Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi è un libro imprescindibile per ogni fan di Spider-Man & Co. che si rispetti. Ma è molto interessante anche per capire le dinamiche del business del fumetto USA
Titolo: Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi
Autore: Sean Howe
Editore: Panini Comics
PP: 533
Prezzo: euro 29.90 cartaceo, euro 6.99 ebook
Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi di Sean Howe potrebbe sembrare un un libro per nerd (attenzione: non è fumetto). Anzi, è sicuramente un libro per nerd, ma c’è di più. Il racconto della lunghissima e travagliata vita editoriale della Marvel infatti va al di là della Marvel stessa e dei suoi personaggi. Ma procediamo con ordine.
Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi è una fotografia incredibilmente lucida di sessant’ani di storia americana, un viaggio attraverso la moda, il costume, la cultura e la società a stelle strisce. Immergersi nella storia della Marvel significa entrare nelle vite delle persone che per decenni hanno scritto e disegnato quelle storie, ma anche in quelle di chi con quelle storie è cresciuto.
La Marvel attraverso i suoi fumetti ha raccontato in maniera straordinaria la società statunitense (in maniera più o meno consapevole) e leggendo la storia della redazione della Casa delle Idee, il mitico Bullpen, emerge prepotentemente tutto il lato umano che per decenni i lettori avevano soltanto potuto intravedere.
Per chi è cresciuto con le avventure dei Fantastici Quattro, Spider-Man, Hulk e compagnia bella, leggere questo libro equivale ad assaporare una madeleine infinita: si riscoprono personaggi dimenticati, si rivivono emozioni che si credevano perdute, tornano si trovano risposte a tante piccole domande che erano rimaste in sospeso da tempo immemorabile.
Peccato soltanto per l’ultima parte, a mio avviso un po’ troppo frettolosa, ma molto probabilmente in pochi avevano voglia di raccontare a Howe com’erano andate davvero le cose: sempre meglio evitare di compromettere eventuali rapporti di lavoro.
Questo libro insegna anche una grande lezione, una lezione troppo spesso sottovalutata dai “critici” (e dai criticoni) del fumetto, quelli sempre pronti a pontificare su tutto e tutti dall’alto della loro supponenza e che spesso dimenticano le logiche di mercato all’interno delle quali vengono creati determinati prodotti.
Il fumetto popolare seriale è, prima di tutto, un lavoro di grande artigianato. Dimenticate l’arte, la creatività, il genio e tutti gli aspetti romantici e ideali che potete avere in testa. Qui si parla di scadenze di ferro, di ritmi di lavoro estenuanti, di rivalità e gelosie interne, di rapporti umani durissimi, di manager spietati e di conti (spesso milionari) da far quadrare. Artisti per cui disegnare un supereroe in calzamaglia o uno storyboard per un film qualsiasi era uguale. Manager per cui vendere fumetti, pesce o bulloni è lo stesso. It’s only business.
Certo, non per tutti è stato così, ma in particolar modo per gli autori della golden age il fumetto era per innanzitutto un lavoro, l’arte era un’altra cosa. Tutto è cambiato in seguito con l’arrivo di una generazione di autori cresciuti con il mito dei fumetti e che, di conseguenza, avevano un rapporto molto più culturale con quei personaggi che adoravano. Per arrivare poi a pazzi scatenati che non avevano nessun approccio culturale con il medium fumetto, come Todd McFarlane:
“Se io realizzo un albo con ventidue tavole bianche, e i ragazzini ne comprano un milione di copie, chi se ne frega di come sono stati fatti i fumetti negli ultimi cinquant’anni? Non mi interessa se un tempo c’erano parole e disegni: se ne diamo via un milione di copie, vuol dire che i ragazzini sono contenti, io sono contento e tu vendi un sacco di fumetti” (Todd McFarlane).
Stan Lee e Jack Kirby restano comunque le due figure centrali di Marvel Comics. Storie di eroi e supereroi, e non sarebbe potuto essere altrimenti. Il loro rapporto umano difficilissimo, i loro caratteri completamente diversi e sempre in conflitto: da una parte Stan Lee, il solare genio del marketing, capace di inventare il mito della Marvel come azienda; dall’altra Jack Kirby, The King, l’uomo che ha creato un intero immaginario ma che è rimasto incupito dal livore per il suo mancato riconoscimento artistico.
Interessante notare poi un tema ricorrente nel modo della produzione letteraria di massa, quello cioè del rapporto tra autore e azienda in termini di copyright e successo. Se la storia ci ha insegnato qualcosa è che i personaggi che diventano icone e, di conseguenza, grandi successi commerciali, sono del tutto indipendenti dai loro creatori, con buona pace di Jerry Siegel e Joe Schuster. Quando si tratta di imporre un prodotto sul mercato il peso e la forza della grande azienda è sempre maggiore di quello dell’autore, con buona pace di scrittori e disegnatori.
La cosa in sé non è né giusta né sbagliata, è così e basta: Tex è sopravvissuto a Bonelli e Galeppini, Topolino a Disney, e i personaggi Marvel a Lee, Kirby, Dikto e tutti gli altri. Ogni volta che un autore pensa di essere l’elemento determinante per il successo commerciale di un prodotto editoriale il film è sempre lo stesso: se ne va, firma per la concorrenza o fonda la sua casa editrice, inventa i suoi nuovi personaggi.
E dopo qualche anno se ne torna alla casa madre con la coda fra le gambe, o vive di rendita grazie al successo ottenuto all’interno di determinati cicli produttivi (su questo tema vi consiglio L’inverno del disegnatore di Paco Roca). Stesso discorso per le band musicali: si sciolgono perché tutti sono convinti di essere dei geni e dopo un po’ di anni tornano insieme per garantirsi la pensione, oppure continuano a vivere di rendita con i pezzi degli anni d’oro. Troppo spesso il pubblico viene sopravvalutato in termini di scelte artistiche, così come viene sottovalutato il ruolo centrale della potenza di fuoco (e del rischio imprenditoriale) di chi ci mette i soldi:
“Mi sono stancato di scrivere storie e di non riuscire a pubblicarle. Una cosa su cui da sempre si può contare quando si parla delle due major è che pubblicano le cose che fai” (Steve Englehart).
L’alchimia che porta al successo di una serie a fumetti seriali è qualcosa di complicatissimo e, spesso, gli autori sono semplicemente uno dei tanti componenti di questo successo. Fattori come gli investimenti economici, la distribuzione, il marketing e tantissimi altri elementi sono determinanti tanto quanto la bravura e il genio degli autori.
Tutti sono convinti che dopo di me il diluvio, e invece dopo di te tutto continua come prima. Le eccezioni sono rarissime ma, per l’appunto, sono eccezioni. L’industria editoriale, e quella del fumetto popolare più di ogni altra, è il classico esempio del tutti utili ma nessuno insostituibile, e si ti chiami Jack Kirby, Steve Dikto, Chris Claremont o John Byrne fa lo stesso: vuoi andartene? Arrivederci e grazie, noi si va avanti lo stesso:
“Se saltano una scadenza gli mandi un avvertimento, se lo rifanno li licenzi. Se l’albo non vende, lo sistemi o lo chiudi e licenzi chi ci lavora. Se vende, chiudi il becco e non interferisci. Non puoi stare a controllare personalmente ogni singolo dettaglio. Non c’è tempo. Ci sono troppe cose da fare” (Stan Lee).
E’ un sistema giusto? Probabilmente no, ma funziona così. Il pubblico dimentica tutto e tutti. Salvo poi fare grandi lacrime di coccodrillo quando l’artista di turno se ne muore in miseria perché tutti quelli che stanno piangendo come dei disperati non compravano più niente di suo neanche sotto tortura.
“Tell Mike it was only business…”