Le sette dinastie è il nuovo romanzo storico firmato da Matteo Strukul. Linda Talato l’ha letto e recensito per Sugarpulp MAGAZINE.
- Titolo: Le sette dinastie
- Autore: Matteo Strukul
- Editore: Newton Compton
- PP: 544
“Le sette dinastie. La lotta per il potere nel grande romanzo dell’Italia rinascimentale”.
Ve lo dico subito, nel caso abbiate impegni: NON sarò breve. E quando mai lo sono? Ok, stavolta meno del solito.
Mi sono presa qualche giorno in più prima di dare il mio parere definitivo sull’ultima fatica di Matteo Strukul, edita da Newton Compton. Un po’ perché un romanzo di questa portata necessita del giusto tempo per essere assaporato e compreso appieno, e un po’ perché, lo ammetto, volevo vedere prima cosa scrivevano gli altri, su di lui.
Non sono rimasta molto convinta. Dalle recensioni, intendo, e vi spiegherò il perché.
TRAMA
Partiamo dalla trama de Le sette dinastie, innanzitutto, anche se ormai chi mi legge saprà che non mi dilungherò troppo su questo punto, dato che potete trovare la sinossi in un qualsiasi negozio online, nel link di acquisto del libro.
Le sette dinastie di cui ci parla Strukul, che dipana la matassa delle loro vicende nell’arco di 544 pagine (tranquilli, la recensione durerà meno…), sono le potenti famiglie che hanno dominato l’Italia in epoca rinascimentale, ovvero i Visconti – Sforza a Milano, i Condulmer a Venezia, gli Estensi a Ferrara, i Medici a Firenze, i Colonna e i Borgia a Roma, e gli Aragonesi a Napoli.
Intrighi, tranelli, battaglie, agguati nell’ombra di un vicolo e la sopravvivenza della famiglia che viene prima del singolo. Il paragone era sin troppo facile, per Le sette dinastie sono subito fioccati i commenti tipo: “il Trono di Spade italiano!” hanno scritto, “La guerra splatter per la conquista del potere!”
Allora… Lungi da me fare la critica della critica, e ci mancherebbe, non ho neppure i titoli per farlo, ma… No. Per due semplici motivi, che cercherò di spiegare sempre secondo il mio punto di vista.
Il paragone con la saga di George Martin a mio parere è alquanto azzardato dato che la scrittura di Strukul ne Le sette dinastie ha poco o nulla a che fare con lo stile di molti scrittori uomini particolarmente in voga – Abercrombie e Martin solo per citare due tra i più conosciuti, ma ce ne sono altri – ovvero quello “muscolare”, passatemi il termine, ma è proprio così (a Stranimondi ci sono stati momenti in cui mancava poco che davvero se li confrontassero tra di loro, i muscoli, ma non scendo oltre in questi dettagli), dove il conflitto diventa violenza a ogni piè sospinto, e dove la violenza è descritta sin nei dettagli più macabri.
Capiamoci, io amo Martin (i romanzi, non la serie TV), la mia non è una critica a quel modo di narrare, sto solo dicendo che… Stiamo parlando di stili diversi.
Strukul non “mostra i muscoli” ma, anzi, anche questa volta – e lo avevo già detto con Inquisizione Michelangelo – si dimostra attento alla sensibilità del lettore, senza tuttavia togliere nulla agli accadimenti. Mi spiego: in una scena di battaglia è ovvio che ci saranno sangue, cadaveri, corpi smembrati…
L’autore deve portarci “dentro” il contesto di cui sta parlando, e mostrarcelo come se fossimo lì. Descrivere le scene di violenza in modo splatter è, a mio parere, tutta un’altra cosa.
STILE
Sullo stile de Le sette dinastie volevo soffermarmi ancora un istante, perché anche stavolta mi è accaduta una cosa bizzarra, che già avevo sperimentato con Inquisizione Michelangelo: ho trovato che nel susseguirsi delle parole ci fosse un qualcosa di, come dire, rilassante, quasi ipnotico, non saprei spiegarlo meglio di così.
Tempo fa leggevo qualcosa in merito a un esperimento che ha dimostrato come, quando si legge, nel cervello umano si “accendano” determinate aree a seconda delle parole che stiamo leggendo e di come queste vengono utilizzate dall’autore per comporre le frasi.
Io non so se Strukul utilizzi una qualche tecnica particolare per ricreare questo effetto nella testa del lettore o se gli venga naturale, magari anche alla luce della sua esperienza, però la sensazione che si ha è proprio questa, ed è truffaldina perché il lettore non si aspetta che debba succedere qualcosa di brutto ai personaggi da una pagina all’altra, e quando questo accade, si sente un po’ spiazzato.
Succede quando (SPOILER) Gabor Szilagyi muore per mano di Braccio Spezzato, e tu che leggi ti fermi un attimo a fissare il vuoto, perché non te l’aspettavi, non così e, soprattutto, non proprio adesso, proprio adesso che Gabor ha compiuto quello che in termini tecnici si chiama “arco di trasformazione del personaggio”.
Braccio Spezzato lo vide andar giù. E quasi non ci credette. L’ungherese mormorò anche qualcosa che lui non capì del tutto. Né ci provò in alcun modo. A capire. Gli bastò comprendere che era ancora vivo. Gli parve che Gabor Szilagyi si fosse lasciato ammazzare. Lo afferrò per i capelli e se lo tirò dietro fino a uscire da quella maledetta locanda.
E proprio parlando dell’arco di trasformazione di Gabor, mi aggancio al prossimo punto, ovvero i personaggi.
PERSONAGGI
Anche Strukul sceglie – e fa bene – di inserire un elenco iniziale in cui i personaggi sono suddivisi nelle varie “casate”, metodo che avevo già visto usare da Follett e pure da Martin, se non erro (lo so che cito sempre gli stessi, ma è perché so che questi, bene o male, li conosciamo un po’ tutti), e di tale elenco io, personalmente, me ne ero sempre infischiata, con rispetto parlando, perché in genere riesco facilmente a destreggiarmi nelle storie fitte di personaggi e sottotrame.
Tuttavia questa volta ho avuto il timore che non ce l’avrei fatta e sarei dovuta tornare indietro ogni volta a spulciare l’elenco chiedendomi: «’spe, e chist, chi è?» Non è successo.
E non è successo perchè Strukul ne Le sette dinastie è riuscito a caratterizzare a sufficienza ogni personaggio, anche quelli secondari. Qui apro una parentesi. Non sono un’esperta di storia, ma andando a curiosare su Google ho avuto la conferma di ciò che sospettavo, ovvero che la maggior parte dei personaggi sono realmente esistiti, quelli inventati sono una minoranza.
Sembra una cosa da poco, ma non lo è, non lo è affatto, perché tutto il troncone principale della storia è portato avanti da gente esistita davvero, i personaggi storici non sono semplici comparse che appaiono qua e là a dare verosimilità a un’ambientazione storica in cui i protagonisti principali sono inventati, no.
E questo costituisce una difficoltà non da poco per l’autore – sempre a mio parere, ovvio, io non scrivo romanzo storico – che si troverà a combattere su due fronti: da un lato dovrà rimanere fedele a ciò che veramente era quel personaggio, perché non potrà certo correre il rischio di essere smentito da chi ne sa più di me, e dall’altro non potrà far fare ai personaggi ciò che vuole, ma sarà costretto ad “accompagnare” il lettore lungo gli snodi di una trama che non è solo fiction, è proprio storia.
Mi spiego: Bianca Maria Visconti sapeva davvero combattere come un uomo e il suo parere era davvero preso in seria considerazione dal marito, Francesco Sforza – ricordiamoci che siamo nel Rinascimento, epoca in cui le donne vivevano una condizione ben diversa da quella attuale – oppure Strukul ha “romanzato” il personaggio per seguire gli scopi della trama?
Non l’ha fatto: Bianca Maria era proprio così, e a sostegno di quanto scrive, l’autore ha inserito nella nota finale una nutrita biografia. Ma parliamo un altro po’ dei personaggi, evitando il più possibile di spoilerare.
Filippo Maria Visconti è un “cattivo” fantastico perché è una persona orribile, un malvagio a tutto tondo, e nonostante ne combini di ogni, finisce pure per starti un po’ simpatico. Altra tipologia di cattivo è, invece, Galeazzo Maria Sforza. Qualcuno lo ha paragonato a un Lannister… A me, in realtà, ricorda molto William Hamleigh de I pilastri della Terra, quel cattivo viscido e subdolo che prenderesti a sberle per tutta la storia, e non vedi l’ora che muoia.
Tre le donne che restano impresse, su tutte: Agnese Del Maino, Bianca Maria Visconti e Sveva Orsini. Anche Agnese, come Filippo Maria, è un personaggio a tutto tondo, che completa il suo percorso nell’arco narrativo (profondo e tremendamente moderno il suo dialogo con la figlia Bianca Maria sulla pazienza delle donne nei confronti delle “debolezze” degli uomini, debolezze che, peraltro, lei non ha neppure dovuto tollerare, visto che Filippo Maria l’amava incondizionatamente e la preferiva a tutte).
E proprio ricollegandomi a ciò che dicevo prima in merito all’arco di trasformazione del personaggio, dirò che Bianca Maria, Sveva e Gabor, pur essendomi piaciuti moltissimo, mi sembrano dei personaggi un po’, come dire, “monchi”, come se mancasse qualcosa.
«Mia signora, non credo di meritare alcun tipo di lode: ho assassinato a sangue freddo un donna per denaro, sono un macellaio e basta. Ma dato che uccidere è ciò che so fare meglio, allora credo che valga la pena farlo per una ragione più importante dei ducati.»
Bianca Maria sbarrò gli occhi. Fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso.
Ma Gabor non aveva finito. «Ecco», disse, «sono venuto anche per riportarvi questi. Ci sono tutti». E senza aggiungere altro, posò sopra un tavolino dell’anticamera una borsa che Bianca Maria riconobbe all’istante.
Poi, senza aspettare, si congedò. «Addio madonna».
Gabor decide di tornare in patria per combattere contro l’avanzata della truppe ottomane guidate da Maometto II, e siamo in una scena dalla grande profondità emotiva in quanto Gabor dimostra di provare rimorso per il male che ha fatto, e di voler cambiare vita. Bianca Maria, invece, no, e se ne rende amaramente conto. L’uno ha compiuto un’evoluzione che lo ha portato a maturare pentimento, l’altra no.
Tuttavia, da lettore, mi sarebbe piaciuto vedere un po’ di più quali avvenimenti hanno portato Gabor a maturare questa decisione e a cambiare così tanto. Dal testo, a mio parere – magari mi sbaglio, eh – non si evince molto.
Bianca Maria, dal canto suo, negli ultimi giorni della sua vita dialoga con la nipote Caterina – è quasi un monologo in realtà – e parla delle sofferenze che ha patito e degli errori che ha fatto – siamo in un altro passaggio molto toccante della trama – e di fatto è adesso che termina la sua evoluzione come personaggio. Anche qui, devo dire che ho avuto l’impressione che mancasse qualcosa. Mi sarebbe tanto piaciuto vederla un po’ di più combattere come un uomo e mostrare quella crudeltà che la caratterizzava. Non che il personaggio non renda già così, ma avrebbe potuto farlo ancora di più.
Sveva Orsini mi ha molto incuriosita e ci sono rimasta proprio male quando ha dovuto piegarsi alle angherie di Antonio Colonna. Mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa in più su di lei e sulla figlia Imperiale, anche se credo che, in questo caso, il loro percorso nella storia non sia ancora finito.
I FATTI STORICI DE “LE SETTE DINASTIE”
Per chi ha letto anche la trilogia dei Medici e quella a fumetti su Vlad, con Le sette dinastie è come se si “ricomponessero i pezzi” e si completasse un cerchio, in quanto questo romanzo, secondo me, funge un po’ da “ponte” e completa le vicende descritte nei testi che ho citato sopra.
«Lo avete visto?», domandò il Papa al legato pontificio appena rientrato da Budapest.
«Vostra Santità, naturalmente.»
«È terribile come dicono?»
«Non particolarmente alto», rispose Nicola da Modrussa, «ma è molto forte e ha un aspetto terribile: robusto, freddo, spietato. Ha un gran naso aquilino, simile a quello di un falco, narici larghe, un volto magro e rossiccio, con grandi occhi verdi spalancati sull’interlocutore, quasi volessero ghermirgli l’anima, orlati da ciglia nere, folte e lunghe, che danno agli occhi un cipiglio terrificante. Il viso e il mento sono rasati ma porta i baffi. Le tempie larghe aumentano l’ampiezza della fronte. Ha un collo taurino e lunghi capelli neri che scendono come serpenti sulle spalle larghe come un bastione».
Il Papa e Nicola da Modrussa parlano proprio di Vlad l’Impalatore.
Prima di chiudere questa mia analisi, torno ancora una volta sulla sorprendente modernità dei personaggi, che pur appartenendo a un’epoca lontanissima dalla nostra, dimostrano come alla fine certe dinamiche tendano sempre a ripetersi. Un momento fra tutti è il dialogo tra Bona di Savoia, moglie di Galeazzo Maria, e Lucia Marliani, la sua amante.
«Non m’importa. Quello che conta è la volontà del duca. Ed è del tutto evidente che a dominarla non è Lucrezia Landriani, né tantomeno voi. A prescindere dal vincolo di matrimonio che vi lega. Dovreste sapere perfettamente che esistono catene ben più strette di quelle imposte da una carta».
«Come osate parlarmi in questo modo? Quella fra me e Galeazzo Maria è un’unione celebrata in chiesa, un vincolo sacro che voi non avete alcun diritto di spezzare. E che mai potreste avere, semplicemente perché non ne siete degna. Lo dimostra in pieno il vostro modo di parlare. Così rozzo e squallido da appartenere a luoghi ben diversi dalla corte sforzesca.»
La parte, a mio parere, ironicamente meravigliosa di tutta questa scena è il momento iniziale, in cui la Marliani descrive Bona come una donna “bella e altera, alta di statura, fiammeggiante nell’abito rosso”. Dopo il loro litigio, invece, la stessa Bona diventerà “una piemontese diafana e fin troppo robusta”.
Se questo fosse stato un battibecco sui moderni social tra due donne famose, sarebbe certamente finito sulla pagina del Signor Distruggere.
Chiudo definitivamente con un paio di note sul profilo prettamente “tecnico”: buona la gestione dei punti di vista all’interno della stessa scena, specialmente nei combattimenti. Pochissimi i refusi – non credo di averne contati più di quattro o cinque, un numero assolutamente fisiologico per un testo di questa portata –, ci sono forse un paio di frasi passive che avrebbero reso meglio se portate all’attivo, e giusto un paio di gerundi, ma stiamo parlando del solito “pelo sull’uovo” che la stragrande maggioranza dei lettori non noterà neppure.
Quindi, vi consiglio Le sette dinastie? Beh sì, direi proprio di sì.