LE DEUXIEME ACTE (The second act), la recensione di Silvia Gorgi del nuovo film di Quentin Dupieux che ha aperto (fuori concorso) il 77esimo Festival di Cannes.

La 77esima edizione del Festival di Cannes si apre con una commedia, LE DEUXIEME ACTE, una satira sul mondo del cinema a firma di Quentin Dupieux con grandi star francesi: Vincent Lindon, Léa Seydoux, Louis Garrel e Raphaël Quenard. Il regista cioca fra realtà e finzione sul set di un dramma sentimentale.

La pellicola inizia con una lunga sequenza in cui seguiamo Louis Garrell (come sempre perfetto nell’aggiungere ad ogni espressione una nota ironica) e Raphaël Quenard che stanno discutendo sull’incontro che avranno di lì a poco con la ragazza di Louis, solo che poi, improvvisamente, da un innocuo scambio di opinioni finiscono per confrontarsi su identità sessuale in transizione, uscendo dalla linea di sceneggiatura del loro personaggio, e lo spettatore si rende conto di essere davanti a un lavoro di meta cinema.

Una commedia che buca la quarte parete

Così Vincent Lindon, il padre di Léa Seydoux, prima del fantomatico incontro con l’uomo della vita di sua figlia, parte con una filippica sulla professione d’attore – lui che è appena stato preso per un ruolo importante su un altro set – e su quanto sia messa ai margini in un nuovo sistema di cinema, in cui non c’è più alcun controllo sulla storia che si mette in scena.

I quattro personaggi-interpreti si ritrovano al ristorante “Le deuxième acte”, che dà il titolo al film, dove gli ego degli attori si scontrano e incontrano e a fare loro da contraltare c’è la figura di un cameriere, talmente stressato – l’attore che lo interpreta (Manuel Guillot) – che non riesce neppure a versare un bicchiere di vino, preso da tremolii e ansia.

La sua goffaggine, ancora una volta, interrompe le riprese di un set che è gestito a distanza da un regista mosso dall’AI, l’intelligenza artificiale, per il quale se non segui le linee narrative previste pedissequamente in sceneggiatura ti decurtano lo stipendio.

Un disagio che i quattro attori affrontano in maniera diversa, in questa commedia, che rompe il confine invisibile fra pubblico e attori in scena, e che fa anche sorridere, in maniera un po’ amara, mentre critica le esasperazioni del mondo odierno, ma che, nei lunghi dialoghi, e nelle lunghe camminate dei suoi protagonisti, un po’ mostra anche le corde, finendo per far diventare a tratti l’opera cinematografica un’opera teatrale.

Un politically correct che sta sempre più stretto

Sicuramente Quentin Dupieux esprime la sua irritazione nei confronti di un cinema contemporaneo che mette di fronte a tutti, per il politically correct, un buonismo di facciata, offrendo ai suoi attori la possibilità di farlo emergere, usando l’autoironia.

Tiene anche il punto su cos’è l’arte. Del resto senza la libertà di andare oltre ai paletti che sempre più lo star system impone si potrebbe finire per perdere quel che di più alto un artista possiede: la capacità di esprimersi pienamente.