Il pugno e la carezza, un nuovo editoriale di Francesco Ferracin per Sugarpulp MAGAZINE.

Leggo dell’ennesimo omicidio di una donna per mano del suo convivente, al quale auguro personalmente l’inferno in terra e dopo.

Ogni volta che mi trovo di fronte a simili notizie, che si ripetono con frequenza a dir poco inquietante, vorrei scrivere qualcosa di acuto, per provare a spiegarmi il motivo di questa brutalità. Vorrei levare la mia voce. Unirmi al coro di denuncia. Contribuire allo sdegno popolare – che tende a durare giusto il tempo di piazzare like e aforismi nei canali appropriati. Poi vengo preso dal pudore, e da uno strano senso di frustrazione. E mi costringo a tacere.

Forse perché non voglio fare il gioco di una stampa guardona, sempre più vergognosa, che non si fa scrupoli a infangare la dignità di una persona che ha appena perso la vita, rendendo pubblici i fatti più intimi della sua vita e i dettagli più raccapriccianti della sua morte, informazioni queste che dovrebbero rimanere sigillate nei rapporti di polizia.

Una stampa che sembra più interessata al carnefice che alla vittima, interrogandosi e interrogando i suoi vicini di casa su cosa possa averlo spinto a un gesto tanto estremo; che vuole per forza un movente, perché, nella logica da serie televisiva che ci rende tutti provetti criminalisti, un movente ci deve sempre essere, ed è quasi sempre quello, espresso con un eufemismo: la passione.

Una stampa, quella nostra nazionale, che non ci pensa due volte a pubblicare la foto dell’assassino accanto a quella della vittima, come per obbedire a una perversa par condicio, a umanizzare il vigliacco, sottintendendo così che anche lui, in un certo senso, è una vittima.

Sì perché da Freud in poi tutti sono vittime di qualcosa, e nessuno è veramente responsabile di nulla. Nel nostro caso colpevole è quasi sempre la società materialista che ha reso il maschio tradizionale obsoleto e inadeguato, incapace di tenere a freno le sue passioni/pulsioni; un società che gli ha fatto venire complessi di inferiorità; che ha trasformato i rapporti di coppia in pantomime da inscenare sui social network, per scimmiottare le storie dei “vipparelli” sfornati dal reality show del giorno.

E colpevole è pure la vittima. Colpevole di non essersi accorta di stare assieme a un troglodita, e, in senso lato, del fatto stesso di essere donna. Perché, non facciamoci illusioni, per questi maschi guidati esclusivamente dal cervello rettiliano, l’idea di donna è diametralmente opposta al concetto stilnovistico tanto caro ai nostri poeti; un’idea morta come la cultura che l’aveva ispirata.

Ebbene, tacevo perché, in realtà, non mi interessano i dibattiti su temi sui quali non c’è nulla da dibattere, convinto come sono che individui simili non meritino la nostra attenzione, né tantomeno scuse o alibi morali, ma solo la galera a vita (e la damnatio memoriae).

O forse perché, probabilmente, è troppo tardi per fermare la danza macabra al ritmo della quale il nostro paese se ne sta per uscire di scena.

Ora però mi è presa la voglia di capire non tanto i motivi personali del vigliacco in questione (che, come ho detto sopra, non mi interessano), bensì l’ostinazione ipocrita con cui politici, psicologi, astrologi e opinionisti televisivi continuano a negare il fatto che il fenomeno in esame, che si ostinano a chiamare femminicidio, parola che, oltre a essere irrispettosa – checché ne dica la Treccani che pure lei non è più quella di una volta – è tendenziosa e riduttiva, sia il frutto dell´educazione sentimentale impartita agli italiani dal dopoguerra in poi: un malessere sociale che getta le radici nella nostra cultura nazional-popolare.

L’omicidio della moglie/compagna/fidanzata/amica non è che la punta di un enorme iceberg fatto di maltrattamenti fisici, violenze psicologiche, atti di quotidiana prevaricazione, di uomini senz’anima contro donne incapaci di reagire, di parlare, di denunciare (e spesso non prese sul serio quando trovano il coraggio di farlo).

Non è un’epidemia, piovutaci dal cielo col nuovo millennio, ma un problema “culturale”, originato da decenni di propaganda mediatica atta a formare l´identità dell´uomo italiano: il latin lover (interessante confrontare le definizioni date da due vocabolari: quello di Corriere.it e quello della Treccani), nella sua versione post-bellica, celebrata dal cinema, dalla letteratura e, soprattutto dalla musica pop.

Certo, è vero che Canio, Alfio & altri eroi del verismo musicale ottocentesco avevano reagito in modo violento alle corna, e che a Otello, e molti altri prima e dopo di lui, erano bastate delle calunnie a fargli montare il sangue alla testa. Tutte queste sono, tuttavia, figure tragiche, reali in quanto rappresentanti quella pulsione, la gelosia, insita nell’animo umano, e usate da scrittori e musicisti per condannare, non per giustificare l’atto deprecabile di un uomo irrazionale.

Invece quella carezza, pronta all’occasione a trasformarsi in un pugno, è, a parer nostro, il simbolo della “normalizzazione” culturale della prevaricazione dell’uomo padrone della donna, un uomo che non aveva problemi a prendere a schiaffi la moglie sul teleschermo televisivo, per raddrizzarla, come si suol dire; un uomo che tradiva ma non riusciva a sopportare l’idea di essere tradito, perché così è fatto il latin-lover, un essere fragile e mentalmente instabile (siamo lontani anni luce dal collezionismo patologico di un Don Giovanni, o dal nichilismo sentimentale di Casanova: qui abbiamo a che fare con una patologia di ben altro tipo, e di gran lunga meno complessa, e interessante).

Un uomo che conquistava e possedeva (in questo caso sì) la femmina, che la educava al rispetto e all’obbedienza. E che poteva permettersi di pescare la sua donna fuori dalle scuole medie, aspettando, quando andava bene, che questa capisse cosa vuol dir essere donna ormai… O l´intellettuale che leggeva lolita e ballava al ritmo di Girl, you´ll be a woman soon, soon, you’ll need a man.

Un certo modello comportamentale, chiamiamolo pure gioco delle parti, finì così per contagiare gran parte della popolazione della nostra un tempo ridente penisola, riempiendo le spiagge di creature irsute e arrapate, pronte a mettere in atto il loro diritto di cittadinanza con le prime femmine sfuggite alla tutela paterna. La calata in Italia delle bionde germaniche, fra gli anni ´60 e gli anni ´90, non fece che confermare questa regola, regalando al maschio italiano un senso di superiorità biologica sui maschi del resto del pianeta. Un´idea che venne trasmessa col latte anche alle generazioni successive, e che, a guardar bene, è riuscita a perpetuarsi fino a oggi.

Unico problema è che il “latin-lover” non va più di moda da un pezzo, e l´unico a non essersene ancora accorto è un certo tipo di maschio italiano. E qui ritorniamo al punto di partenza.

Che fare quindi? C’è ben poco da fare, se non assegnare alle donne per diritto, il porto d´armi, da ritirare presso gli uffici comunali con la prima carta d´identità. E alle redazione dei giornali tutti consiglierei, si parva licet, un po’ d’autocritica. E un ritorno alla sobrietà dell’era analogica, per fare come nei paesi più civili, nei quali nelle pagine online dei “grandi” quotidiani il culo (da noi ipocritamente mostrato, ma chiamato lato B, chissà poi perché…) di una signora famosa per essere la figlia dell’avvocato di un campione di football americano noto per aver ammazzato la moglie non è appiccicato alla cronaca dell’omicidio di una donna, né gli exploit amorosi di un ex-modello in un reality show tropicale vengono discussi come se si trattasse di una notizia di cronaca. Dove “la rete” non viene citata quale emanazione del cervello collettivo, ma come la sua assenza (di cervello). Né si presta orecchio allo schiamazzo degli opinionisti improvvisati, che sembrano sempre di più i passeggeri della nave dei folli. (nota: potrebbe essere interessante leggere il libro, e non i commenti, che paiono volere confermare quello appena detto…)

Lasciate lo scandalismo ai giornali scandalistici, e la volgarità al volgo.

E se poi, alla fine, la danza non potrà essere fermata, provate almeno a danzarla con un po’ di dignità.

A tutti i vigliacchi che pensano che prevaricare una donna è diritto dell’uomo auguro di incontrare presto quella del formaggio, che spero assomigli a Mila di Matteo Strukul.