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Via della Libertà. Una via che porta lo stesso nome di una nave negriera spagnola, che molti secoli prima fendeva le acque dell’Atlantico con il suo carico di carni nere, stipate in uno spazio vitale di settanta centimetri quadrati a testa. Gambe e braccia di schiavi aggrovigliati tra gli escrementi e i fetori di una stiva, in rotta verso l’inferno.
Qui batteva una nera, arrivata in Italia come tante altre donne, attraversando il Mediterraneo su una barcarola, stringendo al petto un bambino di pochi mesi. Il piccolo aveva occhi verdi, iridi cristalline, colme di tesori, come le profondità marine. Le era stato affidato al porto di Tangeri da una sconosciuta. Una marocchina che si aggirava sul pontile scalza, vestita di veli, stringendo quel cosino immobile, coperto di stracci. Quella donna l’aveva puntata, fra tutte le altre, e le era venuta incontro con il suo piccolo bagaglio. Si era chinata senza dire una parola con le braccia tese, su cui danzavano le vesti, simili alle ali di un uccello ferito. Le tendeva il fanciullo. La ragazza nera indietreggiava, tentando di fingere di non capire. Ma gli occhi della donna le chiesero qualcosa che nessun essere umano può dire a parole, si aggrapparono ad un sentimento saldo e profondo che albergava nel suo cuore e che era sopravvisuto agli insulti e alle botte degli uomini e alla crudele sete del deserto. La nera non poteva rifiutare quel dono, nè cercare la fuga. Allungò le mani e prese il piccolo tanto bello, pensò in quel momento, quanto un Gesù Bambino. Quando alzò lo sguardo l’angelo che lo aveva portato era già svanito. Strinse al petto quel corpicino rugoso e lo cullò a lungo.
Il fanciullo morì una settimana più tardi, quando ormai la nave degli emigranti era nei pressi di Lampedusa, probabilmente perì per fame o per disidratazione. Forse, quando l’angelo lo aveva consegnato alla nera, il piccolo era già malato, forse riporlo nelle braccia della sconosciuta costituiva l’ultimo, disperato, tentativo di salvarlo da una morte certa.
Spesso tra un cliente e l’altro, la nera rivedeva ancora quegli occhietti spenti dopo i lunghi giorni dell’attraversata, ricordava quelle manine rigide, quelle piccole labbra lacerate dal sole annegare, quando lei stessa aveva abbandonato nel ventre del mare quel freddo e smunto sacchettino di stracci.
E allora le veniva da piangere. Dio mio quanto piangeva.
– Che cazzo hai che piangi? Le chiedevano i clienti tra il collerico e l’intenerito.
Via della Libertà. Non lontano da Malbò, anonima frazione di un paesotto del vicentino. C’erano un’aiola e dei cespugli, dietro ai quali la nera intratteneva i clienti più frettolosi. C’era una vecchia cabina telefonica, dimenticata chissà come dagli operatori Telecom, che serviva agli unici usi per cui era ancora lì: pisciare, dormire, scopare. Vi erano un paio di piloni dalla luce color aranciata, con più acqua che succo d’arancia, e lo stradone d’asfalto, simile al dorso di un mostro silenzioso. Era lì che la nera, triste, pantera nigeriana praticava. Poco più in là le colleghe la guardavano con uno sguardo preoccupato da quando, nel parcheggio di fronte, avevano preso posto le auto dei travestiti.
Non erano neri, ma bianchi, uomini a cui, pensava la nera, non mancava niente: lo facevano solo per sfizio, spinti dal capriccio. Normalmente il gruppo di froci arrivava verso le undici di sera, quando il traffico feriale era ormai terminato e lungo la statale si manifestava una pacata atmosfera d’intimità. Ciondoli del vicentino, ma anche della provincie di Verona e di Padova, che si davano appuntamento via internet, per tuffarsi in scopate feroci nelle utilitarie ammaccate, facendo cigolare le loro chiappe. Parcheggiavano le auto in semicerchio, spalancavano le portiere ed alzavano leggermente il volume degli stereo. Ascoltavano brani tipo: Besame mucho, Cuore matto e tutta la raccolta di Caetano Veloso. Uscivano per chiacchierare, allungando gambe lisce e snelle fuori dalle auto, con l’eterea eleganza dei fenicotteri. Le loro teste imparruccate svettavano ad annusare l’aria intorno, mentre i lucenti capelli di nylon si incollavano agli angoli delle loro bocche dipinte o sulle bocce finte. Avevano bianchi culi sodi, strizzati in scadenti abitini di lustrini. Fumavano e civettavano fra loro, come delle amiche che si sono incontrate per caso ad una festa, miagolando stupite attorno ad un vestito o ad una acconciatura. Poi squadravano le nere che battevano nel marciapiede di fronte, facendo cenni d’insufficienza, soffermando sguardi di dissenso su una scarpa consumata o su una calza smagliata. Erano puttane libere. Andavano e venivano, battevano in piena autonomia varie zone della provincia e oltre.
Da quando c’erano loro, gli incassi delle battone africane erano diminuiti drasticamente e Drago, il boss, era incazzato, molto incazzato.
Drago era uno slavo originario di Novi Pazar, una cittadina del Sangiaccato, regione della Serbia occidentale a pochi chilometri dal Kosovo. Immigrato in Italia una decina d’anni prima, egli masticava un italiano pesantemente condito con dialetto vicentino e gergo serbo, indigesto ai più. Drago era alto e ben pasciuto, ogni volta che scendeva dalla sua Mercedes bianca metteva in mostra l’addome rotondo, sopra il quale i bottoncini della camicia sembravano soffrire. Era brutale, ed odiava i culattoni. In verità c’erano molte cose che il boss detestava. Si era talmente ben integrato nella realtà veneta da trovare insopportabili i politici dei palazzi, le zanzare tigre e, in generale, tutto quello che proviene dall’Asia, e i terroni che occupano i posti statali. E terroni per lui, come per buona parte dei veneti, sono tutti coloro i quali abitano dal Po in giù. Rubano il lavoro, diceva.
La verità è che in passato degli affiliati della ‘Ndrangheta lo avevano inculato un paio di volte nel traffico di auto rubate. Per causa loro Drago si era fatto due anni di galèra. Una volta uscito si era dato al traffico dei clandestini e in seguito all’attività di pappone.
Eccolo arrivare, Drago, a bordo della sua auto ed accostare a fianco alla nera.
– Monta kurva! L’apostrofò con voce tonante, spalancando la portiera.
La donna si avvicinò e salì senza fiatare.
– Peder de merda, i xè sempre fra i pie. Devo trovare un modo para liberarmene. I ne frega i clienti opure i nei spaventa. Peder! I me fa pì schifo dei teroni. Confidò il pappone alla sua schiava.
– Rottinculoooooooo!- Urlò infine, sgommando loro davanti, alzando una nuvola di polvere che andò ad insabbiare i saldali di una biondina smunta, dalle occhiaie profonde, la quale lo mandò a cagare con uno squittìo.
Mercoledì, ora dell’aperitivo. L’auto di Drago, che trasportava la nera, passava lungo il centro di Malbò e si fermava a duecento metri dalla chiesa della Madonna delle Grazie, davanti alla ricevitoria di Piero Ladro. Lo slavo chiese alla donna con quanti uomini fosse andata quella settimana e, come ogni mercoledì, andò a puntare i numeri del Superenalotto. Ignaro che la nera mentiva sempre.
Piero Ladro, l’anziano proprietario del negozio, lo conosceva da tempo. Drago gli passava una ragazza ogni sabato, poco dopo l’orario di chiusura, quando erano tutti alla messa delle sette e mezza, sua moglie compresa. La ragazza destinata s’intrufolava dalla porta sul retro e Piero la prendeva a pecorina con ardore, grazie alla pillolina blu. Quanto gli piaceva! Soprattutto quando a venire era la piccola Cleo. Egli si era segretamente innamorato di Cleo e le faceva spesso dei regalini che prendeva dalla bottega: mollettine per capelli, qualche collanina, alcuni pacchetti di sigarette, delle caramelle.
Finita la sua performance, si avviava verso il sagrato della chiesa, dove attendeva la moglie Ada, per portarla a mangiare la pizza al Canton, una delle due pizzerie del paese. Si sentiva così felice e rinvigorito che ricominciava a fare la corte alla compagna, la quale, con il cuore confortato dalla messa, lo osservava orgogliosa, aggrappandosi al suo braccio, pensando che il suo Piero, nonostante l’età, fosse ancora un bell’ometto.
Quella sera, non appena vide il suo amico forèsto, Piero gli chiese impaziente di Cleo.
– Cleo, ti costerà di più amico mio – Gli disse Drago – Quei peder ci stanno fregando. Gli affari vanno di merda da quando ci sono loro. Una sera di queste vado a spaccare il loro culo, quanto è vero che mi chiamo Drago!
– Non importa- ribattè Piero senza prestare attenzione alle sue parole – l’ aspetto sabato, mi raccomando, non fare scherzi.
– Bè vediamo, le piccoline sono quelle che ci rendono di più, se non fosse per loro…
– Sì sì, va ben. Dopo per il prezzo ci mettiamo d’accordo. Ma falla venire, par piasere. – Poi aggiunse- Sto chiudendo, vieni dalla Onta che ti offro uno spritz.
La Onta era un bar a nord del paese, a pochi passi dalla tabaccheria- ricevitoria di Piero. I due si avviarono fumando, dimenticando che, rinchiusa in macchina, c’era la nera, ad aspettare.
Lei li vide allontanarsi e capì subito che ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che i due si decidessero a tornare indietro, perciò pensò di chiudere gli occhi e di abbandonarsi al ricordo dell’Africa. Sognava di quando era bambina ed aiutava la sorella maggiore ad attingere l’acqua al pozzo, con capienti taniche di plastica. L’acqua veniva alla luce scherzando con i raggi del sole, brillando preziosa, il tesoro più ambito. Allora lei tornava a casa con il cuore gonfio d’orgoglio e di gioia.
La Onta era una bettola, di quelle tipiche di provincia, con il pavimento di piastrelle scure ed un arredamento misto tra il circolo dopolavoro e l’oratorio. Appese ai muri, alcune foto di Maria – la proprietaria del locale – in costume leopardato, scattate in un villaggio turistico di Sharm El Sheikh, completavano l’opera.
Il bar era frequentato principalmente da due gruppi generazionali. Il primo formato da una decina di ragazzini tra i tredici e i diciassette anni, i quali passavano il tempo a succhiare caramelle, ingollare spuma, giocare a biliardo o con le macchinette. Il secondo composto dai pensionati del paese, per i quali il bar era una seconda casa, poichè trovavano nell’alzata di gomito una piacevole attività e nella proprietaria un’imparziale confidente circa i loro problemi matrimoniali. Tra un’ombra e l’altra, questi ultimi masticavano molli noccioline che s’infilavano tra le dentiere, chiacchieravano del più e del meno, puntavano una mano di briscola.
Dentro alla vetrina del bancone, tra le pizzette fredde e i tramezzini rigonfi, ronzavano stancamente un paio di mosche che s’ agitavano ogniqualvolta il braccio pienotto di Maria s’allungava per afferrare un’ordinazione.
Maria, detta anche La Onta o La Tetona, era una donna sulla cinquantina, portava sempre vestiti fioriti, attravarso i quali s’intravedevano il bordini ingialliti del reggiseno e grossi e generosi capezzoli.
– Bonasera Maria, fane do’ spriz valà. L’apostrofò Piero entrando.
– Bonasera signor Piero – rispose la padrona chinandosi sul banco e sorridendo al ricco pappone che, sapeva, aveva un debole per il suo decoltè – Signor Drago, come vala?
– Xè tempi duri questi – fece lui passandosi una mano tra i capelli.
– Dai, tutti abbiamo le nostra croce da portare, vero o no?- Aggiunse lei con aria diplomatica.
– Sì sì, apunto! Non serve a gnente lamentarsi – Le fece eco Piero.
Piero e Drago s’intrattennero dalla Onta per circa un’ora. Il primo cercò di asciugare lo stomaco dilatato dagli spritz con un paio di tramezzini, poi decise che doveva rientrare a casa, pagò il conto e si dileguò. Il secondo rimase ancora un po’ ad osservare alcuni ragazzini attorno al tavolo del biliardo, i quali discutevano circa l’esito di una partita, quando gli venne un’idea.
Il serbo si avvicinò al ragazzo più alto.
– Come te ciàmi?
– Angelo.
– Quanti anni hai?
– Diciassette.
– Lo farissi tu e i tuoi amici un lavoreto per me?
Angelo sfrecciava contento a bordo del suo scooter truccato, si sentiva leggero. Un lavoretto semplice e rapido, un gioco da ragazzi. E poi –pensava- quelle checche di merda avrebbero avuto ciò che meritavano. Con i soldi guadagnati lui e i suoi amici avrebbero fatto un’estate alla grande! Sarebbero potuti andare persino qualche giorno in vacanza da soli, avrebbero potuto prendere in affitto un appartamento a Jesolo. La sera, avrebbero girato bar e discoteche dove avrebbero rimorchiato le fighe. Fantastico! Un’estate di droga, sesso e rock’n roll. Il serbo, oltre al denaro, aveva promesso loro un bel po’ di bamba. Angelo non l’aveva provata mai, ma ai suoi amici aveva detto di sì, che una volta aveva tirato, ad una festa, ma che era così ubriaco che non si ricordava bene chi gliela avesse offerta. “Bale!” L’aveva ripreso Giulio, ed egli aveva risposto con un’occhiata iniettata d’odio. Poi lo aveva spinto a terra minacciandolo, con il risultato che, da quel giorno, il cugino non ebbe più il coraggio di contestarlo.
Angelo pensava che, a breve, avrebbe potuto mettersi in affari con il serbo, diventare il suo braccio destro. Tanto a scuola non ci voleva andare più. Non sopportava un giorno in più quella stronza di una professoressa di lettere che gli stava sempre col fiato sul collo, chiedendogli di continuo compiti e relazioni per casa che lui non aveva nessuna voglia di fare. E poi si ostinava a chiamarlo fuori interrogato, “per recuperare” diceva la baldracca, quando sapeva benissimo che a lui di letteratura non gliene fregava un cazzo. La mamma stessa gli aveva detto di trovarsi un lavoro: visto che non studiava mica poteva bighellonare al bar tutto il giorno. Ed il lavoro era arrivato.
Angelo guidava eccitato verso la vecchia centrale elettrica, dove lui e i suoi amici avevano appuntamento con il serbo, che li attendeva per definire i dettagli del raid.
– Devo mettere del correttore per nascondere queste borse mostruose.
Pensò Lulù sgranando gli occhi blu, davanti allo specchio del bagno. Lo pensava sempre ma non lo faceva mai, perchè, in fondo, il suo piccolo volto tragicamente sfatto le piaceva. Si osservava con uno sguardo pittosto critico, fingendo insoddisfazione, un cruccio questo ereditato dalla madre. Indossava collant color carne e reggiseno rosa imbottito di cotone. Lei le tette finte non se le era fatte. E non credeva di averne voglia. Mica poteva presentarsi in banca con due bocce che schizzavano fuori dalla camicia e sedersi dietro alla scrivania dell’ufficio e ricevere clienti come se niente fosse. E poi il solo pensiero di un intervento chirurgico la faceva rabbrividire. Certo, le sarebbe piaciuto avere due belle tette tonde e sode come quelle della nera che batteva nel marciapiede di fronte, quella sì che era una femmina. Chissà da dove veniva, com’ era sbarcata in Italia, da quanti clienti si faceva sbattere a sera, che parcella chiedeva. Fin da subito aveva notato quei suoi occhi d’ebano, profondissimi, scrutare con severità lei e le sue amiche. E poi sussultare di paura quando le si era avvicinata quella Mercedes bianca. Forse dentro c’era il suo pappone. A quel pensiero Lulù si sentì quasi in colpa.
Con un colpo di spugna sciacquò via l’ombra di pensieri che le avevano oscurato il volto ed iniziò a fantasticare sui ragazzi che avrebbe incontrato quella sera. Li aveva contattati in chat. Uno diceva di chiamarsi Franco e di avere ventotto anni. Lulù ci ciattava da una settimana. Franco si doveva sposare l’anno prossimo, ma -le aveva cofessato- con la sua ragazza non gli tirava più. Si eccitava invece al pensiero di penetrare un ragazzo vestito da bambina.
Un brivido di piacere percorse la schiena di Lulù. Doveva prepararsi: tra un po’ Jolie sarebbe passata a prenderla. Sistemò i capelli biondo cenere, infilò in uno zainetto mimetico un vestitino rosa in stile scolaretta, un paio di scarpe rosse con il tacco a spillo e, infine, una borsetta di vernice color ciliegia rigonfia di preservativi tutti i frutti.
Squillò il campanello. Luca entrò in un’ampia tuta blu e scese di corsa le scale del condominio. Lulù avrebbe dovuto aspettare.
In macchina Luca si sfilò la tuta e procedette a trasformarsi nella piccola bambolina Lulù, dal vestitino rosa e dalle borse sotto agli occhi, questo era il suo stile: un po’ parigino e un po’ decadente. Alla toilette dell’autogrill di Limenella lei e l’amica si sitemarono il trucco e ne approfittarono per tirarsi una striscia di coca.
11 giugno, una notte calda e umida in tutta la pianura, sintomo di un’estate precoce che i metereologi, quell’anno, definivano “africana”. Le zanzare si moltiplicavano sulle rive dei fossi, spostandosi poi in piccoli, minacciosi, nuvoloni neri, assetati di petti e di cosce, di carni accaldate che sudavano all’aria, libere da fastidiose ed inutili vesti.
La scuola era appena terminata ed Angelo non ci sarebbe più tornato. Quella notte, al capannone abbandonato dell’ex centrale elettrica, egli era in compagnia degli amici di sempre: Giulio, Giacomo e Alberto, di qualche anno più giovani di lui. I ragazzi avevano dato un paio di tiri a testa della bamba che il serbo aveva loro anticipato e si scolavano qualche birra, giusto per rilassarsi un po’.
– Il serbo ci ha dato della merda proprio buona- fece Giacomo.
– Amo questa merda!- Disse Alberto, corteggiando il pacchetto di fuffa, avvicinandola al volto come per contemplarla meglio. Ma gli uscì, inaspettato, uno starnuto che fece volare parte della preziosa polverina bianca sopra il volto di Angelo.
– Ma che cazzo fai! Sei rincoglionito?! Sai quanto vale questa merda? Rassa de mona! – Urlò Angelo, avventandosi su Alberto, strappandogli il sacchetto di coca con furia.
Ci fu silenzio per un po’. L’aria si fece tesa, nessuno aveva voglia di parlare.
– Io me ne vado – La voce di Giulio rimbalzò sulle pareti della fabbrica come un piccolo tuono lontano.
– Dove cazzo vai? Dove cazzo vai?- Ripeteva Angelo schiumando rabbia.
– Me ne vado, perchè sono stufo di farmi comandare da te, me ne vado perchè a me quelle checche non hanno fatto gnente e non voglio casini.
Vomitò queste parole alzandosi in piedi, recuperardo il casco ed avvicinandosi al motorino. Ma fu prontamente bloccato da Angelo che gli si gettò addosso afferrandolo per le spalle.
– Lasciami andare.
– E chi mi dice che non andrai a raccontare in giro quello che stiamo per fare? Ci sei dentro anche tu. Se non vieni con noi giuro che ti ammazzo.
Giulio sapeva che il cugino non scherzava. Lo aveva visto, una volta, affogare un gatto adulto nella vasca di casa, solo perchè gli stava sui coglioni.
– Giuro che ti ammazzo – Ripeteva Angelo con voce pacata, guardandolo dritto negli occhi con la fermezza di chi non mente.
Giulio non poteva procedere oltre: si sedette vicino agli altri e iniziò a piangere un pianto sommesso e soffocato, che tamponò con furiosi sorsi di birra.
– È ora – proclamò il capo.
I ragazzi raccolsero le mazze ed avviarono i motorini. Angelo fece qualche numero all’interno del capannone, mandando sù di giri lo scooter, facendo roteare il bastone sopra la testa, come un capo guerriero che voglia incitare i suoi.
Quella calda notte la nera sentiva un peso al cuore. L’ultimo cliente le aveva sborrato in faccia uno sperma acido che sapeva di latte cagliato. Aveva provato ad evitarlo, ma lui, con le sue mani callose da camionista, le teneva la faccia ferma perchè desiderava che le arrivasse in bocca.
Una volta riaccompagnata al suo marciapiede, la nera entrò nella cabina telefonica per ripulirsi il collo ed i seni con delle salviette umettate, quando sentì un rombo di motorini giungere dallo stradone, seguiti da una serie di urla e di colpi soffocati. La donna si voltò e vide, attraverso i graffi e le scritte con l’uniposca che rigavano il vetro, delle persone colpire le checche che stavano dall’altra parte. Subito non capì, ma poi pensò a Drago e alla sua vendetta. Vide alcune ragazze precipitarsi nel campo, seguite da due figure. Vide qualcuno, forse un ragazzo, prendere a mazzate il cruscotto di una Uno parcheggiata, poi aprire la portiera e sbatterci il bastone dentro con furia omicida, come se si trattasse un pugnale. Vide una checca nerboruta dai capelli rossi afferrare un secondo uomo, sbatterlo a terra e pestarlo con il tacco di una scarpa. Vide, o credette di vedere, del sangue schizzare dappertutto, mischiarsi con polvere ed erba. Vide la piccola ragazza bionda quasi spezzarsi sotto il colpo brutale di uno degli aguzzini. Poi tre dei quattro figuri risalirono sui loro motorini e volarono via, forse senza accorgersi che mancava uno di loro. Tutto si era consumato con una velocità mostruosa. Un paio di auto, compresa la Uno, ripartirono sgommando.
La nera si precipitò fuori dalla cabina ed attraversò la strada di corsa. Sentiva dei lamenti provenire dal campo adiacente, dove l’erba era alta. Si avvicinò e vide, nei pressi di un fosso, il corpo supino della bambina dalle occhiaie profonde piangere e contorcere la schiena.
– Aiutami, aiuto – belava tra le lacrime, simile ad un agnello precipitato in un dirupo.
La nera si chinò su di lei, per controllarne le ferite. Aveva un taglio all’attaccatura del naso, da cui sgorgava sangue vivo che si mischiava all’acqua d’irrigazione. Le gambe erano sbucciate in vari punti, il sangue andava rapprendendosi attorno alle calze slabbrate.
– Aiutami, portami alla macchina – fece la biondina cercando di raddrizzarsi.
La nera ubbidì, sorresse la ferita sulle sue spalle e la accompagnò all’auto che lei le indicava.
Qualche passo più in là videro il corpo di uno degli assalitori giacere a terra.
– Maledetto stronzo! Spero che tu sia morto! Urlò la checca tra i singhiozzi, con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
La nera appoggiò Lulù alla portiera della macchina e si avvicinò a quel corpo immoto. Il costato era trafitto da pugnalate procurate con il tacco a spillo di un’imitazione di Gucci, che giaceva insanguinata poco più in là, una sorda complice, criminalmente bella. La donna appoggiò l’orecchio alle labbra del ragazzo che portava ancora il casco: non respirava più.
– È morto? – Pigolò la biondina, quasi a sento, con la voce spezzata dall’emozione.
La nera annuì, poi ordinò:
– Monta in macchina.
Lulù aprì quasi a stento la portiera e strisciò dentro con un lamento. La nera chiuse gli occhi del ragazzo, poggiandogli due dita sulle palpere e facendole scivolare con dolcezza verso il basso. Avrà forse quindici anni – pensò. Poi si scostò, aprì con fermezza la portiera dell’auto e si sedette al posto guida. Bisognava fare presto: tra poco in quel luogo sarebbe scoppiato il caos.
Lulù la osservava incuriosita.
– Hai delle tette strepitose – le disse – Come ti chiami?
– Lucy.
– Bè Lucy, sai guidare?
– Ora vediamo, fino a questo momento non sapevo neppure di saper parlare – rispose- Dove dobbiamo andare?
– A casa.
– Bene, è lì che andremo.
– Sai – aggiunse Lulù non appena presero il largo da quella scena d’orrore e di devastazione – credo di essermi innamorato di te fin dalla prima notte che ti ho vista.
La nera sorrise e guardò gli occhi pesti della sua piccola amica, il naso sporco di sangue rappreso, le guance rigate dal trucco colato.
– Mi prenderò cura di te. Le promise.
Alle prime luci dell’alba, mentre Lucy e Lulù avevano appena imboccato la A4, in via della Libertà erano già arrivate le forze dell’ordine. Nel corpo del ragazzino maciullato da colpi di tacco venne identificato Giulio Masetto, quindici anni, nato a Riene ma residente a Malbò. Gli sbirri notarono le tracce di una lunga colluttazione sparse nell’intera zona circostante. Quattro mazze da baseball sporche di sangue, vetri rotti e tracce di pneumatici sul terreno. Il caso aveva tutta l’aria di una bravata finita male, una ragazzata improvvisata messa in piedi dai giovani del paese, magari per passare il tempo.