Prisoners è un thriller nerissimo, crudo ed agghiacciante. Un film che mancava da tempo. Con due grandi protagonisti: Hugh Jackman ed uno strepitoso Jake Gyllenhaal.
Ve lo spiattello subito: Prisoners è un gran film, sicuramente tra i migliori dell’anno. Meglio portarci avanti e mettere le cose in chiaro, nel caso qualcuno, fuorviato dal trailer e dalla limitativa (mai come in questo caso) etichetta di “thriller” pensasse di trovarsi davanti ad un nuovo blockbuster riciclato.
Hollywood ha da sempre amato il tema del rapimento o, per dirla all’inglese, del kidnapping. Un argomento intorno al quale si è sviluppato un vero e proprio filone passando attraverso le trame ed personaggi più disparati.
Nonostante gli esiti si siano fatti con gli anni sempre più altalenanti (e scontati) il pubblico d’oltreoceano (ma anche quello nostrano) continua ad amare questo tipo di storie, che risultano sempre buone per il botteghino.
Il regista canadese Denis Villeneuve, al suo primo film USA, si inserisce in questo sottogenere destrutturandolo con coraggio e prepotenza. La storia nera diventa lo spunto per comporre un dramma di forte impatto emotivo, in grado di inchiodare e angosciare lo spettatore per oltre due ore e mezza. E non è impresa da poco.
Forse il significato della pellicola sta tutto in quel “Padre nostro” recitato sottovoce da Hugh Jackman nell’incipit del film, poco prima che il figlio adolescente abbatta con un colpo di fucile il suo “primo” cervo.
Jackman è Devon Keller, un falegname dai modi spicci e dalle profonde convinzioni etico-religiose. La sua filosofia del “pensa al meglio e preparati al peggio” viene però messa in discussione da un evento terribile e del tutto inaspettato: la scomparsa della giovanissima figlia e della sua migliore amica. Inizia così per le famiglie delle due disperse un incubo ad occhi aperti fatto di estenuanti attese, false speranze e cocenti delusioni.
Ed è proprio la dimensione umana della vicenda a muovere le leve della regia di Villeneuve, che si incolla alle emozioni ed alle incertezze dei suoi personaggi, prigionieri di una situazione capace di mandare in frantumi le loro più profonde convinzioni.
La risolutezza di Keller, pronto a tutto pur di ritrovare la figlia, fa da contraltare alla fragilità della moglie che trova negli psicofarmaci una via per fuggire alla realtà, e ai dubbi dell’amico Franklin, che fatica a legittimare le torture (quelle che Keller propina ad Alex, uno dei presunti colpevoli) come mezzo idoneo per arrivare alla verità.
E poi c’è lui: Jack Gyllenhaal, alias dective Loki, il vero valore aggiunto della pellicola. L’attore statunitense, indubbiamente in una delle sue migliore interpretazioni di sempre, impersona un poliziotto metodico e disciplinato alle prese con un caso del quale non riesce in nessun modo a venire a capo. La sua esasperazione, e di conseguenza quella dello spettatore, aumentano con il passare dei minuti, sino ad un finale coraggioso e spiazzante.
Gyllenhall da vita ad un personaggio fortemente umano, che sotto la corazza del buon tutore dell’ordine nasconde un uomo profondamente tormentato da tutto ciò a cui non riesce a dare una spiegazione razionale. I continui tic nervosi e le improvvise esplosioni di violenza, soprattutto nella parte finale, rendono alla perfezione la sua vulnerabilità di fronte all’imponderabilità degli eventi.
Lo script di Aaron Guzikowski , per ambientazione e tematiche, non può non rimandare alla narrativa di Dennis Lehane e, di conseguenza, ad alcune opere da essa tratte, dal grande Mystic river di Clint Eastwood, all’apprezzabile Gone baby gone di Ben Affleck.
La fotografia livida ed opprimente di Roger Deakis, costantemente sporcata dagli elementi (pioggia, neve), ricorda invece certe atmosfere care a David Fincher e in particolare i suoi Zodiac (di cui, peraltro, Gyllenhall era protagonista) ed il più celebre Seven.
La riflessione più forte del film riguarda indubbiamente la fede. Redenzione, perdono, tortura, espiazione, sono solo alcuni dei tasti toccati dal regista di Trois-Rivières, che si conferma come uno dei cineasti più originali in circolazione. Villeneuve riesce, utilizzando uno stile del tutto personale, a coinvolge e ad “avvolgere” lo spettatore, come pochi altri sono oggi in grado di fare.
Un consiglio? Correte a vederlo. Uscirete dalla sala completamente frastornati.