Mondocane, la recensione di Silvia Gorgi del film di Alessandro Celli presentato alla Settimana Internazionale della Critica a #Venezia78.
Esordio per Alessandro Celli, a Venezia 78 nella sezione Settimana Internazionale della Critica, con un film distopico, ambientato in un futuro prossimo, in cui Taranto diviene una città fantasma, con le acciaierie all’orizzonte, e il miraggio dell’Africa come luogo cui approdare per uscire da una situazione di povertà e desolazione.
Un film che ha stupito la crew di Sugarpulp – per noi la sorpresa del Festival – coprodotto da Minerva e Groenlandia, e che segna una strada nuova per il cinema italiano, in una narrazione che è un mix fra Il signore delle mosche e La paranza dei bambini.
Sì in questo futuro molto vicino, con riverberi del reale, ci sono due ragazzini, orfani, recuperati dalla strada da un pescatore, in qualche modo da lui schiavizzati, stretti da un forte legame d’amicizia, che vogliono entrare nella gang delle “Formiche”, per riprendersi quello che la vita gli ha tolto.
La città, infatti, è divisa in zone recintate, classi sociali, bande che sopravvivono rubando, uccidendo, e le Formiche godono della guida di Testacalda, un convincente e sempre bravo Alessandro Borghi, a capo di ragazzi abbandonati (“i randagi”) nelle zone contaminate, manipolati da lui psicologicamente; del resto gli fa da “padre”, li accoglie, li fa crescere, ma, se non seguono le sue regole, diviene spietato.
I due orfani, cresciuti ai Tamburi, aspirano a farne parte, non senza una serie di difficoltà, visto che Pietro (Dennis Protopapa) supera la prova d’iniziazione, e viene accolto con il nome di battaglia di “Mondocane”, mentre Christian (Giuliano Soprano), che soffre di crisi epilettiche, viene deriso e schernito dagli altri ragazzi, che gli affibbiano il soprannome di “Pisciasotto”. Ma la loro amicizia non si spezza, e fa sì che entrambi non solo diventino parte della gang, ma vi si mettano in mostra, nelle imprese a delinquere che la banda persegue.
Ma questa gang ha anche una missione, segreta, che va ben al di là della semplice apparenza, ossia della voglia di delinquere, e di controllare un territorio, e questo sarà uno degli elementi che incrinerà l’unione fra i due tredicenni, l’altro sarà la figura di una ragazzina (Ludovica Nasti): del resto l’amore spariglia sempre le carte. Il racconto ha una sua tensione narrativa costante e crescente, un grandissimo ritmo, una regia personale, che non concede nulla alla noia, e in grado di unire il genere al sociale.
Un film che stupisce positivamente, del resto la produzione di Groenlandia di Matteo Rovere è oramai una garanzia, nel saper trovare nuove vie al cinema in Italia in cui i generi si mischiano, nel perseguire una sua poetica nel cinema di genere, esplorando territori lontani dal nostro cinema d’autore.
Celli, che ha scritto anche il soggetto di Mondocane – la sceneggiatura l’ha scritta insieme ad Antonio Leotti – dopo un passato fra corti e fiction, nel suo esordio a quarantacinque anni, è peraltro molto bravo anche a condurre sullo schermo questi giovani attori, davvero straordinari, in questo coming of age, racconto di formazione.
“Nella favela nata all’ombra dell’acciaieria, i figli dell’abbandono sopravvivono senza legge. Dimenticati nella città simbolo di un paese segnato dal degrado ambientale“, una Taranto dell’acciaio, polmone agonizzante, questo post-apocalittico, dalle influenze carpenteriane e milleriane, ha la chiave vincente nella sua declinazione attuale e sociale.