimo – in base alla ferrea disciplina prescritta – deve scrivere molto, e farlo tutti i giorni, raggiungendo un tot di caratteri giornalieri. La “traspirazione” costante (più che l’ispirazione) che ciò comporta è l’unico mezzo per entrare nel “flusso”, quella sorta di stato di grazia del creatore, che lo fa essere produttivo, lo fa tendere alla perfezione e, en passant, gli fornisce il maggior piacere che è dato provare a chi scrive (e che intender non può chi non lo prova); un flusso in cui comunque, si spera, egli non cadrà negli errori difficilmente perdonabili di essere banale e stereotipato nella forma e privo di interesse nei contenuti.
Il romanziere wannabe viene invitato a fare i conti con la realtà anche per ciò che riguarda le fasi successive: la revisione, il confronto e la pubblicazione.
Nonostante gli indubbi pregi del lavoro dell’autore, di cui si sentiva il bisogno per lo meno nel panorama italiano odierno (soprattutto per i risvolti più pragmatici affrontati nella seconda metà del libro), durante la lettura capita di imbattersi in affermazioni un po’ sul sentenzioso (un tono che d’altronde non stona in bocca a un “guru” della penna – e in questo caso il nomen è sicuramente omen) che lasciano all’immaginazione del lettore il compito di colmare i buchi, senza spiegare a sufficienza.
Ma il libro è appunto un pamphlet e dilungarsi troppo su ogni singolo aspetto (come già fa qua e là Santoni stesso, comunque, nelle lunghe ma gustose note a piè di pagina) avrebbe stravolto il senso e la forma di un simile libro. E qui interveniamo noi, perché di simili affermazioni, e non solo, abbiamo deciso di chiedere conto all’autore nell’intervista che segue.
L’intervista
Il tuo libro parte dalla tesi di fondo che la scrittura non si possa insegnare ma solo la mentalità dello scrittore (p. 7), anche perché «ogni testo ha bisogno di trovare le proprie giuste modalità» (p. 11). È una posizione più che condivisibile, eppure non credi che l’esercizio serva e, anzi, microesperimenti aiutino per farsi le ossa in cimenti più impegnativi? L’apprendimento passa per la messa in pratica, significa cioè anche sviluppare competenze, e praticare diverse modalità espressive può forse favorire un allargamento del proprio bagaglio – o ventaglio – creativo, o no? Successivamente ribadisci, seguendo anche lo Stephen King di On Writing, che «a scrivere si impara solo leggendo e scrivendo» (p. 13), e che il singolo esercizio di scrittura creativa sarà «magari non dannoso, ma di certo non utile» (ivi); più avanti insisti sul concetto: «Non saranno gli esercizi a insegnarti a scrivere» (p. 32). Non è al contrario sempre utile sperimentare, anche in forma frammentaria?
Non sovrapporrei esercizi e sperimentazione. Gli esercizi a cui mi riferisco nel libro sono quelli assegnati da un ipotetico docente, e che hanno come scopo primario, appunto, l’esercitarsi. Credo, invece, che si debba fare subito sul serio, provare a darsi subito obiettivi letterari, scrivere subito quello che si vuole e intende scrivere. Va da sé che all’inizio ci sbaglieremo, o saremo fuori fuoco, o faremo delle sperimentazioni che anni dopo giudicheremo “solo esercizi”, ma questo è un altro discorso.
Sperimentare – e continuare a farlo anche quando si è più o meno maturi (spoiler: non lo si è mai veramente) – è fondamentale, non solo per il singolo autore ma anche per il campo letterario di cui andrà a far parte; ne scrivevo di recente, partendo da altre suggestioni, in questo pezzo.
Puoi chiarire perché sia più fruttuoso per «aprire gli alveoli» leggere un libro-mondo di mille pagine rispetto a cinque romanzi di duecento? A questo riguardo ho avuto inoltre la sensazione che per spiegare l’utilità dei cosiddetti libri-mondo tu abbia fatto ricorso a delle belle metafore, ma non ne abbia mai dettagliato, tecnicamente, il vantaggio rispetto a libri caratterizzati da un minor dispendio di parole. Inoltre, se c’è una certa frustrazione data dalla qualità (citi i racconti di Kafka e le Illuminazioni di Rimbaud, che non dai da leggere nei tuoi corsi), non ce ne potrà forse essere anche una derivante dalla quantità?
La quantità è spezzettabile. Anzi, è intrinsecamente spezzettata: un romanzo come Guerra e pace, I fratelli Karamazov, 2666 o Abbacinante contiene moduli, digressioni, racconti, altri romanzi… Il “vantaggio” è la moltiplicazione delle idee, specie circa le possibilità del mezzo romanzesco. Si capisce, comunque, che dopo aver aperto gli alveoli l’aspirante scrittore dovrà leggere anche i piccoli libri perfetti. Questo si incrocia con un’altra necessità: l’essere aggiornati rispetto allo stato dell’arte, al fronte d’onda, del romanzo. Per questo c’è spazio anche per un Austerlitz, che è sì un capolavoro, ma certo non un romanzo-mondo. La suggestione, in ogni caso, nasce prima di tutto dalla constatazione di quanto spesso gli aspiranti scrittori siano deficitari nella loro preparazione letteraria, specie per ciò che concerne le grandi opere, quelle che davvero sfidano il lettore e cambiano la sua percezione della letteratura.
Non è la prima volta che qualcuno sostiene che «il canone è sempre un fatto politico» (p. 20). A me sembra che da Don Chisciotte (almeno fino) a Pastorale americana un canone grosso modo debba comprendere i titoli che molti hanno letto e tanti continuano a leggere o che comunque hanno innervato la cultura letteraria a un punto tale che non si possa prescindere dalla loro lettura (in questo senso la cosa migliore da fare, per non sbagliarsi, sarebbe mettere a confronto le liste di Piero Dorfles, di Bernard Pivot, dei 1001 libri, di Le Monde, della BBC). Puoi chiarire il tuo pensiero?
Anche se mi piacciono molto liste, listini e canoni – ne abbiamo anche fatto uno, e ne discutiamo qua – li considero innanzitutto spunti di riflessione, quando non giochi. Ogni libro si può (e dovrebbe) discutere individualmente, in relazione ai suoi vicini, in relazione all’opera complessiva dell’autore, alla temperie, ai temi… I canoni sono sempre semplificazioni, a volte brutali. La loro utilità (e bellezza), è quella di creare delle mappe istantanee, confrontabili tra loro, a partire dalle quali si possono impostare nuove riflessioni, oltre che ovviamente suggerire nuove letture. Più ce ne sono, meglio è.
Riguardo sempre alle letture, a un certo punto inviti a non prendere «la menzione di King [perché, come già fatto da Luca Briasco nel suo canone americano, consigli la lettura di It] come un’autorizzazione a leggere narrativa commerciale» (p. 26). Non è esagerato? Anche perché alcuni libri si collocano in un’area intermedia fra literary novel e narrativa commerciale (che è per lo più narrativa di genere – ed ecco perciò spuntare il tuo consiglio di leggere Hunger Games se si intende scrivere una distopia)…
Dipende a chi stiamo parlando. King è un gigante ma per motivi, se vogliamo, incidentali: i suoi emuli, se non si abbeverano anche ad altre fonti, non saranno mai scrittori. Quando tengo corsi trovo a volte aspiranti autori molto giovani che hanno letto e riletto Rowling e Martin. I loro testi fanno immancabilmente schifo, perché non hanno mai alimentato lingua e struttura. Nota bene: io amo sia Harry Potter che Il trono di spade, quindi non sono certo pregiudiziale, ma se uno vuole diventare uno scrittore – anche di testi commerciali, sì – non può abbeverarsi solo di testi così semplici e derivativi – questione di complessità, quindi, ma non solo: si troverebbe a usare dispositivi conosciuti solo “di seconda mano” dato che vengono dai classici.
Passando alla lista di letture italiane, scrivi: «Di nuovo, non pretendo qua di stabilir canoni: [questi] sono solo i libri che l’esperienza mi ha insegnato essere i più adatti a te, a quello che vuoi ottenere» (p. 37). Segue una lista che da Leopardi arriva ai viventi. Il concetto espresso nella frase citata forse avrebbe meritato un approfondimento: in che senso? In cosa, di preciso?
Come detto nel libro, sono quelli selezionati, in anni di didattica, come più rapidamente efficaci per la formazione di un futuro autore.
Manca – trovo – una vera argomentazione anche riguardo all’inserimento, in quella lista, del fumetto di Andrea Pazienza, corredato dall’inciso «sì è un fumetto ma anche il maggior romanzo italiano del secondo Novecento». Me lo chiedo anche in quanto cultore, da sempre, di Andrea Pazienza (così come, da grande amante di Bob Dylan, ho accettato con gioia ma non compreso fino in fondo il Nobel per la letteratura che gli è stato assegnato).
La risposta non sta nella pur mirabile abilità grafica del nostro, ma nelle capacità linguistiche, narrative e di rappresentazione di un certo specifico storico-sociale che mette in campo nelle sue opere più strutturate, come Zanardi e Pompeo.
In termini di un buon impiego del tempo in mancanza d’altro, consigli di scrivere diari o remake oppure di farsi trascrittori, un po’ alla Bartleby, di opere altrui. Ma perché queste attività sarebbero più utili degli esercizi di scrittura da cui ha preso le mosse la nostra intervista? O, se vuoi, esse non costituiscono una sorta di esercitazione, seppure sui generis, utile a null’altro che a prepararsi alla scrittura delle proprie opere “maggiori” (ovvero dei propri progetti principali)? Tra l’altro, personalmente, ricordo di aver cominciato almeno in parte a scrivere racconti in vista del grande approdo finale, il romanzo. In questo senso anche la scrittura di racconti significherebbe fare dei piccoli esercizi di scrittura (se per “piccoli” si possono intendere testi che toccano le cinquemila parole…). In breve, se da un lato si può prescindere dalle scuole di scrittura (l’ho sempre pensato), non si sfugge mai agli esercizi di scrittura. Concordi?
Come dico nel pamphlet, queste attività sono da mettere in campo solo nel malaugurato caso (possibile, all’inizio) in cui non si abbia nulla di urgente da scrivere. In una simile situazione, possono essere utili per mantenere il ritmo – o meglio, il flusso – di scrittura, che è fra le cose più importanti, dato che la ricerca letteraria viene tanto dalla lettura quanto dalla scrittura. È tuttavia opportuno che ognuno trovi liberamente le proprie modalità operative, sempre però cercando di impostare progetti di scrittura a lungo termine, quindi, certo, i racconti vanno benissimo anche per chi in realtà punta a scrivere un romanzo (non dimentichiamo, però, che scrivere un racconto è ovviamente più facile che scrivere un romanzo, scrivere una buona raccolta di racconti è più difficile), io stesso negli anni della mia formazione ho portato avanti a lungo un progetto di scrittura per frammenti, che ha poi trovato approdo finale nel libro Personaggi precari, ma che aveva una sua ragion d’essere letteraria anche quando era “solo” un blog.
Per quanto mi sia sforzato, non ho trovato nulla da chiederti riguardo alla seconda parte del libro (capp. 4-8), dove invochi la necessità di evitare i cliché, di basarsi sui principi di necessità-specificità-conflitto, di revisionare tanto ma non subito, di cercare un confronto tra pari, di mettersi bene in testa quale sia la gavetta dell’aspirante scrittore e come si arrivi alla pubblicazione. Sono pagine esemplari in cui si respira la vera novità di questo libro (al netto di qualche consiglio già reperibile in altri manuali di scrittura).
Quindi vorrei chiudere quest’intervista ricollegandomi a La stanza profonda, romanzo che ho apprezzato molto quando lo lessi, un paio di anni fa. In esso confluisce la tua esperienza di giocatore di Dungeons & Dragons. Sei stato anche master, che nei giochi di ruolo è una sorta di arbitro-narratore. Questo mi offre una sponda per tornare a parlare di scrittura. Quanto questo tuo background ritieni sia stato un apprendistato da scrittore, dato che è proprio la narrazione l’anello di congiunzione tra i due mondi (D&D e letteratura)?
Direi di no. Il mio apprendistato di scrittore è stato la lettura di centinaia di romanzi. Anche quando ho scritto un fantasy (e non privo di suggestioni ruolistiche!), ho constatato come ventisette anni da dungeon master mi fossero serviti solo a essere un bravo – o almeno spero – master: troppo diverse le esigenze di una buona campagna ruolistica da quelle di un buon romanzo. L’unica eredità diretta è stata quella del metodo SIC, che senza le modalità di generazione collettiva di narrazioni proprie dei giochi di ruolo non esisterebbe. Poi, certo, è chiaro che avere a che fare con tante narrazioni aiuta il futuro scrittore, ma vale anche per i film e le serie che si guardano, per l’arte, per la musica, per i videogame. Quello che fa la vera differenza resta la quantità e qualità dei libri letti.