Pamfir, un capolavoro per caso. La recensione di Giacomo Brunoro per Sugarpulp MAGAZINE del film che ha lasciato a bocca aperta il Festival di Cannes.
Pamfir, film di debutto del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, ha lasciato tutti a bocca aperta (al 75esimo Festival di Cannes il film era all’interno della Quinzaine de Realisateurs). Io l’ho visto alla proiezione di sabato sera al Theatre Croisette con il regista e i tre attori principali in sala, e vi confesso che se ci ripenso ho ancora la pelle d’oca.
E non tanto per il boato che ha sconvolto la sala al termine della proiezione e per l’emozione palpabile che segnava il viso del regista e del cast, ma perché più ci penso e più mi rendo conto di aver assistito a un film enorme. Un film bigger than life, proprio come Pamfir (interpretato da Oleksandr Yatsentyuk), il protagonista-gigante che dà il titolo alla pellicola di Sukholytkyy-Sobchuk.
Una tragedia che lotta tra mito e modernità
Già dalle primissime inquadrature si ha la netta sensazione conto di trovarsi in un luogo altro, un luogo in cui antichi riti pagani si fondono a una modernità che fatica a trovare una dimensione accettabile. Più il film prosegue e più ci si rende conto di trovarsi in una terra di confine, tra Ucraina e Romania, ma il confine raccontato dal giovane regista ucraino è un (non) luogo universale. Potremmo definirlo un luogo dell’anima o, meglio, un luogo di anime dannate.
Perché quella di Pamfir e delle persone che vivono con lui sono anime dannate, senza speranza, condannate da un destino che non può non ricordare la tragedia classica e che fin dai primi minuti incombe come un macigno.
Contrabbandieri e riti pagani
Pamfir lavora in Polonia, è a casa per partecipare con suo figlio al Carnevale, che però non è il nostro carnevale. Si tratta di un grande rito pagano che mi ha ricordato quello dei Krampus, grande festa molto popolare nei paesi europei di lingua germanica. Un sabba dionisiaco in cui i demoni nascosti dentro ad ogni uomo possono finalmente trovare la luce.
Pamfir ha un passato da contrabbandiere, come un po’ tutti quelli che vivono da quelle parti. Il problema è che, per quanto l’ex contrabbandiere cerchi di guardare al futuro, il suo è un passato che non passa mai. Come una maledizione. Come il destino delle tragedie greche.
E proprio come nelle tragedie greche Sukholytkyy-Sobchuk crea un climax che mette a disagio lo spettatore, che lo fa star male perché sa come andrà a finire la storia ma fino all’ultimo non vuole crederci.
Una regia già molto matura
Con questo film Sukholytkyy-Sobchuk ha creato un film che si candida a essere la grande sorpresa di questo festival di Cannes, un film a mio avviso che potrebbe diventare un vero e proprio fenomeno di culto.
La messa in scena è potentissima, così come sono potenti i sentimenti che escono dallo schermo. La prima e l’ultima sequenza, diversissime tra loro eppure così intrise di magia (rigorosamente nera) e di poesia, racchiudono un mondo intero.
Da antologia la scena in cui il gigante buono fa vedere a tutti chi è veramente, girata e interpretata con rara maestria.
L’amplesso tra Pamfir e sua moglie è un inno all’amore, al sesso, alle emozioni e al desiderio, particolare rivoluzionario in un mondo in cui il desiderio erotico è ormai scomparso dallo schermo (siamo sempre più abituati a vedere corpi perfetti che si limitano a fare ginnastica insieme in scene che hanno la stessa carica erotica della pubblicità del Tonno Insuperabile degli anni ’80).
Ma, davvero, si potrebbe continuare per ore a parlare di questo capolavoro per caso. Però perderemmo solo tempo. Soprattutto quando ci si trova di fronte a film del genere è d’obbligo parafrasare Frank Zappa e dire che “Scrivere di cinema è come ballare di architettura”.
Un gigante sullo schermo
L’interpretazione di Yatsentyuk, infine, è gigantesca (ça va sans dire). L’attore ucraino crea un personaggio sincero, strabordante di vita e di sentimenti, capace di instaurare un profondo legame empatico con lo spettatore.
Un film da non perdere per nessun motivo al mondo.