Leoni segna l’esordio alla regia di Pietro Parolin, che ha scritto anche la sceneggiatura del film. Un racconto ironico e tagliente, un film da vedere.
Ci sono molti modi per raccontare il Nordest. Per parlare di una terra che ha vissuto gli ultimi cento anni a mille all’ora.
Da linea del fronte nel corso della prima guerra mondiale, a martoriata realtà durante la seconda. Da landa desolata di povertà e fame nei primi anni 60, a miracolo economico negli anni successivi.
Fino alla crisi che dal 2008 attanaglia il mondo e che qui, tra i filari dei vigneti, le acque calme, le colline e le montagne ha colpito duro come un pugno nello stomaco.
Ci sono molti modi, dicevo: credo che, con Leoni, Pietro Parolin abbia trovato il migliore.
Il ruolo che mi accollo, di recensire questo bellissimo film, per me è una novità dato che ho sempre recensito libri. Ma è un film talmente bello che… ho deciso di esserci!
Leoni è una sorta di atto d’amore verso il Nordest del quale, con grande talento, Parolin dipinge luci ed ombre (non quelle di rosso o di bianco…). Lo fa con un’ironia tutta veneta. Racconta la malinconia con il sorriso sulle labbra, cosa che a pochi riesce!
A mio avviso basterebbe la scena iniziale: Neri Marcorè (interpretazione STRAORDINARIA) che, a bordo di una Porsche Cayenne percorre le strade collinari di Susegana, all’ombra dello splendido castello di San Salvatore, e viene fermato dai vigili.
È la fotografia del sogno del nord est: le belle auto, le belle terre, i bei vestiti, la riscossa dalla vecchia povertà.
Neri Marcorè, con una cadenza veneta esilarante, ci accompagna in questo film gustoso, divertente e ironico.
Lui è Gualtiero Cecchin, rampollo di una potente e ricca famiglia di Treviso, cresciuto all’ombra del defunto padre: chi vive da queste parti conosce alla perfezione la situazione. E già qui il primo ritratto del Nordest: un padre che ha fatto la fame e creato un impero, un figlio cresciuto negli agi che, in un modo o nell’altro, prova a dissiparlo.
Come canterebbe Riccardo Fogli, “storie di tutti i giorni”.
Insomma, Gualtiero fiuta l’affare del secolo. E grazie all’influente madre timorata di Dio (un’eccezionale Piera Degli Esposti) intraprende un business che in una terra dove la religione è così sentita, promette grandi successi: un crocifisso in plastica riciclata.
Tutto bene? Sì… forse… se fosse per un piccolo problema.
A questo punto Emanuela Folliero prenderebbe un bel respiro e direbbe “ma non voglio svelarvi nulla!”
Perché Leoni è un film tutto da scoprire. Magari alle volte dissacrante, ma con un’ironia mai offensiva, e con una pennellata leggera ma decisa a tracciare un affresco dei nostri tempi.
Racconta la crisi, finanziaria e di valori, ma anche il desiderio di rimettersi in piedi. Il ritorno alle cose concrete e la difficoltà di accettare il cambiamento.
Parolin porta ad una divertente esasperazione, quelli che sono i luoghi comuni del Nordest (e da trevisano posso confermare il tutto): l’opulenza che oggi è più di facciata che effettiva, il mondo popolato di agnelli vestiti da lupi e di lupi vestiti da agnelli, il rapporto con l’immigrazione, i legami e le influenze clericali e, dulcis in fundo (come si deve fare parlando della ‘marca gioiosa et amorosa’) le debolezze della carne.
Alcune figure presenti sono perfette: quelle che dalle nostre parti si chiamano betoneghe o basa-banchi, donne anziane di particolare devozione al limite dell’irragionevolezza.
Il giovane ex imprenditore, col macchinone, col vestito bello, la casa enorme e il portafogli vuoto.
L’immigrato di seconda generazione che, nonostante la pelle scura o gli occhi a mandorla, parla in dialetto e si trasforma in macchietta perché questa è l’immagine che la gente ha fatto propria.
Seguendo il detto a botte voda a canta, a botte piena a tase, Parolin lascia scorrere una storia nella quale le risate sono la vera chiave di lettura, come a dire che ridere fa bene, che non vale la pena di prendersi troppo sul serio.
Lo fa, a volte, colpendo duro, ma lo fa con un messaggio bellissimo alla fine: a Nordest ci si rialza sempre. Non ci hanno stesi due guerre, vuoi mica ci abbatta la crisi?
Nella terra degli imprenditori che conoscono poco la lingua italiana ma vendono i loro prodotti a Hong Kong, delle donne e degli uomini che con 20 ore di lavoro al giorno hanno reso grande un paese, dei sacrifici e della ricchezza improvvisa, la testa si rialza rapidamente, ogni caduta è un’opportunità. Il messaggio finale pare essere questo.
Cosa va: gli attori! Tutti bravissimi. Già detto dei due protagonisti, maschietti e femminucce escono dal cinema di ottimo umore: Stefano Pesce con gli anni migliora. Ha un ruolo complicato che interpreta benissimo. E per quanto ci si sforzi di farlo sembrare un mezzo bruttino… le donne in sala sembrano pensarla diversamente!
Anna Dalton, che interpreta la sorella di Gualtiero, ha quel fascino malsano della professoressa che ti bacchetta le mani. Il basso profilo, la scelta di stare lontana dalla vita opulenta, l’occhiale colorato e il capello un po’ buttato lì… ne sono uscito un po’ scosso, lo ammetto! E, tra l’altro, molto molto molto brava anche lei, così umana e docile e così abile a sfoderare le unghie quando serve.
In ultima, Emma. Cristina D’Alberto. Ecco… non è da me inoltrare richieste di matrimonio a mezzo recensione, ma insomma… Una bomba sexy. Tanto bomba e tanto sexy. Con un ruolo magari marginale, magari fantasioso… ma non più di tanto. Memorabile il momento in cui la mia signora mi passava una salvietta dicendo “tieni, asciugati le bave”.
Ancora: Treviso. Le immagini sono stupende, a volte commoventi. Ok, io sono di parte, ma alcuni scorci la rendono ancora più bella di quanto non sia. Io ho sempre definito la mia città uno sfondo perfetto per i miei noir, per quel contrasto che offre la sua luminosità mai banale. Oggi scopro che è perfetta anche per le commedie made in italy.
Cosa non va: ci sto pensando. Qualcosa magari ci sarà, ma il gusto che si assapora con questo film, fa passare tutto in secondo piano (ok, ero troppo concentrato su Emma…)
Cosa potrebbe andare meglio: nei titoli di coda andava inserito il numero di telefono di Emma.
Dopo Signore e Signori ci sono voluti 50 anni per riportare un set a Treviso a raccontare il nord est. Per me, che ci provo con i libri, è stato un grandissimo piacere godere di questa storia, per molti altri è stata la prima volta di una commedia divertente in una piccola ma splendida città. Una cartolina di bellezza rara.
Ora, Pietro, non facciamone passare altri 50, suvvia… diamoci dentro che queste terre hanno molto da raccontare!
Un film davvero da vedere, soprattutto per uscire dai soliti schemi cinematografici.
Magari qualche veneto, o qualche trevisano non gradirà gli affreschi… beh, il peccato è negli occhi di chi guarda.
Perché il messaggio finale, di Gualtiero, deve essere chiaro a tutti: la vita è un’arena… e io sono il più grande domatore!
I veri leoni non si arrendono mai. Evviva il cinema italiano! Evviva il Made in Italy!