Lidi infami, un racconto inedito di Giorgio Carli per Sugarpulp
L’uomo era vestito di nero. Si aggirava sul litorale vuoto alla ricerca di uno stabilimento balneare in cui masturbarsi. La sua mente era ossessionata da un video che aveva visto su youporn: una giapponese legata che emetteva gridolini striduli davanti ad un negro con un cazzo enorme. Non fu difficile trovarne uno abbandonato, lo erano tutti al Lido degli Estensi nel mese di ottobre.
L‘uomo vestito di nero si adagiò su una sedia a sdraio nella veranda del bagno Giove, si tirò giù la zip dei suoi pantaloni di velluto e se lo prese in mano pensando a quanto avrebbe voluto chiavarsi un’asiatica. I suoni acuti emessi da una bocca orientale spalancata lo fecero venire copiosamente su un tavolino di vimini stretto tra le sue gambe.
Si chiamava Massimo Schiavon, ma per tutti fin da piccolo era Max. Un uomo belloccio con uno sguardo torvo magnetico, era magro, il viso sembrava solcato da un malinconico aratro arrugginito. Viveva ormai da più di venticinque anni in quella località sperduta tra Ravenna e Ferrara che assomigliava a una tazza vuota d’inverno, ma che finiva per traboccare di gente in vacanza nella stagione estiva. Max abitava nel condominio Vela d’Oro completamente solo per sette mesi l’anno e la sua vita era disciplinata da una ricerca sistematica del vizio. Le puttane, il gin, le “macchinette mangiasoldi” della tabaccheria sotto casa erano i suoi passatempi preferiti.
Il Lido degli Estensi era uno dei sette lidi ferraresi; Comacchio, il paese più grande nei dintorni era una Venezia in minore. Quei lidi erano un triste succedaneo delle splendenti e ricche località della Romagna cantate da Raul Casadei. I comacchiesi proprio non ci sapevano fare con i turisti.
Max, dopo essersi pulito le mani alla meno peggio in uno degli ombrelloni del Bagno Giove, proseguì la sua passeggiata sul lungomare fino a quando non raggiunse l’ultimo bagno, una strana astronave intergalattica immersa nel nulla che si chiamava Bagno Bunga Bunga, termine salito agli onori della cronache per un recente scandalo sessuale che vedeva coinvolto un noto magnate dell’industria dolciaria italiana. Sapeva che in fondo al lungomare, girando sulla sinistra, si sarebbe trovato davanti alla scuola superiore che raccoglieva studenti e studentesse di tutto il territorio di Comacchio.
Erano le 10.30 del mattino, pensò di fermarsi in una delle vie più frequentate del lido e osservare i passanti. Si appoggiò a un lampione e in un quarto d’ora passarono due cani, una signora anziana con una borsa della spesa e un gruppo di studenti che quella mattina avevano deciso di non andare a scuola. Sono come sarde in saòr marinate nel niente. Assaporò il niente, era troppo forte, pensò di scendere di grado alcolico entrando in uno dei pochi bar aperti a ottobre. Il Bar California. Ordinò un gin liscio. Il drink trasparente lo ringalluzzì tutto sotto la cintura, ma la malinconia gli prese il petto e poi sù fino a raggiungere la collezione dei suoi pensieri.
Max era un uomo spaccato in due come la sua vita. Ripensò a chi era stato e adesso si faceva schifo. Aveva tentato di cambiare il mondo, era entrato in clandestinità per combattere il Fascismo di Stato al servizio del Proletariato, per combattere i Porci Capitalisti. Ora aveva ormai cinquant’anni e non combatteva più. Era originario di Padova dove era stato arruolato dalle Brigate Rosse nei primi anni ’80. Aveva partecipato ad alcune azioni delle BR anche importanti, ma già metà della sua vita l’aveva ormai passata in quel buco di culo a marinarsi nel niente. Era stato costretto a trasferircisi nel 1987 quando aveva tradito i suoi compagni, quando aveva parlato con gli sbirri raccontando loro tutto quello che sapeva: dov’era il covo, i nomi del gruppo armato.
Max era diventato un infame e su di lui pesava una condanna a morte emessa dai brigatisti.
Ora era nella Protezione Testimoni della Polizia da venticinque anni e gli era stato assegnato un nuovo domicilio al Lido degli Estensi, un lavoro come impiegato in una agenzia immobiliare e un nuovo nome, Mario Mongardi. In quegli anni di esilio, Max non si era mai sposato, aveva scelto una solitudine al quadrato in quei luoghi salmastri da anacoreta moderno. Le sue compagne di vita erano le prostitute dei sette lidi ferraresi che negli ultimi anni con l’apertura delle frontiere arrivavano a decine: le moldave, le russe, le rumene e poi la novità delle cinesi.
A Max piacevano i pompini, se li faceva fare spesso stando in piedi contro il muro del corridoio di casa, gli piaceva vedere le donne inginocchiate davanti a lui e spendeva sempre qualche decina di euro in più per venir loro in bocca. A volte non si spogliava neppure durante la prestazione sessuale, si teneva indosso quel suo cappotto nero da cui non si separava mai, una sorta di amuleto oscuro che lo teneva lontano dalla pazzia.
***
Erano ormai le 13.30 quando uscì dal bar di Via Silvio Pellico. Si guardò attorno e girò a destra per Viale Ludovico Ariosto per poi imboccare Via Boiardo. Si trovò di fronte gruppi chiassosi di studenti che incominciavano a uscire alla spicciolata da scuola. Max si sedette su una panchina e si fissò a guardare lo spazio bianco del Porto Canale che si stava animando come un acquario di strani pesci tropicali.
I maschi urlavano inneggiando a Mussolini o imprecando contro Dio e il Diavolo, le femmine in gruppi di tre o quattro, invece, sghignazzavano e si affrettavano a prendere le corriere che ormai erano arrivate, le avrebbero riportate nei tanti paesini limitrofi: Codigoro, Mezzogoro, Lagosanto, Volania, Lido degli Scacchi…
Max vide una ragazza di circa vent’anni. Era diversa dagli altri, camminava da sola. Tutta quella solitudine lo eccitò. Poi la riconobbe, era Giovanna, la figlia del gestore del bar vicino a casa sua, il Babylon. Non aveva mai notato prima la sua bellezza notturna. Quella giovane donna, sul metro e settanta, aveva gambe lunghe e affusolate, era magra, aveva due seni piccoli e duri che si intravedevano sotto una giacca di pelle nera. Gli occhi erano grandi e allungati di un nero assoluto, il viso ovale e pallido era incorniciato da una splendida frangetta dello stesso colore degli occhi.
L’uomo aveva avuto tanto tempo per esaurire con lo sguardo i luoghi e le persone di quel lido sperduto (come aveva fatto in tre giorni George Perec, in place Saint-Sulplice a Parigi, con uno splendido esercizio letterario in una bohème molto più confortevole della sua), ma il sorgere lunare di Giovanna arrivò imprevisto, non era mai entrata prima nella sua indagine sui poveri abitanti di quella parte d’inferno. Una rivelazione. Era il 30 ottobre.
Max la seguì per tutta Via Torquato Tasso e poi per Viale Giovanni Pascoli. Seguiva la sua solitudine sottile attraverso quelle strade lastricate da foglie secche di platano. Era quasi alla fine di Viale dei Lecci, una piccola strada scassata dalle nodose radici dei pini marittimi, quando Giovanna si girò fulminandolo con uno sguardo pieno di malizia. La sua preda si era accorta della sua presenza maldestra da pedinatore di scarso talento; anche in clandestinità quando faceva parte delle Brigate Rosse, Max non si era certo distinto per le sue grandi capacità di seguire gli obbiettivi da colpire senza dare nell’occhio. Prima di entrare nelle BR, Massimo Schiavon era stato uno studente di filosofia che aveva mangiato e digerito tutti quegli autori che un vero rivoluzionario e compagno doveva leggere: Marx, Engels, Lenin, Marcuse, Mao… Ora non riusciva più a digerirli quelli là. Leggeva solo autori solipsistici, individualisti e frammentari… Si rimpinzava dei loro aforismi come se fossero patate fritte, uno tirava l’altro, non riusciva più a finire quei grandiosi piatti sistematici che aveva amato tanto nella sua giovinezza. Ora portava sempre con sé un libro di Caraco, Post Mortem, un testo che l’aveva sempre ispirato nei suoi momenti notturni.
Giovanna affrettò il passo girando a destra e raggiunse il suo cadente domicilio, un palazzone blu, rosa e grigio in cui viveva con il padre.
Max ritornò al presente e l’unica cosa che si stagliava in quel panorama post-atomico di case vuote era lo sguardo nero felino di Giovanna. Pensò di tornare al suo condominio, il Vela d’Oro, per mangiare qualcosa. Salì le scale e trovò nel primo pianerottolo due gatti che scopavano. I suoni che emettevano erano acuti e fastidiosi. Appena videro l’uomo barcollante si staccarono l’uno dall’altro e scapparono da una finestra laterale che portava alla spiaggia. Max aprì la porta e si ritrovò nel suo appartamento. Era in disordine: libri, carta stagnola, polvere, briciole e giornali avevano creato uno strano universo sul suo divano marrone. Aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa da mangiare, tirò fuori due uova, quattro fette di prosciutto cotto quasi rancido e una mozzarella che scadeva proprio quel giorno. Cucinò le uova all’occhio di bue con un po’ di burro e le mangiò insieme al prosciutto e alla mozzarella sul balcone di casa dove poteva ammirare quel maledetto mare calmo. Senza vento.
Pensò a se stesso e alla sua vita senza un nemico e senza un amore. Quell’infinito cielo e quel mare piatto trovarono il loro controcanto nella bottiglia di vino aperta da tre giorni che guardava Max da una mensola della cucina. L’uomo la prese con forza tra le mani e si stese sul divano. Volle possederla in fretta, se la scolò tutta d’un fiato concludendo la performance con un lamento animale che nessuno sentì, neanche quei due gatti che ormai erano già lontani.
***
Si svegliò che erano quasi le sette di sera, il crepuscolo investiva quella parte di mondo e Max sembrò sentirsi meglio immerso nel buio. Pensò che uscire e cercare Giovanna era l’unica cosa da fare. Per tutta la settimana non avrebbe lavorato, in quel periodo dell’anno lui e il suo collega di lavoro avevano l’accordo di aprire l’agenzia immobiliare una settimana a testa. Giovanna doveva diventare il suo nuovo obbiettivo, non per ucciderla, gambizzarla oppure sequestrarla come si faceva nelle BR… Solo per scoparla. Volle subito andarla a cercare nel bar del padre che apriva alla sette, magari quella sera Giovanna sarebbe venuta a dare una mano come faceva talvolta.
Si ritrovò su una strada piena di insegne al neon spente, c’era solo la luce diabolica dei lampioni che accompagnavano come servi devoti viali deserti interrotti di tanto in tanto da costruzioni che sembravano mausolei neoclassici. Li avevano costruiti dieci anni prima per rendere quella parte di litorale adriatico più attrattivo per i turisti, il risultato di dubbio gusto aveva qualcosa di grottesco. L’unica insegna accesa era quella del Bar Babylon. Apparteneva a Gino Luciani, il padre di Giovanna. Lo gestiva assieme a una donna moldava, Ana, la sua amante, dopo che la moglie se ne era andata per un cancro al pancreas nel 2001. Un bar che durante le notti autunnali era frequentato da poca gente: ubriaconi, stranieri, qualche giovane del luogo, poche coppie. Un bar che non richiamava mai più di quindici persone a serata.
Solo il sabato la gente si moltiplicava per la serata karaoke dove cantanti improvvisati pieni d’alcool urlavano come diavoli i pezzi più famosi della musica leggera italiana. Max entrò cercando con lo sguardo quella splendida creatura che aveva inseguito nel primo pomeriggio, trovò solo lo stanco sorriso del padre e le tette rifatte della sua amante balcanica.
-Ciao Mario- disse l’uomo quasi senza guardarlo in faccia.
-Ciao Gino, come stai?-
-Bene, si tira avanti-disse asciugando un bicchiere crepato.
-Ciao Ana, come vanno le cose?-
-Così, bell’uomo!-guardandolo negli occhi alla ricerca di un’intesa sessuale.
Max pensò che con Ana avrebbe scopato arcivolentieri, ma il ricordo dello sguardo di Giovanna sembrava essere diventato per l’uomo una massiccia dose di bromuro che inibiva gli effetti degli sguardi delle altre donne. Parlottò del tempo, per qualche minuto, con quell’assurda coppia: lui, alto 1.65, magro, stempiato con un viso scavato e le mani piccole; lei, alta 1.75, decisamente in carne, tette rifatte, sguardo vispo e mani grandi come quelle della Vanoni.
L’uomo vestito di nero si sedette a un tavolo con il bicchiere di gin che aveva ordinato e si guardò attorno. Il bar era cadente, alla parete c’era ancora un poster di Gilles Villenueve e un calendario del 1981. Del marzo di quell’anno lo studente Massimo Schiavon era stato avvicinato per la prima volta dalle BR; nei suoi primi mesi di militanza gli furono assegnati semplici incarichi come portare volantini programmatici in giro per la città, ma già nel 1982 le cose ebbero un evoluzione: incominciò a partecipare ad azioni militari vere e proprie.
Max continuò a scrutare il bar sorseggiando il suo secco gin. Notò a un tavolo in fondo al locale una coppia di giovani che si baciava con passione: le mani di lui si erano infilate nelle mutandine dell’esile ragazza bionda che teneva in braccio. Tre tavoli a fianco, un vecchio pensionato bavoso guardava la scena toccandosi la patta, sembrava uno di quei personaggi diabolici che compaiono nelle tavole di Hieronymus Bosch. Girò lo sguardo verso Max quasi per affermare con forza che quella scena di desiderio, quella parte di mondo apparteneva solo ai suoi occhi malati di cataratta. L’uomo in nero distolse lo sguardo e ripensò a Giovanna. Si avvicinò al bancone per chiedere al padre notizie della figlia cercando di non destare sospetti sulle sue reali intenzioni. Pensò di chiederle della scuola, se avesse già pensato a cosa fare da grande, cose del genere… che ambienti frequentasse, se venisse ancora ad aiutarlo al bar di tanto in tanto…
-Allora Gino, come sta la Giovanna?-disse distrattamente mentre la musica techno continuava a battere all’interno del locale.
-Bene, va a scuola… è stata bocciata, sai… ma quest’anno finalmente ha la maturità- disse fiero.
-E cosa vuole fare da grande?- chiese Max ingordo di informazioni.
-Mah! Vuole andarsene da qui, si è messa a studiare anche per lasciare questo schifo che non ha futuro… Qui le compagnie come la sua ti portano solo sulle cattiva strada… la droga, l’alcool è un problema per questi giovani-
-Hai ragione, Gino-
Quell’uomo che aveva a cuore il futuro di sua figlia stava parlando con un ex-brigatista alcolizzato di cinquant’anni che voleva farsela brutalmente in segreto, probabilmente in un sottoscala.
-Guarda, si parla del Diavolo…-
Apparve alle spalle di Max come una ninfa che sorprende un viaggiatore nel bosco.
L’uomo si voltò e si irrigidì tutto quasi istantaneamente. Giovanna percepì quell’imbarazzo e sorrise maliziosa come nel pomeriggio. Prima salutò il padre e Ana con un bacio e poi strinse la mano a Max.
-Ciao, come stai Mario? Oggi mi è sembrato di vederti, ma non ne sono troppo sicura…-disse quasi ridendogli in faccia.
-Bene, era da molto tempo che non ti vedevo in giro… al bar, intendo- lo raggiunse un’erezione prepotente.
-Ho dovuto studiare molto, sono stata molto in casa… sai, ho incominciato a leggere i libri e a guardare lontano da qui… credo di essere cresciuta- i suoi due occhi grandi e neri e quello sguardo malizioso cercarono in profondità la vita decadente di quel cinquantenne pieno di segreti.
-È vero, ora sei grande- Max la fissò a lungo.
Per fortuna Ana e Gino erano andati dietro nella dispensa a ordinare delle bottiglie di Aperol.
-Ci fumiamo una sigaretta?-disse Giovanna.
-Certo- disse lui avviandosi verso la porta come un bambino impaziente.
I due si accesero le due Malboro guardandosi negli occhi. Poi lei incominciò a raccontargli delle sue ultime letture: Madame Bovary, Dottor Jekyll e Mr Hyde, Il Conte di Montecristo. Max l’ascoltò in silenzio sedotto da quella ventenne piena di energia e con la voglia di andarsene finalmente da quel deserto sul Mar Adriatico. La loro conversazione fu interrotta da una telefonata di un’amica di Giovanna che la invitava alla festa di Halloween che ci sarebbe stata il giorno dopo in uno dei locali alla moda nel vicino Lido di Spina.
-Perché non vieni anche tu?-disse lei.
-Ok, ma ci si deve vestire?-disse Max un po’ interdetto.
-Certo, vestiti come vuoi, ma cerca di pensare a qualcosa di figo-
-Va bene- disse quasi imbarazzato da quella prospettiva troppo giovanile per lui.
-Ora devo scappare da un’amica… ci vediamo alla festa domani alle dieci, ok? Ti aspetto al Lovercraft a Spina. Non tirarmi il pacco! Ciao!- se ne andò, ma lo guardò prima negli occhi alla ricerca della sua esperienza di uomo maturo.
Max rimase sulla strada, guardò verso l’alto, era una notte senza luna. Chiamò al cellulare Ramona, una puttana italiana che lo raggiunse nel suo corridoio di casa. L’uomo in nero si aprì il cappotto e le venne in bocca per settanta euro.
***
Max si alzò molto tardi, erano quasi le tre del pomeriggio quando si fece un panino con i pomodori secchi e la bresaola accompagnato da un bicchiere di rosè in un piccolo bar di Via Giovanni Verga. Aveva dormito bene, aveva sognato il corpo fresco e profumato di Giovanna come un lirico paesaggio collinare che lo portava via da quella metafisica e desolata pianura. Quando tornò a casa erano già le cinque del pomeriggio. Incominciò a pensare al look della serata. Vestirsi da vampiro, da Frankenstein o cose del genere non se ne parlava proprio. Vide che in un angolo della casa erano appallottolate un paio di collant nere. Idea! Vestirsi da donna. Sarebbe diventato Maria. Sotto casa era ancora aperta la boutique della sua amica Marta che l’avrebbe aiutato certamente per quell’operazione di travestimento.
Marta, infatti, fu molto divertita dalla cosa e lo abbigliò in nero con un tubino per taglie forti (Max si trovò dentro a un vero e proprio tubone) a cui abbinò un paio di guanti neri di seta, una mantella di pelliccia di un animale non ben identificato e un paio di scarpe con il tacco numero 43 che la donna teneva in negozio casomai qualche trans della zona ne avesse avuto bisogno. Prima di salire in casa Marta truccò Max con del cerone bianco, non prima di avergli stirato le sue folte sopracciglia con della colla Pritt. Poi gli disegnò due sottili sopracciglia da diva anni ’60 con la matita nera e gli passò sulla bocca un rossetto scarlatto. Maria era pronta. Ma prima il tocco finale… una parrucca rossa alla Milva, la Pantera di Goro.
Max ringraziò Marta e risalì a casa con una busta piena di vestiti da donna che erano già le otto di sera. La strada era deserta e lui sembrava un clown in attesa della fine del mondo. Dopo aver mangiato alcuni rimasugli di cibo rimasti nel frigo, l’uomo fissò il suo viso nello specchio del bagno, scoppiò in una risata che attraversò tutto il suo passato. Si vestì infilandosi prima i collant, poi il tubino, i guanti, le scarpe, la mantella e infine la parrucca che coronò quella trasformazione grottesca. Nel corridoio prese il suo cappotto nero e scese in strada dove la festa dei morti era già iniziata.
La notte delle streghe. Figure infernali che parlavano comacchiese erano uscite per le strade. C’erano fantasmi, vampiri, zombies che correvano e ridacchiavano in quella strana scatola aperta apocalittica che era il Lido degli Estensi. Max camminava piano, strisciando vicino ai muri mentre urla inumane lo accompagnavano verso il Lovercraft, il luogo della festa.
Max entrò nel locale alle dieci in punto, si guardò intorno, ma di Giovanna neppure l’ombra. Pensò di sistemarsi al bancone del bar per bere qualcosa. Ordinò un bicchiere doppio di gin. Poi ne ordinò un secondo, un terzo… al quarto girò lo sguardo alla sua sinistra e vide Giovanna che lo fissava. Max le si avvicinò.
-Mario… ma sei tu?- disse lei un po’ stupita.
-Sono Maria- disse lui con la lingua grossa.
-Io invece mi sono vestita da vampira- aprì il mantello per mostrargli quel fisico magro da ninfa oscura.
-Perché non bevi qualcosa con me?- disse lui prendendola sottobraccio.
-Certamente, signora-
I due bevvero tanto. Max continuò con il gin, Giovanna invece si scolò cinque vodka tonic giganti. Ballarono lascivi in pista fino a quando lei non alzò il livello: incominciò a toccare l’uccello di Max sotto quel suo nuovo tubino. Lui le si avvicinò e Giovanna incominciò a masturbarlo in pista, mentre tutte quelle creature della notte del Basso Ferrarese erano impegnate a distruggersi il cervello di anfetamine.
L’uomo la prese per mano e la trascinò senza dir niente nel retro del locale. La sbatté contro il muro e volle sentire tutto il suo corpo contro il suo. La baciò profondamente. Giovanna poi si chinò, alzò il tubino dell’uomo e, dopo avergli abbassato i collant, glielo prese in bocca. Percorse interamente con la lingua ogni centimetro di pelle del suo cazzo.
Max percepì il freddo piacere del piercing quando gli stuzzicò il glande con perizia poi una calda voluttà quando lo ingoiò facendolo sparire nella sua bocca. Preso dal furore la fece alzare, le strappò le mutandine nere e incominciò a penetrare con forza la sua vagina umida di desiderio contro il muro.
Giovanna mugulò di piacere, mentre lui ansimava sul suo orecchio destro farfugliando qualche frase sconnessa in dialetto veneto. Vennero nel medesimo istante con un sonoro urlo inascoltato. Ricomposti, tornarono alla festa, ma tutto era già finito. Quasi albeggiava. Lei prese le sue cose e si avviarono assieme a piedi barcollanti verso il Lido degli Estensi. Il deserto. Quando furono sotto la porta di casa di Giovanna, lei disse poche parole con la faccia sporca di cerone.
-Ciao Mario, ora so con certezza che la mia clandestinità è finita, ho voglio di andare via da qui-
Poi entrò nel suo condominio fatiscente anni ’70. Max rimase con la sua faccia sfatta a guardare quella porta metallica che si chiudeva. Il trucco scomposto tracciava sul viso dell’ex brigatista macchie di colore bianche, rosa e rosse insieme a righe nere sfumate che ricordavano le atmosfere di Francis Bacon, atmosfere di violenza e morte. Una passeggiata in riva al mare era la degna conclusione di quella serata assurda. Sulla spiaggia troneggiava maestosa una testuggine mezza decomposta senza la zampa sinistra.
Una voce maschile alle sue spalle. Un’idioma a lui familiare.
–Xito ti Massimo Schiavon?– Max non rispose, continuando a guardare quel mare piatto. Poi un urlo invase la spiaggia vuota.
-Xito ti Massimo Schiavon? To mare vaca! Tò, infame, par i compagni, diocan!
Max si girò. Vide solo la canna di una Walther P38. Tre colpi. Due al cuore. Uno alla testa mentre il corpo di Max era già dondolato da quell’acqua sporca.
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Dal verbale n° 7564 del Comando dei Carabinieri del Lido degli Estensi-Comacchio-FE
Alle 7.08 del giorno 1 novembre 20… è stato rivenuto il cadavere di un maschio caucasico, alto 1.80, tra 45 e i 55 anni… non è stato ancora identificato, è vestito in abiti femminili… Tre colpi di pistola (due al cuore e uno alla testa)… Probabilmente un regolamento di conti… Prostituzione.