La sera a Roma di Enrico Vanzina è un giallo che ci restituisce un ritratto impietoso di Roma, ma con barlume di speranza. La recensione di Danilo Villani.
Titolo: La sera a Roma
Autore: Enrico Vanzina
Editore: Mondadori
PP: 192
Il fascino esercitato dalla stesura di un romanzo “giallo” è un richiamo irresistibile anche per chi dalla propria carriera artistica ha ricevuto più di una soddisfazione. La casistica lo dimostra: Giorgio Faletti che fu il precursore, Stefano Tura che alterna le sue corrispondenze da Londra alla stesura di gialli e thriller, Marco Bocci tra Scialoja e Calcaterra, tanto per citarne alcuni.
Enrico Vanzina, sceneggiatore e editorialista, fa parte indubbiamente di questa cerchia avendo già pubblicato due romanzi di genere con protagonista Max Mariani, ex avvocato caduto in disgrazia e divenuto investigatore privato per pura necessità. Nella sua ultima pubblicazione La sera a Roma Vanzina fornisce prova non solo di una scrittura fluida ed elegante ma veste al contempo i panni di osservatore spietato della Roma attuale.
A dire il vero Vanzina si era già cimentato, cinematograficamente parlando, con il giallo quando insieme al fratello Carlo curò il soggetto e la sceneggiatura di Mystère a cui fece seguito Sotto il vestito niente, produzione patinata con protagonista la Milano da bere, che si rivelò un cult-movie in piena sintonia con il periodo, quegli anni ’80 che sono stati fonte inesauribile di spunti per le produzioni dei due fratelli ovvero i film di Natale poi ribattezzati cinepanettoni.
Federico, sceneggiatore di successo, viene avvicinato da un consulente finanziario conosciuto in ambienti aristocratici “neri”. Senza mezzi termini gli viene chiesto di “agevolare” l’ingresso in ambito cinematografico di un suo protégé, tipo bello, aitante ma privo di ogni dote artistica. Il nostro si riserva di fornire una risposta ma il giovanotto viene trovato poche ore dopo l’incontro fulminato da due colpi di pistola dando inizio a un susseguirsi di fatti che vedranno direttamente coinvolto il protagonista con più di un colpo di scena.
La struttura del romanzo richiama indubbiamente il giallo classico ma scorrendo le pagine, si percepisce più di una traccia di noir. Innanzitutto il contesto: non Roma nord o Roma sud ma Roma centro. Quel centro pieno di palazzi patrizi retaggio di famiglie “nobili” nella forma ma vuote nella sostanza, quel centro dove la sporcizia, il caos, la pirateria automobilistica sono divenute pratiche comuni, quel centro dove le botteghe artigianali hanno ceduto il passo alle paccottiglie made in china. E analogo trattamento ricevono i “romani” un tempo avvezzi al sorriso, alla battuta ma oggi cupamente rassegnati e incattiviti dentro.
Come scritto in precedenza, l’autore indugia anzi enfatizza queste situazioni creando il giusto disagio al lettore ma, quasi come un placebo, offre dei rimandi, delle citazioni (chiaramente autobiografiche) ricordando con amore personaggi come suo padre Steno, Dino Risi, Mario Monicelli i padri della fantastica commedia all’italiana nonché uno dei suoi cavalieri, Alberto Sordi valore assoluto della più pura romanità.
Molteplici le caratterizzazioni, dal marchese spiantato e rigorosamente gay al commissario preposto alle indagini, dal cronista di nera assetato di notizie sul delitto alla nobile di nascita e alla nobile di conseguenza con matrimonio ad hoc: la principessa Lavinia indubbia protagonista femminile del romanzo. Vista da una certa angolazione, può richiamare alla memoria un personaggio scomparso in tempi recenti che ha lasciato il segno nella movida e nel gossip romano fin dagli anni ’60.
Il ritratto di una certa Roma come definita dallo stesso autore “da basso impero” è impietoso ma presume anche una certa speranza nel futuro. D’altronde la vecchia mignotta è sopravvissuta a Nerone, a sette sacchi quindi nessun dubbio sulla sua capacità di risorgere. Altro che araba fenice.
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