Lettere da Iwo Jima è una splendida parabola antimilitarista e un severo monito contro ogni conflitto
Acclamato da più parti come il vero capolavoro del dittico eastwoodiano (con Flags of our fathers) sulla guerra nel Pacifico tra americani e giapponesi, Lettere da Iwo Jima è una splendida parabola antimilitarista e un severo monito contro ogni conflitto.
L’incipit ricorda il Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, con lo sguardo del regista che prende spunto dalla contemporaneità, dal desiderio della commemorazione e del ricordo, per poi spingersi ad esplorare il tempo in cui l’insensato, brutale massacro di molti era un doloroso presente.
Isola di Iwo Jima, 2005, un gruppo di uomini scava nelle caverne-bunker teatro della sanguinosa battaglia di cinquant’anni prima, alla ricerca di reperti che possano testimoniare le eroiche gesta dei loro padri.
Dopo questa breve introduzione, la narrazione riprende dai serrati preparativi dei soldati giapponesi che, stremati, male equipaggiati, e con la segreta consapevolezza di una sconfitta ormai inevitabile, si apprestano a difendere l’isola di Iwo Jima – ultimo baluardo prima della caduta della loro patria – dall’assalto dell’imponente armata statunitense.
A differenza dell’opera di Spielberg, dove contenuti e spettacolo non rinunciano a fondersi in un lavoro, magistralmente diretto, ma che non riesce a volare davvero in alto, per il suo film Clint Eastwood sceglie la via, solitaria e intimista, dell’antiretorica e del disincanto, evitando con accuratezza ogni tentazione di melodrammatica celebrazione – per quanto “a fin di bene” – di quel triste rito collettivo di morte che è, sempre, la guerra.
Il racconto è suddiviso in tante piccole storie, affidate a personaggi e caratteri molto diversi tra loro, che sono un po’ la summa dei luoghi comuni dello war movie. Si va, infatti, dall’umanissimo, ma stoicamente devoto al proprio ruolo e al proprio Paese, generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe, impeccabile come al solito), al soldato saggiamente “affezionato” alla propria incolumità (il panettiere, spedito in extremis a far “numero” al fronte, il Saigo di Kazunari Ninomiya), passando per inflessibili ufficiali dediti alla causa contro ogni logica e buon senso, ed ex-agenti del servizio segreto, degradati e mandati in prima linea per essersi rifiutati di infliggere ulteriori sevizie ad un popolo già prostrato da una guerra perduta.
Eastwood opta per una regia sommessa, priva di magniloquenza, che ha cura di spezzettare di continuo l’azione e la battaglia, svincolandosi così da qualunque concessione alla spettacolarità o all’immagine ad effetto.
Il regista accompagna, con una pietas toccante e discreta, generali e sottoposti verso il loro tragico destino, registrandone emozioni, pensieri, gesti di insospettata umanità o di inaudita crudeltà, accomunando vincitori e vinti nell’amara compassione per decine di migliaia di esistenze sacrificate dalle scelte di governi ottusamente arroganti e senza coscienza.
Il cambio di prospettiva, rispetto al gemello “americano” Flags of our fathers, di questo mirabile “Lettere da Iwo Jima” (tratto dal libro Picture letters from commander in chief dello stesso generale Kuribayashi, scritto da Iris Yamashita – da un soggetto suo e di Paul Haggis – , e prodotto da Steven Spielberg, Haggis e Clint Eastwood), consente ad Eastwood di privare di ogni retorica eroica perfino la guerra “giusta” combattuta contro l’imperialismo tedesco e giapponese, per ribadire invece come, nella furia dell’uomo sull’uomo, dopo tanto sangue e tante bare riempite di giovani vite spezzate, parlare di gloria e fini superiori sia un esercizio di stile crudele e, soprattutto, davvero inutile.