Con M Il figlio del secolo, Antonio Scurati ci regala un romanzo intenso, documento di un’Italia vitale e giovane ma già inevitabilmente segnata

Ti amo molto, più di quanto non credi. Ti abbraccio forte, ti bacio con tenerezza violenta. Stasera, prima di addormentarti pensa al tuo devotissimo selvaggio, che è un po’ stanco, un po’ annoiato, ma tutto tuo, dalla superficie al profondo. Dammi un po’ di sangue dalle tue labbra.

No, non state leggendo le parole che il protagonista innamorato di uno dei romanzi di Ken Follett dedica alla sua amata.

Chi ha scritto queste righe è il Duce Benito Mussolini e la destinataria dell’appassionata dedica è la sua amante, Margherita Sarfatti, che ha ricevuto questa lettera tra il 1919 e il 1922.

Con M Il figlio del secolo, Antonio Scurati è riuscito a convincere la giuria del Premio Strega, portandosi a casa il più ambito titolo letterario a livello nazionale, con 228 voti favorevoli. Il romanzo, edito da Bompiani, è interamente incentrato sulla figura del dittatore italiano ed è l’esordio di una trilogia che ripercorre le orme storiche del Duce, dalla sua ascesa politica fino alla morte.

Nel primo volume di M Il Figlio del Secolo, Scurati prende in esame il periodo storico che va dal 1919 al 1925, ovvero gli anni dell’ascesa al potere fino alle leggi fasciste, passando per il delitto Matteotti.

Il Mussolini segreto, l’uomo prima del dittatore, le fragilità, le debolezze, i pensieri più segreti, in una ricostruzione storica dettagliatissima e corredata da fonti, ritagli di giornale e testimonianze.

M Il figlio de secolo è un crescendo di avvenimenti che non si limita a descrivere una pagina complessa e tragica della storia italiana, ma vuole di più, Scurati vuole di più trascinando il lettore tra le pieghe di quel tempo, lungo le strade fangose della Romagna, nei salotti bene degli intellettuali dell’epoca e tra le aule parlamentari.

“Romanzo” recita la copertina, un vero e proprio romanzo nonostante il “raccontato” prenda più spazio del “mostrato”, rendendo il ritmo della narrazione a volte fulmineo, con le parole che scorrono una dopo l’altra sotto agli occhi del lettore, a volte un po’ più lento e macchinoso, imponendo quella ricostruzione schematica e dettagliata tipica del saggio.

L’obbiettivo era senza dubbio ambizioso e Scurati si è destreggiato discretamente bene tra le pieghe della sua creatura, mantenendo alta a sufficienza l’attenzione del lettore grazie a numerosi ʺpunti di riferimento” nel testo, ovvero capitoli brevi e ben circostanziati, che seguono uno schema di apertura fisso (ritagli di giornale e testimonianze dirette, seguite da luogo e data dei fatti di cui si sta per narrare) consentendo al lettore di “tirare il fiato”, come dopo una lunga corsa, di familiarizzare col testo e di orientarsi in maniera abbastanza agevole in un tomo lungo oltre 800 pagine.

Sì, sarebbe bello svegliarsi all’alba, far saltare baracca e burattini, montare su una spider rossa e marciare su Roma alla testa della giovane generazione, al comando di una colonna di combattenti, di ventenni, di Arditi. È bello il delirio violento del poeta, è bellissimo – vengono le lacrime agli occhi – ma non è la politica. La politica richiede il coraggio gretto, cattivo delle risse di strada, non quello arioso delle cariche di cavalleria. La politica è l’arena dei vizi, non delle virtù. L’unica virtù che richiede è la pazienza. Per arrivare a Roma, bisognerà prima recitare in questa parodia senile, farsi ascoltare dal sinedrio dei vecchi, quella mezza dozzina di rimbambiti, ingenui e canaglie che governano il mondo.

All’inizio il fascismo è movimento giovanile, gli Arditi, qui Scurati riesce a trasferire asetticamente su carta la rabbia, i sentimenti, la follia, la volontà di riscatto, insomma tutti elementi che catturano l’attenzione del lettore e muovono le sue corde emotive, senza che l’autore prenda mai le parti di nessuno, limitandosi a descrivere i fatti nero su bianco.

Il camion, un residuato bellico, procede a rilento su gomme piene, sperduto nei meandri nebbiosi tra i canali di drenaggio di territori anfibi, su giaciture depresse con ampie porzioni sotto il livello del mare. Le sue ruote piene ne aggravano la subsidenza, il lento sprofondamento di questo lembo continentale, premono su serie detritiche spesse migliaia di metri dentro la crosta del suolo. Quando arriva in vista del casolare, il camion rallenta ulteriormente, avanzando quasi a passo d’uomo. Qualcuno suggerisce di spegnere i fari ma non c’è luna, il cielo è vuoto e si perderebbe la strada. Tutte le creature infime che vivono strisciando al suolo, attratte dalla luce dei fanali, escono dalle loro tane. Topi, talpe, lucertole, gechi, ramarri, bisce, vermi, bachi, rospi e millepiedi si avvicinano all’auto avanzando sul ventre. Tra le prime a cercare il giorno artificiale dei fari, per andarvi a cozzare, le falene di ogni peso e dimensione. Il piccolo corpo globulare di un rospo dell’aglio incontra la ruota. Cerca inutilmente di scavare il terreno con i suoi speroni. L’insignificante massa elastica riceve il macigno sul dorso bruno con macchie olivastre, la sfera di materia gelatinosa si tende allo spasmo, poi lo schianto rilascia un suono in cui si mescolano uno sfiato d’aria e un versamento di acque.

«Bleah!» è stata la reazione di un collega autore a cui ho fatto leggere queste righe, ed è proprio così! Quel “bleah!” che il lettore pensa, è tutto! È sentimento, è verticalizzazione di un istante preciso, quello che ti fa pensare “che schifo”, ma che ti fa anche procedere nella lettura, fino ad arrivare al punto in cui comprendi che su quel residuato bellico, lungo quei meandri umidi e paludosi della pianura padana, si è compiuta una spedizione punitiva conclusasi con efferata violenza. Quella stessa violenza che non è più relegata soltanto alle polverose pagine del libro su cui a Scienze Politiche abbiamo dato l’esame di Storia Contemporanea, no: quella stessa violenza diventa viva, tangibile, te la senti addosso all’improvviso, la vedi e la respiri.

Le mummie ministeriali si ostinano a considerare la marcia su Roma come una metafora, ma la marcia è già in atto, nella storia, perché Roma è infetta e bisogna marciare per spurgare la ferita, per toglierla di mano ai politicanti inetti. La milizia è pronta, riformata dalla violenza di un esercito in guerra, la profezia della violenza si avvera, c’è una violenza che libera e una che incatena, la massa è gregge, il secolo della democrazia è finito, lo Stato liberale è una maschera, il Fascismo è l’Italia giovane, forte, maschia, l’urto è inevitabile, il momento è propizio, l’ora dell’attacco è questa, la profezia è adesso. Quando la campana suonerà, marceremo come un solo uomo.

L’Italia giovane, forte, maschia. L’Italia di quelli che stanno dalla parte giusta, mentre tutti gli altri guardano, come impotenti, o forse no, forse increduli è la parola esatta. L’Italia incredula in quel Parlamento dove i socialisti sono azzittiti e dove, unico, si erge Giacomo Matteotti, l’esponente socialista veneto, anche lui uomo prima che personaggio politico. Lo vediamo nelle lettere che si scambia con la moglie Velia, nelle lontananze, nelle crisi e in quel sentimento profondo che li lega, un po’ sacrificato sull’altare di un interesse più alto, quello della patria.

Il lettore di M Il figlio del secolo è in quell’auto – la Lancia Lambda – quando Matteotti viene rapito dagli ex Arditi Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, brutalmente assassinato dopo aver opposto una resistenza inaspettata ai suoi aguzzini. Inaspettata per quell’uomo esile e a modo, resiste Matteotti, ma non doveva andare così per lui, per lui che è tanto dissimile dal Duce.

A sera, quando Rossi affronta il Presidente del Consiglio, stando alla sua testimonianza, Mussolini si farebbe schermo con il suo sarcasmo che, in una sorta di perversa identificazione con la vittima, le presta brani della propria autobiografia: ‘I socialisti sono inquieti a Montecitorio perché da ieri non sanno niente del loro Matteotti. Sarà andato a puttane…

Sul palco del teatro Filarmonico, a Piove di Sacco, in occasione della 5^ edizione di Chronicae, il festival del romanzo storico (organizzato da Sugarpulp ndr), lo ha detto chiaramente Antonio Scurati. Con buona pace di chi vorrebbe trovare una morale e un dito puntato contro i tempi attuali, lui lo ha detto che non ritiene probabile una seconda venuta del fascismo in chiave 2.0.

Scurati ritiene che soltanto quelle circostanze, quel sentimento comune, in quel preciso momento storico, hanno portato alla venuta del fascismo. Oggi, invece, a cosa porterebbero?

… nel momento in cui aveva salito le scale del Quirinale per ricevere dal re d’Italia l’incarico di governarla, Benito Mussolini, di origine plebea, zingaro della politica, autodidatta del potere, a soli trentanove anni era il più giovane primo ministro de suo Paese, il più giovane dei governanti di tutto il mondo al momento dell’ascesa, non aveva nessuna esperienza di governo né di amministrazione pubblica, era entrato alla Camera dei deputati soltanto sedici mesi prima e indossava la camicia nera, la divisa di un partito armato senza precedenti nella storia. Con tutto ciò, il figlio del fabbro – figlio del secolo – aveva salito le scale del potere. In quel momento, il nuovo secolo si era aperto e, al tempo stesso, si era richiuso sui suoi passi.