Lubo, la recensione di Silvia Gorgi del film di Giorgio Diritti in concorso all’80a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

In concorso a #Venezia80, ultimo dei film italiani, Lubo di Giorgio Diritti – alla Mostra per la prima volta – ci racconta una storia straziante, legata a un nomade di etnia Jenish, un’etnia che nella Svizzera della seconda guerra mondiale del Novecento, subì violenze e ritorsioni, la più clamorosa, fu legata ai loro bambini, per più di cinquant’anni strappati alle famiglie e rinchiusi in istituti cattolici o dati in adozione, costretti a dimenticare le proprie origini, le proprie famiglie; addirittura a cui venivano dati nuovi nomi, per cancellare del tutto la loro identità: un vero e proprio genocidio culturale.

Diritti ci racconta l’Odissea personale di Lubo, un artista di strada, nomade, sottratto dalla famiglia, in tempi di guerra, arruolato, poiché sulla Svizzera incombe la minaccia nazista e bisogna difendere i confini del paese.

Nel frattempo alla famiglia vengono sottratti i bambini, e per ritrovarli Lubo Moser, interpretato da Franz Rogowski, molto bravo e in una performance di grande sensibilità – s’inventerà ogni soluzione, in un viaggio, che lo accompagnerà dal 1939 all’inizio degli anni Cinquanta, alla disperata ricerca di quei figli perduti, in un mondo che non ammette la diversità. La storia parla anche dell’Associazione Pro Juventute, che con il volto dell’opera umanitaria per l’infanzia di fatto cerca di eliminare il nomadismo e di cancellare un’etnia.

Un film imperfetto ma affascinante

In sala arriverà il 9 novembre, e sfiderà lo spettatore soprattutto per la sua lunghezza, tre ore e un minuto, che è forse il limite più forte del film, troppo lungo, tanto che nella seconda parte finisce per racchiudere molti avvenimenti che potevano arrivare prima nella storia, alleggerendo di una mezz’ora, quaranta minuti, l’intero progetto.

Non è un film perfetto, ma la storia è affascinante, l’ambientazione molto bella, i costumi, gli arredi, le ricostruzioni sono splendidamente puntuali. Di fatto un’opera imponente, solida, che si regge tutta sulle spalle del suo protagonista – nel cast anche Valentina Bellè, che interpreta la donna con cui Lubo vorrà ricostruirsi una vita – Rogowski (visto di recente in Freaks Out di Mainetti), con una potenza espressiva, e in grado di portare alla luce vicende storiche dimenticate o ignorate.

Una Storia da non dimenticare

S’interroga, infatti, sul senso di giustizia e sulla chiusura che scatta nei confronti delle diversità, portando nei casi più atroci ai genocidi culturali ed etnici. Basti pensare di recente al ritrovamento del 2020 di sepolture senza nome in Canada.

Si trattava di bimbi nativi americani sottratti alle famiglie, per essere istruiti, disciplinati, integrati nella società. Specchi che rimandano al passato e al presente, e alla grande difficoltà da parte dei gruppi sociali di accettare la diversità, di confrontarsi con essa, invece di marginalizzarla e metterla a tacere. Un monito su cui interrogarsi, sempre.