Intervista a Pasquale Ruju
La zuppa di barbabietole sarà uno spazio dedicato al mondo Sugarpulp a 360 gradi. Credo sempre di più nella contaminazione dei linguaggi narrativi: il romanzo, il fumetto, il videogame, il film, la serie tv, lo storyboard. Perciò nella zuppa ci finirà tutto questo: interviste, articoli, riflessioni e soprattutto proposte di lettura o visione. Amo Dumas e Perez Reverte, Gischler e Carlotto, Frank Miller e Alan Moore, ma anche Rodriguez, Peckinpah, Leone e Zakk Snyder. Sergio Altieri e Markus Nispel, Warren Ellis e Garth Ennis. George RR Martin e Tiziano Sclavi. E vogliamo parlare di Sons of Anarchy? La nuova serie ideata e co-prodotta da Kurt Sutter (quello di The Shield) dedicata ai bikers fuorilegge?
Credo che Sugarpulp sia nato proprio da questo tipo di spinta. Volevamo prendere un immaginario, quello di una certa estetica letteraria americana, e trapiantarlo in Veneto. Lo abbiamo fatto. Ma poi, un po’ alla volta, abbiamo capito che non bastava più, che volevamo di più, che le suggestioni arrivavano non solo dalla letteratura ma anche da tutto il resto. Perciò, personalmente, volevo prendermi questo piccolo spazio per parlare di tutto ciò che è genere, inteso come miscela di gusti, come arcobaleno di aromi: da qui l’idea di una narrativa pulp proprio nel senso che non possa essere confinata negli steccati.
Altrimenti, ragazzi, che palle!
Per questo motivo ho deciso di inaugurare questo spazio con un’intervista a un grande sceneggiatore italiano di fumetti. Pasquale Ruju, infatti, ha firmato negli ultimi quindici anni alcune delle storie più belle di Dylan Dog, Nathan Never, Tex. Ha vinto l’oscar del fumetto per la sceneggiatura nel 2004 e nel 2010 è stato – giusto per dire – lo sceneggiatore di fumetti Bonelli più pubblicato con qualcosa come oltre 1600 pagine pubblicate (sono numeri impressionanti) e quattro serie all’attivo. Non pago, Pasquale ha creato i personaggi di Demian e Cassidy tratteggiando due mondi imbevuti di noir: quello di Demian che respira nella Marsiglia, figlia di Jean Claude Izzo, annegata dal pastis, dagli odori dei fumosi bistrot, dalle atmosfere melo del Porto Vecchio e più in generale del polar francese; quello di Cassidy tutto Stati del Sud, James Lee Burke e Harry Crews, con un occhio al Peckinpah di The Getaway e al voodoo blues di Willy De Ville e Dr. John. Insomma un Autore con la A maiuscola, un innovatore per molti aspetti, capace di consacrare – anche a livello commerciale – il formato miniserie in Italia, che aveva peraltro conosciuto già un ottimo riscontro con gli albi di Brad Barron scritti da Tito Faraci. Perciò senza dilungarmi ulteriormente, vi lascio all’intervista, non prima di aver ricordato che Pasquale Ruju è anche doppiatore e attore, come a dire che poi nella contaminazione non siamo solo noi di Sugarpulp a crederci, anzi.
Matteo Strukul
INTERVISTA A PASQUALE RUJU
S- Personalmente ti considero un grande innovatore nel mondo del fumetto italiano, le tue storie hanno sempre qualcosa di rivoluzionario. Ad esempio l’attacco di “Manila” in Dylan Dog, da te sceneggiata, e disegnata da Corrado Roi, si apre con l’indagatore dell’incubo a un rave party. L’ho trovata un’apertura spiazzante, come a dire: dissacriamo fin dall’inizio. Sei d’accordo?
R- Innovatore forse è essere troppo buoni… seguo una mia strada, passando di genere in genere, in maniera più coerente e sincera possibile. Sincera nei confronti dei lettori, che con il passare del tempo si fanno sempre più esigenti e smaliziati. E questa è una fortuna anche per chi scrive: non puoi sederti sugli allori, devi continuare a cercare, sempre, nuove idee e nuovi modi per raccontarle.
Riguardo al rave party… Effettivamente è una situazione insolita per Dylan, ma è legata al personaggio di Manila, vampira ex ballerina, con la passione per la musica techno. Il più spiazzato, comunque, credo sia stato l’ottimo Corrado Roi quando ha capito che avrebbe dovuto disegnare una folla di giovani esaltati e danzanti. A scrivere “folla di giovani esaltati e danzanti” ci si mette un secondo…a tirarli giù con matita e inchiostro invece…in quei giorni mi fischiavano un po’ le orecchie, se ben ricordo.
S- Che tipo di aroma hai cercato di dare alle storie di leggende del fumetto italiano come Dylan Dog e Tex, quale approccio hai cercato di privilegiare?
R- Quando si scrivono storie di personaggi che sono autentiche icone del fumetto, bisogna avere l’umiltà di “mettersi al servizio” di quei personaggi. È molto più difficile farli muovere in modo coerente con il loro mondo e la loro storia, che cedere alla tentazione di stravolgere e reinventare tutto. Detto questo, è anche divertente fare lo slalom fra i “paletti” che delimitano il campo di azione di un personaggio o dell’altro. E qualche volta, perché no, mettere un piedino oltre i limiti.
S- Proporre miniserie da te create ha risposto al bisogno, credo, di poter avere dei personaggi tuoi, insomma a un’esigenza creativa che immagino nasca spontanea, dopo un po’ che lavori su fumetti comunque ideati da altri e rispetto ai quali, immagino, tu possa permetterti minori libertà. Che differenza c’è fra essere sceneggiatore di un personaggio che esiste già e inventarne uno?
R- Beh, con personaggi tuoi lavori in modo molto più libero. Sei tu che crei il loro mondo, e puoi forgiare e riforgiare quel mondo, così come i loro caratteri, fino a che non li senti “giusti”. A quel punto – questa è una cosa che solo chi scrive può capire fino in fondo – i tuoi personaggi cominciano a “parlarti”. Ti suggeriscono cosa è meglio fare o non fare, quali avventure vorrebbero vivere e in che modo. Sanno fino a dove possono spingersi, ma sanno anche andare oltre. Il più è dare loro un carattere e un mondo, come ho detto.
Dopo, scrivere diventa molto facile.
S- Come nascono Demian e Cassidy? Voglio dire, crei un mondo attorno, ma quando la serie è partita, nella tua mente esisteva il materiale narrativo per tutti e diciotto i numeri? O sapevi solo che quella sarebbe stata la lunghezza massima?
R- Ho concordato con la redazione una durata di 18 episodi e una certa foliazione, conforme agli standard Bonelli (128 pagine per Demian, 94 per Cassidy). Nel proporre il progetto per la serie, avevo già sviluppato le linee narrative principali e i caratteri dei vari protagonisti. Scrivere una miniserie è come costruire un palazzo. Si parte dalle fondamenta, e sai già che arrivato al tetto dovrai fermarti. Dunque, cerchi di fare tutto per benino, mettendo i muri, gli impianti e le finestre dove ci vogliono.
Poi ti sbizzarrisci con l’arredamento!
S- Personalmente amo le saghe a tempo: cioè, capisco che personaggi storici come Tex o Dylan Dog o Julia vendano tanto e non finiscano mai, ma ho la sensazione che un progetto organico, con una durata limitata nel tempo sia alla fin fine molto più efficace, tanto più che esistono sempre gli escamotage degli speciali per farli tornare, come la vedi?
R- Sono d’accordo. Non ho mai proposto una serie potenzialmente “infinita” perché trovo che un progetto a termine sia più in accordo con il mio carattere e il mio modo di essere autore. Detto questo, ovviamente, abbandono le mie “creature” sempre con un nodo alla gola. Di solito quando hanno ancora molto da raccontare.
S- Una serie come Demian mette in luce una profonda conoscenza del noir francese e un grande coraggio, perché non parliamo del classico eroe Bonelli, direi piuttosto di un antieroe, come hai fatto a “portare a casa” una serie così particolare?
R- In realtà non è stato difficile. Sergio Bonelli, grande amante anche lui del genere polar e del cinema nero francese, si è subito innamorato del progetto. È stato grazie a lui, all’appoggio di Mauro Marcheselli e al lavoro editoriale di Michele Masiero, se il biondo chevalier ha visto la luce.
S- Quanto è stata importante la trilogia di Fabio Montale di Jean Claude Izzo per la stesura e la realizzazione di un progetto come Demian?
R- Importantissima. E dire che anni prima, quando cominciai a leggere “Casino Totale”, lo abbandonai dopo poche pagine. Sono un lettore esigente, e il modo di scrivere di Izzo non mi aveva preso da subito. Grande errore. Tempo dopo, mi ritrovai a leggere la trilogia, superai quel primo scoglio e la divorai in pochi giorni. Da allora credo di averla riletta due o tre volte, al punto che il personaggio di Pierre Rivac, nel primo episodio di Demian, è un omaggio al grande scrittore scomparso.
S- Quanto ti ha influenzato nella sua costruzione, a parte come detto Jean Claude Izzo e il polar, il cinema di Olivier Marchal e più in generale il nuovo cinema poliziesco francese? Te lo chiedo anche considerata la tua ulteriore professione di doppiatore e attore per fiction televisive…
R- I francesi hanno saputo innovare il loro cinema e non hanno paura di confrontarsi con i generi, al pari e anche meglio degli inglesi e degli americani. Questo suscita in me una certa invidia. Come abbiamo fatto a perdere così tanto terreno, noi italiani, in un pugno di lustri? Le atmosfere di Demian sono figlie anche di quel tipo di cinematografia, a volte citata esplicitamente, a volte solo accennata. Per fortuna abbiamo ancora il media fumetto, l’unico che in Italia continua a proporre da sessant’anni avventure di genere. Western, horror, avventura, giallo, noir…e il pubblico dimostra di apprezzarlo. La cosa più difficile, in Demian, è stato unire le esigenze avventurose della serie con il contesto realistico in cui è ambientata. Demian è un eroe classico, quasi salgariano, calato in un mondo che non gli appartiene, un mondo duro, spietato, che non ha bisogno di eroi. Il mondo di Olivier Marchal, appunto, ma anche di Mathieu Kassovitz, per fare un altro nome. La scommessa era proprio quella, vedere se una simile miscela esplosiva avrebbe funzionato. Il successo della serie ha dimostrato che siamo stati – Sergio Bonelli, la redazione, lo staff e io – buoni scommettitori.
S- Con Cassidy viri invece verso il crime americano. Ci avverto echi di James Lee Burke e Jim Thompson. Anche qui un eroe negativo, per molti aspetti, un vero figlio di puttana, e poi il blues, la maledizione, il voodoo, c’ho trovato anche Sam Peckinpah ma magari ce lo vedo solo io, anche se l’attacco della serie mi ha ricordato The Getaway, tanto per essere chiari. Da dove arriva il personaggio di Cassidy?
R- Proprio dagli autori e dai film che hai citato, ma anche da molti altri. Cassidy arriva direttamente da quel cinema, ma anche dalla letteratura e dalla musica che chi ha la mia età ha visto, letto, ascoltato nell’adolescenza. Ho cercato di riproporre quelle atmosfere anche a lettori più giovani, suggerendo loro modi di dire, sequenze, costumi, pezzi musicali oggi quasi dimenticati, insieme ad altri che hanno saputo scavalcare i decenni. I seventies mi hanno dato tanto, in termini di formazione. E io, per quel che potevo, ho provato a restituire il favore.
S- Anche qui c’è molto noir dal mio punto di vista, per certi aspetti direi che le due serie di cui stiamo parlando sintetizzano in modo splendido stilemi e archetipi di questo genere che ha in Francia e States le proprie culle narrative. Ma tu che idea di noir hai? Che cos’è per te? In Italia mi pare ci sia molta confusione a questo proposito… tu come la vedi?
R- Come Luigi Bernardi ha detto meglio di me, il noir è sempre la storia di una caduta. La caduta più o meno gloriosa di un personaggio destinato all’inferno. In questo senso, Cassidy, ancora più di Demian, rispecchia il mio modo di vedere il genere. Poi, parlando di fumetti, mi piacciono le contaminazioni. Entrambe le serie presentano elementi noir contaminati con stilemi pulp, action, horror e perfino romantici e di commedia. Il noir – che amo leggere nei romanzi di Carlotto, ma anche in quelli di Izzo, di Manchette, di Stark e di tanti altri – in questo caso arma le fondamenta del palazzo di cui parlavo prima. Poi, piano dopo piano, l’arredamento può variare. Anche parecchio.
S- Sei fra i più quotati e talentuosi sceneggiatori di fumetto, se dovessi trovare un tratto comune alle tue storie, un marchio di fabbrica, un’ossessione che in qualche modo cerchi di rendere ogni volta o che ritorna, be’, se c’è, qual è?
R- Le cose a cui tengo di più sono la coerenza, il ritmo e la sensualità, nelle mie storie. In Tex ho dovuto necessariamente reprimere un po’ il terzo punto… anche se un disegnatore come Seijas lo ha colto comunque e in “Un ranger per nemico” ci ha messo del suo.
S- Sceneggiatura per fumetto e scrittura. Arti diverse eppur vicine, pronte a contaminarsi e a influenzarsi reciprocamente. Esistono autori di romanzi che sono arrivati al fumetto – cito Joe R. Lansdale e Victor Gischler – e sceneggiatori che sono approdati al romanzo – Alan Moore e Warren Ellis – come la vedi? Che cosa può portare la scrittura da romanzo nella sceneggiatura di fumetti e cosa quest’ultima nella prima?
R- Uno sceneggiatore deve scrivere pensando per immagini. Questo, alla lunga, diventa talmente automatico che bisogna contenersi nelle descrizioni, quando si affronta la narrativa. Io ho avuto esperienze di scrittura, recitazione, regia e montaggio cinematografico, e sono stato un (mediocre) disegnatore. Pensare per immagini mi viene naturale, e questo si riflette anche nei pochi racconti che ho pubblicato. Uno scrittore “puro”, invece, deve entrare in quell’ordine di idee per sceneggiare fumetti, o cinema. Non è facile, qualcuno ci riesce e qualcun altro no, ma è necessario. Dal fumetto, inoltre, si impara il ritmo e la necessità di raccontare con il minimo di parole possibili. Del romanzo, invece, amo la possibilità di approfondimento dei personaggi, delle situazioni, data proprio dallo spazio e dal numero di pagine. E poi apprezzo gli autori che studiano e si documentano a fondo. Il duro lavoro si vede, inutile raccontarci balle. E il lettore accorto sa goderne tanto quanto gode di una buona scrittura.
S- Quali sono le tue grandi influenze a livello di scrittura? Con quali autori sei cresciuto?
R- Da piccolo, leggevo Salgari e Verne, Manzoni e Tomasi di Lampedusa. E H. G. Wells. Poi, crescendo, sono diventato onnivoro, proprio come per il cinema, la musica e i fumetti. Ogni autore, ogni opera può lasciarci qualcosa, perché dunque rischiare di perdere un’emozione, una suggestione, uno spunto? Tempo permettendo, certo…
S- Uscendo dall’Italia, meglio USA o Inghilterra? Meglio Frank Miller o Alan Moore? E forse meglio non è nemmeno la parola adatta: cosa preferisce Pasquale Ruju?
R- Ho amato molto Miller (ma anche Garth Ennis), così come ho amato Moore (ma anche Warren Ellis). Torna il discorso di cui sopra: perché scegliere? Prendiamo tutto!
S- Hai mai pensato di mettere la tua scrittura al servizio di un soggetto e sceneggiatura per videogame?
R- Ogni tanto. Sarebbe un’esperienza interessante.
S- Hai nuove idee in cantiere per qualche nuova serie?
R- Per il momento, ho in cantiere un romanzo grafico, molto nero e duro. Ci lavorerò dopo il prossimo Tex, a inizio 2012.
S- Arriverai a scrivere un romanzo prima o poi? Perché io francamente un po’ ci spero…
R- Mmm… un paio di idee ci sarebbero. Mai dire mai…