Padre Pio di Abel Ferrara. La riflessione di Matteo Strukul sul fil con Shia Leboeuf proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia.
Di Padre Pio c’è solo il titolo. A meno di non voler considerare determinante la pessima interpretazione di Shia Leboeuf che peraltro non è certo aiutato da una sceneggiatura a dir poco rabberciata.
La verità è che Abel Ferrara firma un gangster western ambientato in Puglia nell’immediato, primo dopoguerra, indulgendo su un paio di sparatorie sanguinarie e un commento con chitarra slide che nemmeno Ry Cooder.
Fa anche un certo che, sentire i ‘Compagni’ socialisti chiamarsi comrade ‘Camerata’ che certo è la parola inglese, anzi americana, per ‘compagno’ ma il punto è, e non c’è modo di eluderlo, che prendere un mondo come quello della Puglia rurale del primo dopoguerra e farlo parlare in americano regala un effetto fantasy non voluto.
Un regista amatissimo in Italia
Ed è tutto così il Padre Pio di Abel Ferrara, un regista che ho amato alla follia ai tempi di King of New York e Il cattivo tenente, un autore formidabile che ha costruito sul parossismo, l’azione truculenta, il ralenti alla Peckinpah, i colori saturi, uno stile cinematografico e un’estetica, direi, semplicemente unici ma che ormai da troppo tempo hanno perso smalto, ispirazione, efficacia.
Poco male, perché gli applausi arrivano comunque a fine proiezione, a dimostrazione che il regista è sempre amatissimo in Italia e che le sue pellicole anche quando sono completamente fuori fuoco da un punto di vista narrativo, con una trama abborracciata, personaggi tagliati con l’ascia e interpretazioni dimenticabili, non mancano del tutto il bersaglio grazie a uno stile che è davvero originale e anche qui con i neri dei vestiti, della penombra, della notte, gli spazi stretti dei vicoli e delle stradine del borgo, il rosso sanguigno delle ferite e della luce delle candele – grazie a filtri particolarmente virati al vermiglio – lo scintillio delle lame, ebbene il film mantiene una sua fascinazione.
Un finale annunciato
Ma la rappresentazione da parte di Ferrara dell’Italia post bellica di San Giovanni Rotondo, divisa fra lavoratori che provano a unirsi, prelati corrotti e latifondisti spietati è infarcita di cliché e stereotipi, risponde all’idea che un americano che si è poco documentato può avere dell’Italia di quel tempo.
Tutto, insomma, rimane in superficie, con una divisione netta fra buoni e cattivi e un finale annunciato, con una visione manichea e semplicistica che mal s’attaglia alla complessità di quel periodo e della figura di Padre Pio che qui non è nemmeno raccontata: compare in pochi slegati aneddoti nel guarire uno storpio, perdonare una donna, condannare un uomo con pensieri incestuosi, interpretato, a sorpresa, da Asia Argento.
Una sagra trash che può piacere, almeno un po’, solo se si è fan sfegatati del regista americano. Ma perfino così, è necessaria, davvero, molta indulgenza.