La protagonista ultra-nazionalpopolare di Niente, più niente al mondo lascia un’interrogativo: esiste davvero gente così?

Niente, più niente al mondo, la recensione coverTitolo: Niente, più niente al mondo
Autore: Massimo Carlotto
Editore: Edizioni E/O
Pagine: 72
Prezzo: 7 euro

La protagonista, che parla in prima persona, è una donna normale in una famiglia normale, anche troppo.

Sposata con Arturo, che dopo esser stato licenziato ha trovato un lavoro meno remunerativo, ha una figlia sempre più difficile da proteggere e controllare.

La loro situazione economica precaria assorbe ogni energia della donna nella ricerca di un equilibrio per stare a galla, uno sforzo costante che le impedisce qualsiasi altra prospettiva che non sia la sopravvivenza e lo stordimento mediante i diversi strumenti che la società dell’intrattenimento di massa offre ai ceti popolari: tv, giornali di gossip, superenalotto, pettegolezzi dal parrucchiere.

E vermouth, tantissimo vermouth.

Questa signora non ha nemmeno il conforto degli affetti familiari: le divergenze col marito impediscono qualsiasi reale comunicazione, e sua figlia è una fonte inesauribile di delusioni, avendo ella deciso di non seguire i propositi della madre, che sogna per lei un futuro televisivo, un successo alla “Uomini e donne” che la sistemi per tutta la vita.

La scelta del monologo appare dunque l’unica possibile, accentuando la solitudine della protagonista, che trova solo nel pubblico una sponda per esternare i suoi pensieri raccontando la propria vita scialba e le proprie quotidiane delusioni.

Questo isolamento non può che alimentare i suoi risentimenti: è solo questione di tempo perché la sua rabbia si sfoghi contro un mondo che trama contro di lei impedendo alla sua famiglia di ottenere il riconoscimento sociale che agogna.

Le immagini catodiche sono l’unico modello di successo concepibile per questa donna, e quanto più sono distanti dal mondo reale tanto più sarà difficile accettare questa lontananza impossibile da colmare nell’immobile società classista in cui ci troviamo.

Nonostante il calibro dell’autore, Niente, più niente al mondo mi è sembrata una prova superficiale e scontata, che non trova un modo penetrante per descrivere il mondo che vorrebbe indagare ed anzi si limita ad un catalogo di quelli che, esposti con la perentorietà di ha già certezza sull’argomento, risultano cliché.

La protagonista è tutto ciò che ci si aspetta da un personaggio che deve rappresentare gli effetti nefasti dell’era berlusconiana: tv-dipendente, razzista, meschina, ostile a valori che vadano oltre il mero individualismo, cinica.

Banale è anche la descrizione di Arturo, i cui ideali (buonisti?) lo rendono imbelle, incapace di assumersi il ruolo di padre e marito.

Il rischio, con operazioni come questa, è di offrire il fianco ai detrattori degli intellettuali di sinistra, snob radical chic che giudicano la nuova classe proletaria, la ggente. Sicuramente un po’ meno didascalismo e un po’ più di complessità sarebbero auspicabili.

Se dal punto di vista socio-antropologico non c’è niente che stupisca il lettore, almeno sotto l’aspetto “criminale” troviamo un po’ più di suspense: innanzitutto la vittima (perché, ovviamente, ci sarà una vittima) non è quella che ci si aspetta e ciò già vivacizza la situazione ponendo interrogativi su come andrà a finire questo “monologo per un delitto”.

È la seconda volta nel giro di poco tempo che mi capita di leggere testi di qualche anno fa che, seppur in maniera diversa, parlano della cultura italiana dei primi anni del ventunesimo secolo: se Bacci Pagano, pur coi limiti che avevo sottolineato, imbastiva almeno una storia e dei personaggi godibili in un contesto affascinante, quello di Genova, in Niente, più niente al mondo non c’è nemmeno questo: ovviamente non si può pretendere da un testo teatrale la stessa possibilità di approfondimento ed estensione di sotto-trame, intrecci, arricchimenti che appartiene per statuto al romanzo, ma purtroppo ho avuto la brutta impressione che l’unica ragion d’essere della protagonista sia permettere a Carlotto di esprimere la sua opinione sull’ideologia televisiva e sugli effetti che hanno sulle fasce più deboli.

Un dubbio, però, sono disposto a concederlo a questo libro: forse sono io che non riesco a trovare credibile un personaggio che pensa e parla come la protagonista, mentre magari il mondo là fuori è pieno di gente così.

Può essere un limite della mia percezione della realtà esterna, nel qual caso mi scuso. Ma mi intristisco anche, valutando la possibilità che la vita possa essere così somigliante agli stereotipi che la fiction le cuce addosso.

D’altronde, Woody Allen lo diceva: “La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione”.