L’epopea di Gilgames è un classico senza tempo che dimostra di essere molto attuale e, soprattutto, molto rock

L'epopea di GilgamesTitolo: L’epopea di Gilgames
Autore a cura di N. K. Sandars
Editore: Adelphi
PP: 174
Prezzo: 11 euro

«Uno dei due dovrà morire», così viene segnato il destino di Gilgames e del fedele Enkidu: l’amico tanto atteso, quando l’eroe Gilgames, per due terzi divino, per un terzo umano, spadroneggiava nell’antica Uruk, munita di torri, viene anticipato da immagini astrali, una «stella del cielo che come meteora discende dal firmamento», una «scure» che «attrae come l’amore per una donna».

Enkidu, «il più forte delle creature selvagge», della «sostanza di Anu», padre degli dei e del firmamento, vincitore morale di Humbaba, guardiano della foresta e del toro feroce mandato da Istar, è il più sfortunato, si trova a morire nella vergogna, per un morbo sconosciuto.

Un lamento sale alto e si programma un viaggio alla residenza di Unapistim, il Lontano, l’unico uomo a essere stato accolto nella dimora degli dei, per informarsi su «come trovare la vita che si sta cercando».

Gilgames, affranto, dalle guance emaciate e dal volto teso, con la disperazione nel cuore, scopre dalle parole dell’antenato che «nulla permane»: è la tragedia dell’eroe. Secondo il suo codice non si può accettare l’immortalità concessagli dal matrimonio con una dea o una vita di agi nella vecchiaia come quella di Unapistim, ma si può solo trovare gloria in battaglia, con imprese che superino ogni dire.

La voce di Gilgames, «il re che conosceva i paesi del mondo», risuona forte anche ai giorni nostri, con il suo invito a non lasciarsi condizionare dai limiti terreni: tornato dal viaggio della “conoscenza”, era «esausto, consunto dalla fatica», ma la sua eredità, questa storia, «fu incisa su una pietra», una stele eretta a testimonianza della vittoria sul vero mostro, la paura.

Il ritorno ci appare come lo spezzarsi di un incantesimo, quando dopo una vita di tribolazioni, d’improvviso tutto torna alla normalità, il ciclo della vita riprende e noi ci ritroviamo ad ammirare le bellissime mura di Uruk, le cui fondamenta furono poste dai Sette Saggi.

Dimentichiamo all’improvviso Humbaba, «che quando ruggisce è come lo scroscio della tempesta» e «il suo alito è come il fuoco e le sue fauci sono la morte stessa»: tutto è finito, anche un’epopea così avvincente, la prima vera voce che ci parla dalla Mesopotamia antica, un universo che, grazie alla ziggurat, è incastrato tra cielo e terra, teso all’immortalità e che ci è stato restituito solo grazie alla scoperta di tavolette d’argilla pazientemente decifrate dal sumerico grazie all’aiuto di volenterosi studiosi.