La più bella edizione della Mostra del Cinema degli ultimi dieci anni. La giuria però si dimostra incapace di premiare un nuovo, grande cinema femminile.

La più bella edizione della Mostra del Cinema degli ultimi dieci anni: coraggiosa, appassionante, originale, sicura, organizzata alla perfezione. Un’autentica rinascita.

La giuria però perde una grande occasione e si dimostra incapace di premiare un nuovo, grande cinema femminile.

Orgoglio italiano

Venezia 77 stata un’edizione magnifica della Mostra del Cinema, organizzata perfettamente. I dubbi e le paure della vigilia sono state cancellate dalle misure di sicurezza adottate, dalla professionalità assoluta delle forze dell’ordine e del personale – sempre gentile e inappuntabile – che hanno permesso a giornalisti, critici e appassionati di tornare in sala in piena sicurezza.

E di gioire. Di gioire perché, sia detto senza retorica alcuna, avevamo voglia di tornare al cinema, di essere in sala, di condividere quelle emozioni che una piattaforma non ci darà mai. Non in quel modo, non in quella maniera. Lo schermo gigante, la trepidazione dell’attesa, gli occhi che brillano nell’oscurità, quell’energia quasi palpabile che si avverte all’inizio della proiezione.

E poi le risate strappate a scena aperta o gli applausi che arrivano spontanei nel mezzo di una sequenza particolarmente esaltante o di una scena emotivamente forte. Esiste un senso di comunità, di condivisione che solo il cinema può dare. Tutto questo, ovviamente, senza tacere la magia del sonoro e delle immagini.

La Mostra del Cinema ha riacceso le speranze perdute, ha dato un segnale concreto e fortissimo, ha dimostrato che una via è possibile, che le persone possono tornare in sala e che c’è ancora vita per il cinema dopo la grande pandemia. Un risultato gigantesco. Un traguardo tutto italiano di cui dobbiamo andare orgogliosi. 

Una grande freschezza narrativa

Dopo tanto tempo, giorno dopo giorno, mentre guardavo i trentaquattro film che sono riuscito a prenotare nel corso di questa edizione della Mostra del Cinema – a questo proposito la piattaforma Boxol dopo qualche esitazione iniziale ha funzionato perfettamente e ha consentito a ciascun accreditato di poter fruire al meglio della ricchissima offerta di titoli in piena sicurezza – ho preso coscienza di un fatto innegabile.

La forte presenza femminile fra i registi dei film in concorso – otto su diciotto – ha regalato la miglior edizione degli ultimi anni in termini qualitativi. Ho trovato una freschezza narrativa inedita, sorprendente e per una ragione molto semplice: il modo di raccontare di una donna è completamente diverso da quello di un uomo.

Di queste specificità io credo che le donne debbano menar vanto. Ho adorato The World to Come per la grande capacità di unire letterarietà altissima della storia, lirismo dei paesaggi, intensità interpretativa, fragilità, coraggio, emozioni. C’è stata un’attenzione formidabile al testo di Shepard ma anche una capacità rara di fondere gli stati d’animo con la natura selvaggia, quasi la regista Mona Fastvold ci conducesse in un viaggio romantico fuori tempo massimo.

Posso dire lo stesso per Miss Marx perché Susanna Nicchiarelli ha saputo ritrarre il personaggio di Eleanor, figlia di Karl Marx, in modo magnifico, raccontando da una parte il suo impegno sociale e politico, le battaglie per i diritti delle donne e le sue passioni letterarie, e dall’altra combinando questi elementi di grande profondità con una mise en scene di fascino assoluto, incastonando alcune sequenze in una cornice visiva straordinaria che sembra fluire sullo schermo direttamente dalle tele di Dante Gabriel Rossetti, portandone la magia: una miscela di estetica, simbolismo, romanticismo gotico che fondono insieme suggestioni pre-raffaelite e poesia maledetta.

In modo ancora diverso potrei dire di quanto mi abbia colpito una pellicola come Quo Vadis Aida che racconta fra passione e dolore i fatti di Srebrenica del 1995 durante la Guerra di Jugoslavia. Il film è diretto da Jasmila Žbanić la quale pone al centro della storia una madre che – interprete per conto dell’ONU – cerca di salvare la propria famiglia dalle bugie e dalla sete di sangue del generale serbo Ratko Mladić.

A lasciarmi senza fiato non è stato solo il ritmo serrato del film, le grandi scene di massa degli sfollati che cercano rifugio nel campo ONU, la resa potentissima di una natura che pare morta, uccisa dalla guerra, i volti dei civili e le maschere grifagne e spietate dei soldati… già perché è stata l’interpretazione di Jasna Đuričić a scavarmi l’anima, a mostrarmi una determinazione e una disperazione che non credevo di poter percepire da spettatore, a lasciarmi commosso e spaventato, teso e senza speranza e poi invece ancora lì insieme a lei a cercare un nascondiglio, a chiedere un permesso per la famiglia.

Lei, madre pronta a tutto pur di salvare figli e marito da una fine terrificante. Sono stati questi tre film a spaccare la Mostra in due per me. Sono state queste tre registe e questa attrice a rendere memorabile e straordinaria e toccante questa 77ma edizione. 

Una giostra di illusioni

Mano a mano che vedevo i film successivi e che i giorni passavano, nasceva dunque in me la speranza, l’illusione direi, di vedere Miss Marx, Quo Vadis Aida e The World to Come premiati dalla Giuria della Mostra del Cinema. Certo leggevo anche i giudizi della critica e mi rendevo conto, non senza amarezza, che se il film di Susanna Nicchiarelli veniva apprezzato moltissimo dagli Italiani, risultava invece penalizzato da una critica internazionale che pareva impegnata a voler premiare pellicole di retroguardia.

Quo Vadis Aida, pur venendo lodato, scontava giudizi pretestuosi su una mancata equidistanza narrativa, come se si potesse essere partigiani riguardo a un comprovato genocidio e crimine contro l’umanità. The World to Come invece veniva celebrato a livello internazionale mentre i giudizi italiani parevano più freddi.

D’altra parte, in questa Mostra del Cinema le narrazioni maschili risultavano ai miei occhi più deludenti: il distopico Nuevo Orden di Michel Franco mi era parso un film confuso, brutale, addirittura poco originale nel proporre l’ennesimo colpo di stato a opera di un non meglio specificato regime militare. E che dire de Moglie di una spia di Kiyoshi Kurosawa, un insipido melodramma vagamente spy story, ambientato nel Giappone degli anni ‘40 scritto in modo talmente ingenuo e improbabile da irritarmi: sono uscito dalla sala dopo essermi addormentato per una buona mezzora.

Arrivato all’ultimo film – Nomadland – anch’esso girato da una donna, la cinese Chloé Zhao con Francis McDormand, confesso di aver cominciato ad aver paura. Mi spiego. Il film non è niente male: affronta il dramma di una houseless, Fern, una donna che dopo aver perduto tutto si ritrova con il proprio van a cercare lavoro per sopravvivere.

Impiegata di Amazon – di cui si dà una visione fin troppo rassicurante e buonista – stagionale nella raccolta delle barbabietole, responsabile di camping, Fern conosce un po’ alla volta altre persone come lei che vivono ai margini e che trovano nella condivisione delle cose semplici e della strada un modo per tirare avanti.

La McDormand è credibile e molto brava, registicamente il film è interessante anche se a tratti sembra diventare un documentario celebrativo della bellezza naturalistica degli Stati Uniti, c’è indubbiamente il tema forte di voler raccontare la vita di quanti sono stati spazzati via dalla società in seguito alla crisi economico-finanziaria del 2008-2010, ci sono buone interpretazioni da parte di tutto il cast ma Nomadland non sembrava invincibile. Insomma un film più che discreto ma nulla di più. 

Così, con tutta l’ingenuità che mi contraddistingue, credevo nelle possibilità dei miei tre film preferiti, araldi di un cinema diverso, incarnazione stessa di quei valori di libertà, di novità, di narrazione originale che parevano rappresentare il viatico perfetto per dare un segnale forte nel corso di un’edizione così speciale, sofferta e esaltante insieme.

Una grande occasione perduta alla Mostra del Cinema

Gongolavo, lo ammetto. Ero convinto che avremmo potuto farcela. Perché quest’anno a Venezia era successo qualcosa di straordinario.

Lontani dal glamour, dalle star di Hollywood, dalle major, il cinema aveva un’occasione più unica che rara: Alberto Barbera e i suoi collaboratori avevano fatto un lavoro straordinario perché avevano selezionato una serie di pellicole magnifiche che avrebbero potuto da una parte valorizzare al massimo il contributo femminile al mondo del cinema – anche Le sorelle Macaluso di Emma Dante si era confermato film bellissimo – e dall’altro ritrovare una dimensione di cinema che pur senza essere di nicchia, riusciva a dare un segnale di indipendenza e coraggio che lo rendeva libero da dinamiche da blockbuster o comunque da kolossal americano.

Ritrovavo insomma quella miscela di arte e narrazione che avrebbe potuto ottenere successo in sala, tanto più se “spinta” dalla giuria del concorso grazie al riconoscimento di qualche premio importante. Per spiegarmi meglio: a vincere sembrava quella dimensione media in termini produttivi che, senza scontare le difficoltà di budget troppo risicati, offriva tutta l’originalità di una visione indipendente, un po’ come accadde con La favorita di Lanthimos, poi premiata con il Gran Premio della Giuria e La coppa Volpi due anni fa.

Lo stesso Nomadland che in principio mi era parso il vincitore annunciato – un film che pur sembrando indipendente è prodotto dalla Searchlight, distribuito dalla Disney e diretto da una regista che sta per girare l’ennesimo cinecomic Marvel anche se certo ha un passato di coraggiosa cineasta indipendente  – poteva andare serenamente a premio insieme ad almeno altri tre film strepitosi – Miss Marx, Quo Vadis Aida e The World to Come –, magari insieme al bellissimo, ma molto classico, Dear Comrades del maestro Andrei Konchalovsky. 

Tornando alla realtà

Venezia 77 mi ha regalato un sogno e ci ho creduto fin quasi alla fine. E con me tutto il team Sugarpulp. Eravamo convinti che il valore di quei tre film fosse evidente, incontestabile.

Ma già i risultati di un’altra sezione della Mostra, La settimana della critica, avrebbero dovuto metterci in guardia. Perché dopo aver visto due capolavori come Shorta e Topside – e va detto che quest’anno il programma de La settimana della critica era sensazionale e porgo i miei complimenti al direttore Giona A. Nazzaro e a tutta la sua squadra – ci eravamo ritrovati a vedere premiato Ghosts, un film che non valeva nemmeno la metà degli altri due. Almeno a nostro parere.

Però certo, abbiamo accettato il giudizio della giuria. Ma per il concorso ci credevo ancora, ero convinto che ci fosse spazio per un cinema nuovo, diverso, giovane, coraggioso.

E invece…

Una strana marea andava montando. Un’acqua nera che pareva voler sommergere i sogni. Erano uscite le medie voto dei film combinando stampa italiana e straniera (faccio notare che su sedici critici riportati tre sono donne e tredici uomini) e Quo Vadis Aida finiva al quinto posto, Miss Marx al sesto, The World to Come addirittura settimo.

Pazienza, mi ero detto: se la giuria recepirà queste indicazioni sia Miss Marx sia Quo Vadis Aida riusciranno comunque a portare a casa premi.

Mostra del Cinema, il sogno spezzato al Lido

Cinque ore dopo sono in sala stampa ad ascoltare i titoli annunciati da Cate Blanchette, presidente di giuria. E non voglio crederci.

Il Premio Osella, per la miglior sceneggiatura, viene dato a The Disciple del regista indiano Chaithanya Thamane, una pellicola che non ha certo nella storia il proprio punto di forza ma che vanta la produzione esecutiva di Alfonso Cuarón. Premio speciale della giuria a Dear Comrades di Andrei Konchalovskj – Russia

Coppa Volpi maschile è Francesco Favino che è certamente uno dei più grandi attori italiani ma che non è certo protagonista nel deludente Padrenostro di Claudio Noce. D’altra parte, Favino ha fornito tali e tante prove di grande recitazione che il riconoscimento ci può stare come premio a una carriera strepitosa e dunque accetto il verdetto, seppur sorpreso.

La coppa Volpi a Vanessa Kirby per Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó è indubbiamente più azzeccata anche se l’interpretazione di Jasna Đuričić a mio giudizio non aveva eguali.

Ma è nei tre premi successivi che i miei sogni vengono fatti a pezzi: perché il Leone d’Argento per la miglior regia è di Kiyoshi Kurosawa per l’insulso Moglie di una spia, uno dei film più brutti della Mostra, e il Gran Premio della Giuria è per Nuevo Orden di Michel Franco, un pastiche confuso, sadico, mal recitato, poco originale. In ultima, il Leone d’Oro va al vincitore annunciato, Nomadland. Che tristezza!

Amarezza

La sequenza di premi mi annichilisce, mi lascia senza parole. Ma come? Di otto film diretti da donne vince solo quello di Chloé Zhao? Tutti gli altri non ricevono nulla? Nemmeno un Premio Speciale come invece accade, meritatamente, per Dear Comrades di Andrei Konchalovsky? Come può essere che dei sette premi più importanti solo uno va al film di una regista?

Perché, sia chiaro, Vanessa Kirby vince la Coppa Volpi per l’interpretazione di un film diretto da un uomo. E come è possibile che in una giuria in cui le donne sono quattro su sette si arrivi a un risultato del genere? Confesso che queste domande ancora oggi mi ronzano nella testa e accendono una serie di riflessioni nessuna delle quali però riesce a dare una spiegazione ragionevole a un finale di Mostra molto amaro e profondamente ingiusto.

Si dirà che i giudizi vanno accettati. Certamente. Ma non può nemmeno essere che non possano essere oggetto di critica. E che non si possa dire che in me c’è molta delusione.

Si è perduta una grande occasione, questo è certo. C’era la possibilità di dare un segnale forte. Senza rubare niente, sia chiaro, perché Miss Marx, Quo vadis Aida e The World to Come erano film meravigliosi e profondamente originali.

Si è invece scelto di mantenere forte il legame con Hollywood, ancora una volta, lanciando di fatto la corsa di Nomadland agli Academy Awards. Di preferire film di nicchia estrema come The Disciple e Wife of a Spy, decretando in questo modo un ulteriore allontanamento del pubblico dalla sala che già sta soffrendo moltissimo.

Si è in generale scelto di rimanere ancorati a una narrazione di retroguardia che non porta niente di nuovo e che, inevitabilmente, consegna le sale italiane all’alternativa secca fra blockbuster e snobismo intellettuale supremo. Il fatto più grave è che a farne le spese, come sempre, sono le donne che avevano in concorso film che avrebbero meritato ben altro riconoscimento. Da due giorni non ho pace per questo amaro finale che ha il sapore della beffa, no peggio del sogno spezzato.

La sensazione, bruttissima, è che la giuria non sia stata all’altezza di una mostra troppo bella, importante, coraggiosa. Nessuna voglia di osare nel verdetto, nessuna volontà di premiare qualcosa di nuovo, nemmeno l’onestà intellettuale di riconoscere quel che era sotto gli occhi di tutti e cioè che le donne avevano girato film più belli e più importanti degli uomini.

Eppure la selezione era stata perfetta, Alberto Barbera e il suo team avevano fornito alla giuria la migliore occasione possibile per cambiare rotta, per una volta. Un premio su sette è il risultato finale. E un’amarezza infinita.

L’edizione più bella della Mostra del Cinema degli ultimi dieci anni, la più importante, la più appassionante rimane intatta, certo. La Giuria però ha molte colpe. Molto, forse troppo, da farsi perdonare. E forse non c’è perdono per questa ennesima ingiustizia perpetrata nei confronti delle donne.