Jack Ketchum è un autore racconta storie dure, d’impatto. Marilù Oliva lo ha intervistato per Sugarpulp

Dallas Mayr ha scelto lo pseudonimo di Jack Ketchum per firmare i suoi libri. Un nome che suona duro, d’impatto come i fatti che narra.

Nelle sue molteplici vite – è un ex figlio dei fiori che ha svolto diverse professioni tra cui quella di operaio stagionale, attore, cantante, insegnante, agente letterario e barista, commesso in un negozio di mobili vecchi – ha probabilmente incontrato umanità disparate e disperate anche se, lui racconta, l’idea di scrivere horror gli venne dopo una brutta azione di cui si macchiò in prima persona.

Un giorno di pioggia, una di quelle giornate terribili in cui va tutto storto, tentava di trovare disperatamente un taxi. Quando gliene si accostò uno, lui vide un’anziana signora dall’altra parte del veicolo che stava tentando di salire.

Neanche un secondo per pensarci, il gesto fu repentino: cacciò indietro la vecchia con una spinta e salì ma, arrivato a casa, ebbe dei ripensamenti, si chiese che persona fosse mai diventata e da questi dubbi scaturirono le prime pagine di Ketchum scrittore.

Oltre agli aneddoti, il dato importante è che questo artista classe 1946 scrive opere i cui riscontri di gradimento sono evidenti: tra queste, cito il racconto breve The Box vince il Bram Stoker Award del 1994 riconosciutogli dall’HWA (Horror Writer Association), il racconto Gone lo vince di nuovo nel 2000, così come si aggiudicano gli Stokers le antologie Peaceable Kingdom, nel 2002, e Closing Time, nel 2007.

Per quattro delle sue opere è stato girato un film: The Lost, Red e Offspring e The Girl Next Door (La ragazza della porta accanto), tratto dal romanzo omonimo che nel 1989 sconvolse l’America, scritto a partire da un evento di cronaca.

Proprio su quest’ultimo titolo verte la nostra intervista, in occasione di un evento degno di rilievo: Jack Ketchum, diversi anni dopo il libro In viaggio con l’assassino (Sperling & Kupfer), è finalmente tornato in Italia grazie al fiuto della Gargoyle Books, che ha da poco pubblicato La ragazza della porta accanto.

Intervista a Jack Ketchum a cura di Marilù Oliva per Sugarpulp

La storia de La ragazza della porta accanto (ed. orig. The Girl Next Door, 1989) è tratta da un fatto di cronaca avvenuto nell’Indiana ventiquattro anni prima che tu ne scrivessi: Sylvia Likens, una ragazza di 15 anni, fu torturata e uccisa dalla donna cui era stata affidata, Gertrude Baniszewski e dai suoi figli. La mia prima domanda riguarda il passaggio dalla cronaca al romanzo. Oltre all’orrore che scosse la nazione e che certo allora ti investì, quanto e come un evento si deve sedimentare nel plasma creativo di uno scrittore?

Non c’è una regola precisa. L’importante è che l’autore si senta coinvolto al punto giusto da ciò di cui intende scrivere, quando l’argomento trae spunto dalla realtà. Tuttavia non c’è un limite di tempo perché lo faccia, nel senso che può anche scriverne molto tempo dopo. Ho scritto sulla guerra del Vietnam in Cover tra il 1987 e il 1988, quando la guerra era finita da 12 anni. Anche per quanto riguarda la stesura de La ragazza della porta accanto, il vero crimine che è dietro la storia che racconto è maturato dentro di me per parecchio tempo, sebbene non così a lungo come per Cover. Al contrario, Red l’ho scritto quasi di getto, subito dopo aver appreso dell’incidente che ha ispirato il romanzo.

Nel passaggio dalla cronaca alla finzione narrativa hai cambiato alcuni particolari (ad esempio i genitori di Meg sono morti, mentre i genitori di Sylvia lavorano al circo e sono quasi obbligati ad affidarla alla Baniszewski). Seguendo quali criteri ti sei avvicinato o allontanato dal fatto reale?

Non conosco né la gente del circo né lo Stato dell’Indiana, dove il crimine ha avuto luogo nella realtà, e io voglio e cerco realismo. Per questo motivo ho ambientato la storia in un tempo e in un luogo che conoscevo, ossia la mia città d’origine dove sono cresciuto. Penso che un assassinio come quello di Sylvia Likens possa purtroppo avvenire ovunque. Come Joe Jackson ha scritto una volta: «Dietro ogni casa da sogno, c’è un incubo».

La porta accanto come simbolo delle cose terribili che possono nascondersi ovunque, che sembrano non toccarci e invece sono vicinissime. Il male nascosto è impersonato anche da Ruth, figura amata dai ragazzini all’inizio del libro e lentamente contaminata da un male nascosto dentro di lei. Ruth rappresenta la latitanza della follia che esplode quando si presenta l’occasione?

Ruth è un individuo molto disturbato sin dall’inizio  È una donna profondamente delusa dalla vita, sente che le sta scorrendo davanti, ed è piena di odio per se stessa. Detesta il fatto di essere una donna, ma, finché è circondata da soli ragazzini, riesce a tenere a bada questa avversione per il suo stesso sesso. Le cose cambiano quando le due giovani sorelle Loughlin entrano a far parte della sua esistenza, è allora che tale odio si manifesta. Ruth vede se stessa nelle due ragazze, particolarmente in Meg, la maggiore. Da ciò desumiamo che un tempo è stata una ragazza alquanto carina. Meg e Susan spezzano la corda di questo equilibrio ingannevole e Ruth comincia a distruggersi attraverso di loro.

Sei uno scrittore che tratta il male senza edulcorazioni. Pensi che in questo ci possa essere una qualche utilità etica nei confronti del lettore? Il lettore, venendo a conoscenza del male, acquisisce un livello maggiore di consapevolezza?

Lo spero. Il male è tutto intorno a noi. Penso possa giovare affrontarlo dalla prospettiva di sana distanza offerta da un libro o da un film, e avere idea di come appare e a cosa somigli.

Il coinvolgimento del lettore è stato fondamentale per il successo del libro. Credi che in questo, oltre alla storia, abbia concorso anche la costruzione del punto di vista, incentrato su un ragazzino che narra in prima persona le vicende capitate a Meg, vera grande protagonista del romanzo?

Ho ritenuto che la storia dovesse essere raccontata in prima persona, dalla prospettiva di un vicino, e gli unici vicini cui Ruth consentiva l’accesso nel suo mondo erano ragazzini. In tal modo, ho permesso al lettore di avvicinarsi a Meg, questo perché David, la voce narrante, è profondamente innamorato di lei, a dispetto della sua irresolutezza e della sua inerzia. Per me, il ricorso alla prima persona è una sorta di espediente, perché quando tu leggi – se la scrittura è un minimo buona – è come se sentissi la tua stessa voce nella testa. Così è come se anche tu stessi dentro alla storia.

Il martirio di Meg le consente di salvare sua sorella e permette che i Chandler vengano incriminati. Si può paradossalmente parlare di rivincita finale?

Sì, persino morendo, Meg vince, è lei l’eroina della storia. Riesce a salvare la sorella, e riesce, addirittura, nel lungo periodo, a salvare l’anima di David.

Nel tuo paese sei un autore di successo, sei tradotto non solo in Italia, ma in tutto il mondo (Cina inclusa). Noti una differenza di esigenze e gusti tra i lettori statunitensi e quelli italiani?

Onestamente no, almeno sinora. Per esempio, mi sembra di aver ottenuto successo con una storia come questa poiché essa contiene un genere di universalità che la rende comprensibile ovunque: tutti siamo stati innamorati e giovani, e tutti abbiamo fatto cose di cui ci siamo vergognati. È triste sottolinearlo, ma il tipo di odiosi avvenimenti di cui scrivo è quello che ognuno di noi legge abitualmente sui giornali di tutto il mondo.

L’apprezzamento di Stephen King per il tuo lavoro è risaputo: «Non esiste scrittore che, dopo aver letto Ketchum, possa evitare di restarne influenzato, così come non c’è lettore che possa facilmente dimenticarsene». C’è qualcosa per cui anche tu sei stato influenzato da lui?

Ogni buon libro ha avuto un’influenza su di me in un modo o nell’altro, e molti degli scritti di Stephen lo sono. Lui ha un modo meraviglioso di guardare l’infanzia, ad esempio, ti fa ricordare cosa significhi essere stato bambino. È capace di raccontare una formidabile storia in movimento, e ha uno spiccato senso dell’umorismo. Quindi, sì, certo che Stephen è stata un’influenza per me.

Nel 1981 The Village Voice aveva bollato il tuo primo romanzo, Off Season, come “violenta pornografia” ma la critica si è presto ricreduta tanto che hai ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Com’è oggi il tuo rapporto con la critica?

La leggo raramente. Non ho nulla contro i critici, ma leggo poco di critica, in generale.

Il complimento più bello che ti hanno fatto.

Sui miei libri? Oh, beh, un bel po’ direi. In un paio di occasioni, qualcuno mi ha detto che non aveva mai letto un libro che non gli fosse stato assegnato a scuola o al college fin a quando un amico non lo aveva praticamente obbligato a leggere “Off Season”, e che è stato da allora che ha iniziato a leggere. Mi sembra che questo sia un buon risultato, penso.

Progetti?

Un romanzo intitolato The Woman, sul quale però preferisco ancora non dire nulla.

Visto che il tuo genere è l’horror, ti chiedo di svelarci una tua paura.

I serpenti, senza ombra di dubbio, ci ho persino scritto una storia nella mia antologia Peaceable Kingdom, e la maggior parte delle cose che racconto è vera.

E ora ti chiedo di salutarci con una citazione da un tuo libro.

La prima riga de La ragazza della porta accanto: «Pensate di sapere cosa sia il dolore?»