Le nuvole meccaniche, un racconto inedito di Marco Barizza
Il mio ferro esplode tre colpi in rapida successione, di nuovo l’indice anchilosato si è bloccato sul grilletto. I tre colpi finiscono a inchiodarsi tra le assi di legno marce della baracca degli attrezzi sul tetto della casa della misericordia, l’orfanotrofio.
Il coglione ha già voltato l’angolo. Sblocco l’indice e mi metto in moto, correndo sopra i vetri rotti delle bottiglie d’aria di contrabbando.
Da queste parti vanno per la maggiore, il piccoli orfani si sputtanano la paghetta cercando di respirare un po’ di aria buona. Che fregatura.
Mi fisso nella mente le facce di un paio di stronzi che sorpasso di corsa, se ne stanno rannicchiati in un angolo a trafficare bottiglie mezze vuote che i ricconi di Seaside gettano nell’immondizia ancora da finire.
Cerco di resistere all’insistente desiderio di fermarmi a riprendere fiato. Le bombole d’ossigeno e le maschere anti gas che ci passa il governo sono sempre più scadenti. Dò un giro alla valvola e di colpo la maschera si inonda di aria, nuova linfa.
Di aria, questa roba ha solo il nome. Ci mischiano dentro vapori acquei di terz’ordine, azoto, anidride carbonica, bicarbonato e a volte acetilene e altre stronzate. Roba che ti calma insomma, ti aiuta a respirare lentamente, rallenta il battito cardiaco.
Sei come un squalo pettinato di fresco, pronto a scuoiare un ragazzino. In palla. E a un certo punto mi chiedo che cazzo di roba si respira quel coglione che sto inseguendo sui tetti come un gatto del cazzo. Il tizio, svicola ancora e salta da un edificio a un altro, il tetto del vecchio mattatoio è tutto un inferno pericolante del cazzo e questo ci piomba sopra come se niente fosse e io che sono un vero stronzo, un osso duro, gli vado appresso.
Salto dopo di lui e piombo sull’unico pezzo di ferro che ancora non è marcio. Una salvata da niente. Nella caduta però pianto il gomito sinistro sul duro e sento le ossa andare in frantumi.
Quando a forza riesco a rialzarmi, il cavaliere dell’aria è già bello che distante, e io resto così, come se fossi in vacanza, ad ansimare nella maschera appannata, tenendomi il gomito e pensando alle parole sante che il mio vecchio soleva dire quando veniva costretto da mia madre a incessanti sedute di massaggi ai piedi per le vene varicose.
Il mio vecchio diceva sempre: Sono troppo vecchio per queste stronzate. E Gesù bambino sa, se anch’io sono troppo vecchio per questa merda.
Se la compagnia dice: da oggi l’aria costa di più, tu paga. Se non puoi pagare l’aria, assaggia la vita senza maschera per un giorno o due. Il giorno seguente venderai gli occhi o un polmone per una ricarica di due settimane d’aria pulita. Io no. Io non combatto, non discuto.
Non mi ci metto nemmeno contro la compagnia, io ci lavoro con quegli stronzi e loro mi danno l’aria. Sono solo un cane della Fluxus, un tormentatore mascherato, tutti questi fottuti anni di carriera mi hanno portato qui, su questa merda di tetto a inseguire un dannato terrorista, uno di quegli invasati che vorrebbero portare aria pulita in tutti i ghetti di Pots Town.
In ogni fottuta casa, chissà come poi? Lo sanno tutti che l’aria pulita non esiste più da un pezzo, oltre a questo cielo plumbeo, piatto e mortifero come una lastra luminescente di plexiglass non c’è niente. Nessuna stella, nessun tramonto, nessun fottuto uccello. E così sia dico io, così come dice la compagnia.
La mia pancia trasborda oltre la cintura quando prendo un lungo respiro, il vetro della maschera torna chiaro e la visuale si fa più buona. Alzo il pezzo, miro, un colpo. Mi basta solo un colpo ben assestato e ho finito la mia corsa.
Posso tornare a casa e farmi una doccia, dimenticare questi stronzi, dimenticare dell’aria e di Fluxus. Spingo il grilletto. Un istante per vedere se è andato a segno e il tizio caracolla, inciampa e cade. Ruzzola sulla piattaforma di ferro delle scale antincendio, è fatta.
Devo solo controllare che sia passato a miglior vita e il mio lavoro è bello che finito. Fluxus è contenta, io sono contento. Il mondo resterà una merda anche per oggi, nessuno stronzetto riuscirà a salvare il culo di tutti nemmeno oggi, t’è andata male.
Passo dopo passo mi avvicino a dove ho colpito il fuggitivo, a terra c’è una pozzangherina di sangue, alzo lo sguardo, siamo finiti sul bordo ultimo della città, oltre agli ultimi caseggiata, dominano le nebbie caustiche, i grandi laghi velenosi, le belve mutate e i disperati.
“Ti piace davvero tutto questo?” Una voce mi coglie alla sprovvista, il tizio è vivo, agonizza come un uccellino caduto dal nido.
“Socio” dico osservando le croci del vecchio cimitero ergersi altere e minacciose poco distante. “Socio, non sono io il tuo nemico”.
“Allora dovresti essere dalla mia parte”.
La sua maschera è un vecchio modello, avrà almeno cinquant’anni. L’ossigeno nelle bombole di riserva è quello che tutti chiamano: la speranza del morto. Ossigeno anche peggio di quello che danno a noi. Così nocivo, che quasi non vale la pena di tenere la maschera.
“Non esiste la tua parte, voi ragazzi non avete mai combinato nulla. La Fluxus vince sempre, dovresti saperlo socio”.
“Non questa volta”. Il tizio si sfila la maschera, un movimento lento, solenne.
“Sylas!” dico io sbigottendo.
“La guerra è finita! fa lui.
“Lo puoi ben dire”.
Mi sento triste, non so perché. Questo coglione che ho steso e che sta tirando la pelle ai miei piedi avrebbe dovuto essere il più pericoloso terrorista su piazza, ma a me sembra solo un ragazzino.
“No” continua lui. “La guerra è davvero finita”.
Poi sorride. Non vedevo qualcuno sorridere da… sempre. Sotto le maschere non sai mai la gente che cosa pensa. Un lampo, poi un altro. Sono un povero coglione, trentacinque anni di servizio per farmi fregare da un pivello.
Sylas ha sparato due colpi da un piccolo revolver tascabile a sei colpi che teneva nascosto in mano. Il primo mi sfiora il collo, ferendomi, ma il secondo è peggio. MI entra nell’addome e si perde nella mia carne senza uscire. Le mie gambe fanno cilecca e si piegano, il mio corpo si affloscia, cado a terra sull’altro lato della piattaforma. Lui esita, non mi vuole finire, glie lo leggo negli occhi chiari come la morte. Ma ancora non mi sa di sadico, non so cos’abbia in mente.
Il mio cervello dice: Donnie, raccogli la pistola. Dice: Forza, ammazzalo. Freddalo prima che ti spari lui. Ma i miei pensieri non si trasformano in azioni, il mio corpo è morto.
Fottuta da Sylas, il cavaliere dell’aria. Tutt’attorno a noi, macchine ovoidali con decine di terminazioni cilindriche, tubi e fori e ventole. Si alzano tutte attorno a noi. A migliaia.
“Questa volta Fluxus ha perso” dice Sylas.
“Che cazzo hai fatto?” riesco a chiedere. I miei occhi si stanno per spegnere e quelli di Sylas sono già a buon punto sull’oscura strada della notte.
“Mentre voi eravate impegnati ad ammazzarci, noi studiavamo, costruivamo, sbagliavamo e ricominciavamo tutto da capo. Noi abbiamo sempre lavorato per salvare tutti. Questi sono i nostri figli, le nostre nuvole meccaniche. I cavalieri dell’aria le hanno lanciate ora, io dovevo lanciare le mie, ma suppongo ne faranno a meno”.
“Macchine?”
“Prodigiose macchine che creano nuvole”.
“Questo è ridicolo, cazzo”.
“Ma non impossibile”.
“Non si può fare!”
“Guarda, è già cominciato”.
Le macchine di Sylas già puntellavano il cielo a migliaia, in ogni direzione, denso fumo bianco pareva già scaturire da alcune.
“Impossibile”. Era l’unico pensiero che riusciva a permeare dalla mia mente sconvolta.
“Il processo sarà più veloce di quanto immagini. Infondo è sempre bastato poco”.
Piange. Sylas Piange. Osserva le sue macchine ridare vita e speranza a tutti e io non riesco a non pensare di essere sempre stato dalla parte sbagliata della barricata.
“Fluxus vince sempre” dico io. Cerco di convincermene.
Ma Sylas non mi può sentire. Lui è già bello che andato. Migliaia di migliaia, sono le macchine nel cielo e ogni minuto se ne aggiungono di nuove. Enormi e dense nuvole elettriche si vanno a creare nel cielo della città. Si alza una brezza, comincia a piovere, vento, tempesta. “Che meraviglia”.
Tolgo la maschera, il cielo ha cambiato colore. Alcune sentinelle volanti della Fluxus si alzano in volo, attaccano le nuvole e le prodigiose macchine di Sylas cominciano a cadere e a frantumarsi.
Gli ottoni luccicanti che suonano nuvole ora piombano come meteore, turbinando in una sinfonia di fiamme e fumo nero. Poi un razzo, sparato da terra, colpisce una sentinella. Altri vengono lanciati e gli uomini dai tetti lanciano tutto ciò che possono. Le sentinelle vengono vinte senza sforzo. La gente difende le nuvole.
Nei miei ultimi istanti di vita, alzo le mie vecchie chiappe da terra, vedo le macchine di Sylas imprigionate in un enorme rete metallica.
Devo solo premere un tasto e sono libere. Oltre le nuvole ora, alcune stelle brillano già in un terso cielo azzurro. Stelle. Stelle a non finire.