Le Assi, un racconto di Giovanni Fioretti

Un rumore sordo.

Qualcosa gratta incessante le assi di legno inchiodate alla finestra e i timpani inchiodati al cranio. Da dieci interminabili minuti un essere abominevole, un’aberrazione bipede e ciondolante cerca di farsi strada illuminata dal funereo chiarore delle stelle.

Un’intera giornata trascorsa tra quattro mura, nell’attesa di fantomatici soccorsi, aspettando che i vivi tornino a popolare la superficie, e i morti il sottosuolo.

Un’intera giornata persa a ripensare agli errori commessi, alle barricate troppo fragili e all’insaziabile fame dei mostri là fuori.

Il suono che esce dalla gola rancida del non-morto somiglia a un monotono muggito, interminabile lamento zombie. Le sue orbite cieche mi fissano da una sottile fessura e mi fanno ammattire.

Gli occhi sono la parte anatomica che maggiormente ci distingue da loro: il più stupido degli esseri umani ha una vitalità e uno scintillio nello sguardo da fare invidia al più potente e spietato dei morti viventi, se solo potesse goderne.

Troppi hanno fissato stoltamente il riflesso del proprio sguardo sulle glauche pupille di un non- morto, rimanendo scioccati da quella placida vacuità; nessuno ha mai potuto raccontarlo ad anima viva.

Dalla porta d’ingresso irrompe un battere di pugni ritmico, e Barbara sobbalza dalla sedia sulla quale pensavo avesse messo radici.

– Chi cazzo è? Ce n’è un altro? Quei fottuti invasati sono ovunque! E’ la fine. Giorgio dobbiamo andarcene oppure entreranno, stanotte entreranno e ci faranno a pezzi! –

Mi volto e la fisso sfidandola a proseguire.

La zittisco all’istante.

Prima che il segnale televisivo e quello radiofonico fossero interrotti dal blackout, non si parlava d’altro che degli attacchi sempre più frequenti, dell’esercito ormai ridotto a poche unità inviate a proteggere sedicenti VIP e deposti leader politici, delle innumerevoli fosse comuni pullulanti di cadaveri crivellati da pallottole, dei bersagli di carne abbandonati senza alcuna pietà, ma con grande soddisfazione di mosche e vermi, già intenti a banchettare tra interiora maleodoranti, orbite sfondate e indefinibili cavità.

I network facevano a gara per trasmettere titoloni sensazionalistici, come se gli ascolti contassero ancora qualcosa e in strada spacciatori e papponi rappresentassero i pericoli maggiori.

Credo di essere l’unico ad aver colto la minaccia incombente in tutta la sua gravità.

– Non c’è più posto all’inferno, i morti camminano sulla terra. –

Se George A. Romero non fosse già stato dilaniato da due affamate comparse del suo ultimo film horror, ne sarebbe orgoglioso.

– Se ti ascolto e apro la porta lo sai che cazzo succede? – dico a quella stronza insolente – saremo le portate principali di un banchetto per zombie. Vuoi fare questa fine? Lo vuoi davvero? –

– No amore, io non intendevo … io pensavo … ho paura Giorgio!!! – mi risponde lei, sempre più scossa e irrazionale.

Intanto valuto quanto ancora possono reggere le assi che abbiamo inchiodato all’alba.

Le urla di Barbara stanno attirando un’infinità di zombie in direzione del nostro rifugio.

– Barbara, chiudi quella cazzo di bocca. Stai richiamando tutti quei mostri, attirandoli con la tua vocetta stridula! – le dico con un tono che stento a riconoscere.

I morti viventi oltre l’uscio non accennano a smettere: dita ridotte a rossi moncherini putrescenti battono, grattano, graffiano ritmicamente.

Tempo un’ora, massimo due, e riusciranno ad entrare.

Ogni istante è prezioso, fottutamente prezioso.

Pensavo che fosse un fenomeno isolato, invece l’apocalisse si è abbattuta come la più nera delle pesti sulle città, sulle campagne, fin dentro ai più scintillanti grattacieli così come nei più squallidi tuguri.

L’isteria di massa ha spinto la gente a svaligiare tutti i supermarket.

Barbara ed io siamo riusciti a procurarci solo qualche pezzo di pane e una cassa di bottiglie d’acqua mezza vuota, poca cosa considerando l’enorme rischio corso tornando a casa.

Dita morte scavano poco a poco la superficie della finestra, tentando di ridurre lo spazio che le separa da noi, prede in trappola, doppia porzione di cervello al sangue.

Il condizionatore d’aria fuori uso è stato fino a ieri una questione secondaria, ma adesso la temperatura sta salendo di ora in ora, facendo somigliare casa nostra a una soffocante bara di legno e mattoni.

– Sto morendo di caldo, se solo quel merdoso climatizzatore funzionasse … – sbotto – ora forse potrei riflettere e trovare una via d’uscita sicura.

– Invece questo caldo del cazzo mi sta facendo impazzire, mi scoppia la testa – le parole mi escono con difficoltà, fatico a respirare.

I biondi capelli di Barbara, sempre pettinati e con una messa in piega invidiabile, aderiscono ora alle tempie come piatti, viscidi tentacoli, creando una grottesca maschera di terrore.

Gli zombie là fuori hanno ossigeno a volontà, fresco e completamente inutile data la loro condizione di morti viventi.

Noi, invece, topi in una scatola da scarpe sigillata, stiamo inspirando avidamente venefiche boccate della poca aria rimastaci.

Abbasso lo sguardo, il mio Casio al polso segna le 23.35.

Oscurità all’esterno, popolata soltanto da cadaveri ambulanti sempre più affamati e dai loro penosi lamenti.

Cosa spinge un mucchio di carne morta senza razionalità né pensieri a scoperchiare calotte craniche in cerca di preziosi cervelli?

E’ soltanto il dolore a muovere le rigide articolazioni in decomposizione, con il solo scopo di alleviarlo?

Il cervello è forse l’unica cura per quel terribile ed immutabile morbo che è la morte? Né senso di colpa né emozioni, gli zombie non provano nulla.

Soltanto dolore, eterna sofferenza spogliata di qualsiasi intelligenza.

Uno di quegli esseri sta cercando di rompere due assi artigliandole ferocemente.

Lo colpisco spezzandogli qualche dito e facendolo indietreggiare.

– Oddio! Perché non si sente nessuna voce? Dove sono spariti tutti? Non possiamo essere rimasti solo io e te, Giorgino – piagnucola Barbara.

– Prima cosa: non chiamarmi mai più Giorgino, cazzo! Odio quando mi chiami in quel modo!

E seconda cosa: o sono tutti barricati in casa, oppure sono stati divorati e hanno finito di soffrire – Sono in un vero e proprio lago di rancido sudore, la mia faccia gocciola più di un rubinetto.

– L’aria in questo dannato bilocale non durerà per sempre – continuo, esausto – se apriamo la porta siamo spacciati, se restiamo chiusi qui ancora un po’ siamo fottuti. Dobbiamo trovare una soluzione alla svelta! –

Quanti proiettili mi restano?

Il fucile ha sparato dieci colpi durante lo spaventoso ritorno dal supermarket fino a casa.

Due proiettili, quindi.

Due biglietti di sola andata verso un posto migliore, senza dubbio.

Nel caso fallissi al primo tentativo, sicuramente sfonderò il dolce cranio di Barbara con la seconda cartuccia.

Altri inquietanti lamenti oltre gli infissi.

Quei bastardi sono sempre di più, ormai sento che le assi iniziano a scardinarsi e a cedere sotto i loro colpi.

Mi volto in direzione dello zaino dal quale spunta la canna del Remington 870, sputafuoco tanto comune quanto letale.

– Amore che stai facendo? Cos’hai in mente? – strepita impaurita Barbara, che quasi mi fa tenerezza tanto è terrorizzata.

– Se vogliamo uscire di qui dobbiamo usare il fucile. Ho ancora un buon numero di cartucce, forse basteranno per farci strada una volta usciti dalla porta – mento, senza provare il benché minimo rimorso.

– Dici sul serio? Oh Giorgio, è magnifico! Allora non siamo condannati, forse ci salviamo – mi risponde Barbara, incoraggiata dalle mie menzogne.

“Io non sono condannato, tu sì, lurida stronza piagnucolosa” penso, sempre più prossimo a impugnare il Remington e inaugurare la mia vedovanza.

Recupero in fretta le due munizioni e carico la prima cartuccia nella camera dell’arma.

Mi ritrovo involontariamente a ricordare alcuni lieti istanti vissuti con lei: gite estive al lago, cenette a lume di candela, memorabili maratone di resistenza tra le lenzuola.

“Non devo pensarci. E’ un fottuto manichino e ora le stacco la testa dal collo quanto è vero Iddio” mi decido.

“E’ soltanto una palla al piede e se voglio salvarmi devo andarmene da solo da questa fornace, non posso badare anche a Barbara in mezzo a quel branco di maledetti zombie”.

– Ti amo Barbie. Non odiarmi, lo faccio per il nostro bene –

Barbie non può nemmeno formulare l’inizio di una risposta. Il proiettile perfora con istantanea precisione il capo di mia moglie, facendo schizzare dal foro spruzzi di materia grigia e getti pulsanti color amaranto.

La freddezza con la quale ho sparato mi manda ora un brivido ghiacciato giù per la spina dorsale. Sento una lacrima solitaria solcarmi il volto, la asciugo con la manica della camicia senza perdere altro tempo.

Nei film la morte è quasi sempre spettacolare e commovente allo stesso tempo.

Nella realtà un morto è più simile ad un robot che si guasta e che cessa di funzionare accasciandosi inerme al suolo.

Ora che Barbara ha finalmente smesso di agitarsi e di innervosirmi con il suo tono irritante, mi rendo conto che le possibilità rimastemi si sono miseramente ridotte a due.

O mi pianto un colpo in testa e raggiungo Barbie nel Regno dei Cieli, oppure scardino le poche assi ancora inchiodate alla porta.

Tentare una disperata fuga evitando quel cumulo crescente di non morti sarà un’impresa.

In preda ad un delirio adrenalinico, mi ritrovo improvvisamente a estrarre istericamente i chiodi arrugginiti delle travi, martello alla mano.

Le assi si sollevano piuttosto facilmente, sostenute da un coro di voci morte distanti solo una manciata di centimetri.

Sento sul viso il loro odore putrido che mi rivolta le budella.

Un braccio putrescente chiazzato di pus cerca di ghermirmi attraverso una fessura.

Lo schivo per un soffio, grazie a inattesi riflessi.

La salvezza e la morte si avvicinano pericolosamente.

O me o loro.

“Sono fottutamente solo contro un’orda di mangia cervelli. Dio, non ho mai creduto in te, ma se per caso sei in ascolto fa’ che questo schifo finisca presto”.

Schiodo l’ultima irregolare trave che ancora teneva lontani quei mostri ritornati dalla tomba.

Giro la chiave nella toppa della serratura, senza immaginare nemmeno vagamente l’abominio che mi attende là fuori, in agguato.

Varcato l’uscio, il buio si impossessa di me e dieci, venti, cento bocche fameliche grondanti fetida saliva si uniscono ad accogliermi in un caldo abbraccio decomposto.

E’ la fine, la fottuta fine di tutto.

La vista mi si sta annebbiando e sento troppi denti azzannarmi, staccando brani sanguinanti. Sono attratti dalla mia carne. Sono attratti dal mio cervello.

Le forze mi hanno abbandonato, non posso più resistere alla morte.

Riesco solo a fare altri tre passi nell’affamata oscurità prima che un urlo, il mio ultimo urlo, si levi disperato verso il cielo indifferente.

Fra pochi istanti mi risveglierò zombie.