La volta in cui vidi Ascanio Celestini a teatro, un nuovo articolo di Luca P. Trombetta per Sugarpulp

Il teatro. Luogo lontano, obsoleto, para-artigianale. Eppure esiste, eppure c’è, eppure c’è chi lo pratica, chi lo guarda, chi paga per andarci. Come è successo a me in un sabato di metà Aprile, in una città in cui sembra primavera tutto l’anno.
 Napoli. Vi parlo del Teatro Nuovo, un teatrino con un centinaio di posti in platea ed una cinquantina di posti in galleria.

Un teatrino di quelli sperduti, perso nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, tra le vie di quello che sembra un presepe a tiratura limitata, con facciate impregnate d’umanità, consunte dall’odio verso la vita. Motorini, bassi, odore di cibo, turisti che si sono persi e poi io. Rigorosamente in ritardo, nove e zerocinque, con la maschera che sussurra “L’artista sta parlando al pubblico, lo spettacolo è iniziato, si accomodi in silenzio e spenga il cellulare”.

Ed infatti l’artista già lo sento parlare, è la stessa voce che sentivo ai tempi in cui guardavo la Tv, la stessa dei filmati su YouTube, dei DVD che raccontano i suoi spettacoli. E mi accomodo. L’artista è lì, protagonista nella grotta a tiratura limitata del presepe a tiratura limitata. Dinnanzi ad una platea intera che non vede l’ora di ascoltare un cristo che, da solo, parla per due ore consecutivamente. Parla l’artista, lo stesso con la barba ed i capelli lunghi che sta nel manifesto, quello messo proprio all’esterno del teatro, lo stesso che guardavo in TV, e su YouTube, e sui DVD, ma così, da vicino, sembra diverso. La barba è più lunga, i capelli sono più lunghi e lui è più rilassato. Meno impostato, libero dalla dittatura temporale imposta dalla telecamera, a suo agio in una camicia celeste sbiadito. E parla, e sono certo che questo farà per le prossime due ore.

Parla d’attualità, attualità un po’ vintage ma pur sempre attualità, e mentre lo fa ripete ad un pubblico attivissimo, mosso da un’atipica interattività, che lo spettacolo inizierà a breve. Le luci sono ancora accese e l’artista parla, parla, parla, come se non ci fosse fretta. Come se non ci fosse uno spettacolo da mettere in scena. E ti fa ridere. Come un amico al bar ti chiede un parere retorico, qualcuno erroneamente risponde dal proprio posto, ed è tutto bello, tutto libero, tutto strano. Poi l’artista smette di parlare e le luci si spengono. 
Ecco, quello è il segnare che lo spettacolo non è iniziato. Bensì continua. A luci spente, dopo il monologo più naturale del mondo, si intravede la sagoma dell’artista girovagare per il palcoscenico. Una voce fuori campo (quella dell’artista) parla, mentre quest’ultimo circumnaviga la scenografia e sistema da se il palcoscenico.

Poi beve, si liscia la barba, accende una luce e ricomincia a parlare. Ma forse qui è meglio dire “recitare”. Perché l’artista è sì uno scrittore, uno sceneggiatore, un regista. Ma è pur sempre un attore. Un ottimo attore. E con il volto illuminato da una lampada comincia a recitare il monologo del suo personaggio. Dopo un po’ ne recita un altro, sotto un’altra luce. Poi un altro ancora. Tutti hanno la stessa faccia, tutti la stessa barba con la stessa camicia e la stessa voce. Ma ognuno parla una lingua sua, ognuno ha una personalità sua, ognuno è una storia a se. Cosicché, utilizzate tutte le lampade presenti sul palco, l’artista non sale in cattedra e comincia il suo “Discorso alla Nazione”. Metafore intrecciate come cesti in vimini, vigorose sostenitrici del peso della parola. Discorsi che fanno da recipiente a quintali di filosofia e sociologia, espresse nel più naturale dei modi, con la parola, semplice, pulita, libera da qualsivoglia orpello.

Dando vita ad uno spettacolo accessibile a tutti, con pretese pulite e lontane da ogni tipo di egocentrismo. Un fiume in piena che straripa con un motivetto cantato a cappella e che ti resta dentro, come gli interrogativi e le riflessioni che ti ritrovi nella testa anche il giorno dopo. Finché poi rubato l’ultimo applauso, l’artista non riprende la parola, un “Grazie e… buon sabato sera”, in linea con tutto ciò che si è visto. E via le luci, via il sipario, via pure l’artista che poi è attore, scrittore, regista, sceneggiatore, one man show di quelli che la televisione non si merita.

Via il tempo che è passato senza nemmeno farsi notare, tanto che la gente sussurra in platea e si dice “Ma come è già finito?”, “E questo è?”. La stessa gente zittita dall’orologio che segnava le undici meno un quarto. Gente come me che, ad oggi, raccontano di quella volta in cui videro Ascanio Celestini a teatro.