La traversata notturna, la recensione di Maila Cavaliere del romanzo di Andrea Canobbio incluso nella dozzina del Premio Strega 2023.
- Titolo: La traversata notturna
- Autore: Andrea Canobbio
- Editore: La Nave di Teseo
Nei libri che preferisco c’è come la sensazione di una mancanza. Nei libri che amo di più c’è l’eco più o meno evidente di spiriti guida e scrittori che accompagnano la narrazione, un trasporto eccezionale non semplice, che paga sempre un debito di ossessione e riconoscenza.
Così nello splendido romanzo di Andrea Canobbio La traversata notturna, nella dozzina del Premio Strega di quest’anno, si assiste alla formalizzazione letteraria, intima e ingegneristica della storia di un recupero: un sommerso durato decenni di cui la metafora iniziale del fosso è l’emblema.
Una solida costruzione narrativa
Il vuoto, l’abisso pericoloso e oscuro della depressione paterna, tuttavia, non possono essere del tutto colmati e appianati nemmeno dalla scrittura ma incombono ostinatamente su equilibri, ricordi, percezioni.
E così l’autore mette in campo una solida e strutturale costruzione narrativa con cui prova a bilanciare la potenza demolitrice della malattia che invece consuma energie, possibilità e fiducia. Conscio del groviglio tematico del quale è quasi impossibile tirare le fila, perché tra fattori predisponenti e fattori scatenanti , la depressione non dà risposte, ma lascia aperte domande e ferite, Canobbio chiama a raccolta tutti i suoi numi tutelari da Perec a Del Giudice, da Queneau a Calvino, da Nietzsche a Rousseau, passando per l’antropologia di Lévi-Strauss e le ricerche etnografiche di Leiris e Griaule, come se la scrittura si facesse a un certo punto freudianamente costellata di lapsus e distrazioni che distolgano lettore e scrittore dal dichiarato o servano a procrastinarne almeno la fine.
Sullo sfondo, la città di Torino si anima nel racconto di 81 suoi luoghi, tanti quanti sono i capitoli del romanzo, disposti all’interno di una scacchiera. L’ultimo, via Gioberti 29, è il cuore di questa storia, la strategia di un movimento centripeto che, pur in una parziale disambiguazione, si fa scenario di una storia d’ “amore asintotico” turbata dalla guerra, dalla depressione, dalle cose della vita, dalla grafia incerta e impaziente dell’indirizzo scritto sulle missive ma che resta centro, riferimento, sponda.
Il talento di Andrea Canobbio è quello di coniugare il centro con la periferia, l’argomento con la divagazione, il percorso con le sue deviazioni e soste, il tempo e lo spazio, la luce diretta con la sapiente e necessaria rifrazione, in una nuova mitologia (Telemachia, potremmo dire) e cosmogonia del viaggio.
Un romanzo stratificato e denso
Nasce così un romanzo stratificato e denso, suggestivo eppure pieno di leggerezza, scritto in un continuo esercizio di misura ed elencazione quasi che la lucida ricerca di una simmetria e la sapiente tessitura lessicale potessero condurre il suo autore a un “ tentativo di esaurimento di un luogo”– per dirla con Perec, così caro a Canobbio- e di un tempo perduto e ritrovato.
Nelle 520 pagine del libro, nel robusto impianto narrativo, non si cede mai alla seduzione dell’esattezza. Ogni frase, ogni ricordo, ogni episodio, ogni fotografia raccontano della fallibilità della memoria, della difficoltà del (ri)conoscere e del (ri)conoscersi, della possibilità e del dubbio.
Ha appena finito di scrivere un romanzo di settecento pagine, un universo di storie, di cose e di parole. Ma ha imparato che si scrive anche contro se stessi, che i padri non bastano mai e che il puzzle, e la letteratura, restano sempre incompiuti.
Lo scrive proprio Andrea Canobbio nella prefazione a un’edizione italiana di Le cose di Georges Perec ma vale come poetica di sé stesso. Da non perdere!