Le regole degli infami, la recensione di Marco Azzalini del romanzo di Fulvio Luna Romero pubblicato da Marsilio Editori.
Forte fin da subito di una intensa illustrazione di copertina e di un efficace titolo destinato a dimostrarsi tanto azzeccato quanto ambiguo, Le regole degli infami di Fulvio Luna Romero sembra aprirsi con i tratti di un action movie che scandisce le tappe di una emblematica vicenda di criminalità organizzata.
Una storia raccontata con mano ferma e capace, attraverso l’intrecciarsi dei destini di un gruppo di figure la cui fisionomia narrativa potrebbe richiamare, ad una iniziale occhiata, altri fortunati filoni di un genere oramai consolidato nei suoi etimi più ricorrenti.
Ma il progredire del romanzo esplora in realtà una diversa direzione, in un continuo rincorrersi di inganni e garbugli costruiti su molteplici piani.
Ed ecco che le suggestioni dei soprannomi che colorano i malavitosi di Romero – Africa, il Negro, il Bomber e altri – non devono evocare eccessive contiguità con una certa, non di rado sfruttata poetica legata alla mitologia di celebri bande romane o milanesi.
Il “romanzo criminale” che qui si dipana finisce con l’aver più a che fare con la Dead city di Shane Stevens, la cui gelida turbolenza viene alla mente addentrandosi in queste pagine dove la costa adriatica sembra più vicina alla Jersey City del leggendario autore americano che ad altri litorali italiani, e dove la violenta rottura di equilibri impossibili ricorda, specie da un certo punto in poi, la faida tra Joe Zucco e Alexis Machine, e la somatica dei personaggi tradisce infatti qualcosa di Charly Flowers, Harry Strega, Frank Farrano o Hymie Cole.
Una favola criminale
La vicenda si svolge lungo la penisola jesolana, che penisola a ben guardare non è neppure e viene adottata quale livido sfondo di una parabola che Romero riesce a rendere ad un tempo pulp e metafisica, racconto crudo e incalzante che mai si fa bozzetto del nordest e di certi suoi tratti narrativi già visitati, rimanendo piuttosto sul piano di una favola criminale di valenza simbolica, che parla di tante altre cose e lo fa anche attraverso il filtro di un non-luogo che a tratti scolora in una sorta di dimensione parallela.
La laguna e le pinete, le abitazioni e le strade, i grattacieli e i viali, i bar e i capannoni, la natura e l’abitato, tutto trasuda una astratta e putrescente desolazione di fondo. È il mare d’inverno, ma di un inverno interiore e generale; non lo scenografico complemento di un dramma privato di bassa stagione bensì il fondale, un po’ alla Hopper, di una specie di tragedia greca che sta alle spalle e al di sopra rispetto alle possibilità di controllo di un pugno di disgraziati destinati a finire male o malissimo, travolti da una sorta di diluvio universale conseguente all’imbrico degli errori, del destino e di una tracotanza un po’ avvilente che si fatica a ricondurre alla ùbris di antica memoria.
Le regole degli infami è un racconto sul qui e l’ora, e non a caso viene scritto al presente. Il passato, quando spunta da qualche lembo della storia, è vago e sempre pronto ad essere smentito, il futuro è inesistente perché la vita appare un tragico gioco violento, sempre fuori controllo come gli eventi, e dunque non rimane altro tempo se non un oggi annichilito nello straniamento e in un catalogo di edonismi insistiti ma non goduti, di divertimenti che non divertono, di cose nate storte e di storture nate per caso, di frustrazione e dubbio da stordire in qualsiasi maniera, quasi sempre sbagliando troppo.
Vite disperate
La sensualità delle vite disperate di cui cantava con ironia Paolo Conte è andata perduta, vinta dalla disperazione di una sorta di vuoto incolmato che annega tutto, le relazioni, i sentimenti, il sesso, il denaro, i rapporti di forza e di potere e alla fine qualsiasi significato o piacere dello stare al mondo, che sembrano assenti nel precario equilibrio delle figurine stilizzate che si muovono sulla scena in un tormentato logorio sempre più teso e sempre più destinato a inevitabili rese dei conti, a punizioni troppo rimandate.
Per questo, Le regole degli infami è anche un libro sul conflitto e sui conflitti: persino la violenza delle azioni più efferate scolorisce rispetto alla violenza delle ferite interiori e della sconfitta, altro tema portante di esistenze prive di orizzonti e gravide di infedeltà di ogni tipo, verso gli altri, certo, ma soprattutto verso se stessi, dove nessuno può mai dirsi al sicuro soprattutto perché nulla appare definito, e meno che meno i concetti di giusto o ingiusto, di bene e di male.
Le regole degli infami, una riflessione su identità e verità personali
In questo senso, Le regole degli infami è da ultimo, ma forse soprattutto, anche un libro che ruota in maniera abile attorno al complesso problema delle identità e delle verità personali: identità e verità costruite, simulate, fraintese, smentite, disarticolate in un labirinto che pone la questione di fondo se al di là di una coltre intrecciata di bugie vi sia sempre qualcosa di autentico da disseppellire, o se piuttosto alla fin fine il punto centrale non stia in una sorta di dramma sociale e corale dove tutto sia sempre divorato dalla precarietà, del dolore, della colpa, dell’inganno.
Uno spunto, quest’ultimo, che solleva numerosi interrogativi non dissimili da quelli evocati sul grande schermo da Nolan nella seconda metà del Cavaliere Oscuro o da quelli che traspaiono attraverso le narrazioni, per molti versi insuperate, sul tracollo dell’ordine pubblico che avevano per protagonista l’ispettore Callaghan o il giustiziere della notte Paul Casey.
E non è un caso che in un passo del romanzo di Romero quel lembo di costa adriatica sembri, per l’appunto, sull’orlo di un disordine assoluto tale da frantumare, oltre alla società, l’interiorità di ognuno dei personaggi di questo singolare noir senza giustizia e senza eroi, dove nessuno è quello che sembra e nessuno è neppure, pirandellianamente, colui che lo si crede.